Il falco di Vancouver
di Pietro Felix
Apparso sul n. 791 di Segretissimo (25 gennaio 1979)
— Raggio di Luna chiama Centrale.
Correva sul filo dei duecento, in dispregio a tutti i divieti, da Seattle a Vancouver, appena oltrepassata la frontiera canadese, dentro un fresco corridoio di conifere giganti.
La Ferrari, una Boxer 4004 for USA, non omologata, nera, striscia rossa zigzagante dal cofano alla coda, aveva un aspetto perforante.
L’uomo era in perfetta simbiosi con la macchina: una mano sul volante, l’altra al microfono, e il profilo di rapace che spuntava dalla cuffia radio.
— Qui Centrale. Siamo in ascolto.
Non rispose.
Per regolamento, avrebbero dovuto ripetere il suo nome in codice, quel nome che egli aveva preteso, suscitando non pochi commenti salaci, e posto come condizione al suo ingresso nello SMI, un ristretto ma efficientissimo servizio segreto per la sicurezza dell’industria militare americana, alle dirette dipendenze della Casa Bianca.
Evitavano di farlo il più possibile. Erano dei duri, e si vergognavano a pronunciare Raggio di Luna come verginelle al primo turpiloquio.
L’uomo attese, paziente e sadico. Profondo conoscitore delle debolezze umane, e di quelle del controspionaggio in particolare, sapeva di farli imbestialire, e ci riusciva sempre.
— Ripetiamo: qui, Centrale — ripropose la voce, già allarmata. — Siamo in ascolto, Raggio di Luna, cosa c’è?
Così andava meglio. Anche se dal tono suonava chiaro che, nei loro cervelli biforcuti, l’avevano tacitamente tradotto in “raggio di merda”.
— Cosa non c’è, volete dire — ribatté, rifacendo il verso. — Ho ascoltato il vostro dossier sull’aeroporto di Vancouver: per me, manca qualcosa. Una notizia, un fatto di cronaca probabilmente, oppure una curiosità... apparsa sui giornali qualche tempo addietro... Non riesco a ricordare...
Il tempo scorreva più veloce della sua dodici cilindri. I secondi cadevano sull’asfalto, preziosi come gocce di sangue da un corpo in attesa di trasfusione.
— È tutto quello che abbiamo. — Confermò la voce, dopo un concitato mormorio. — E inoltre, mi dicono che il dossier è aggiornatissimo. Aiutateci voi, se trovate una lacuna.
— Mi sto scervellando, accidenti! Ma proprio non mi viene in mente. E poi, manca il tempo... Passatemi la signorina Kelly.
Erano in ballo le vite di settanta ostaggi: i rappresentanti civili di quasi tutte le nazioni del mondo, convenuti al Congresso della Pace di Quebec.
E lui, il jolly dell’organizzazione, era stato scaraventato da Washington a Seattle, ed ora puntava sull’obbiettivo senza un briciolo di speranza, ma con una determinazione spietata.
— Qui, Kelly. Cosa vuoi, Raggio di Luna? — Era la sola a pronunziare con piacere il suo nome. Aveva una bella voce, e lo arrotondava come un verso di Shakespeare.
— Qualcosa su Vancouver, mia cara, che non trovo nel dossier. Un avvenimento di due anni fa, credo, con riferimento all’aeroporto e a un certo capitano...
— Okay, lasciami pensare...
Proprio su quel campo di volo, gli Stati Uniti d’America, vittime di un’estorsione senza precedenti, stavano per perdere il prototipo del più veloce e sofisticato caccia del futuro: il FHAAR 27 KW 1, costato vent’anni di studi, ed altrettanti di sacrifici da parte dei contribuenti. Non che l’agguerrito servizio di sicurezza fosse venuto meno: non erano preparati a uno spettacoloso ricatto.
Un commando, composto da tre terroristi di nazionalità sconosciuta, s’era impadronito, con rapida e crudele efficienza, del Jumbo della Cp Air che ospitava i Settanta Uomini della Pace, come li aveva definiti la stampa, mentre si trovavano in volo da Quebec a New York, e costretto l’aereo a dirottare su Vancouver.
Qui, in cambio dei settanta ostaggi, pretendevano il caccia USA.
Come fossero venuti a conoscenza, con tanta tempestività, che il FHAAR 27 era stato costretto a un atterraggio di fortuna, per un guasto avvenuto durante il volo di collaudo, nottetempo e su una pista riservata dell’aeroporto di Vancouver, nessuno poteva dirlo con certezza. Ma tanta perizia nel campo dell’informazione faceva supporre che dietro i tre pirati dell’aria si nascondesse una grande potenza.
— Allora, signorina Kelly? — chiese, impaziente Raggio di Luna.
— Ci sono, Raggio di Luna. Il falco... il Falco di Vancouver!
— Centro! Adesso ricordo perfettamente. — Cacciò un profondo sospiro, poi cambiò tono. — Fammi un ultimo favore: consiglia a quei lavativi dei tuoi colleghi di usare le loro artiglierie per spararsi un colpo in bocca, tutti quanti, che Dio li stramaledica!
— Ti prego, Raggio di Luna... Si è trattato di una svista.
— Cristo! Di queste sviste sono pieni i nostri cimiteri!
Seguì un momento di silenzio, imbarazzato da una parte, fumante d’ira dall’altra.
Quando la voce dell’agente si fece sentire, era di nuovo calma, indice di un perfetto autocontrollo:
— Signorina Kelly?
— Sì...
— Meriti una serata coi fiocchi. Al mio ritorno, ti porto da “Attilio” e facciamo scorrere fiumi di Chianti...
— Spiacente — rispose piccata la ragazza. — Sono astemia, e allergica ai poeti!
L’agente scoppiò in una risata gagliarda.
In realtà, la sua copertura a Washington era quella di poeta. Non che fosse soltanto una copertura: amava scrivere versi più di ogni altra cosa al mondo, e i suoi libri, già tradotti in varie lingue, cominciavano a interessare pubblico e critica.
— I dettagli, Kelly — tagliò corto.
— Eccoli: l’inventore è il capitano Bob Randall, primo pilota della Cp Air, trentotto anni, di Vancouver, Potrai trovarlo, fuori servizio, nell’hangar CA 7, situato un po’ prima dell’aeroporto vero e proprio, dove ha impiantato un’officina. È tutto, Raggio di Luna.
— Ricevuto.
Nel chiudere il contatto, nella frazione di una sfumatura di sorrisa, l’agente ebbe la fugace visione della signorina Kelly bionda, nuda, rosea, bellissima. L’unica donna che gli aveva resistito più di tre settimane: ma ne era valsa la pena!
Ma subito scacciò il pensiero per concentrarsi sul problema del momento, scottante, quasi fosse un sacrilegio pensare a queste cose, quando, nello stesso istante, degli ostaggi innocenti venivano massacrati, uno ad ogni ora che passava...
Forzò al massimo la velocità e, di colpo, si trovò fuori dalla cupola verde. Ritenne di essere vicino alla meta; ora poteva sintonizzarsi sul canale d’arrivo.
— Raggio di Luna chiama Ariel.
— È un pezzo che aspetto, poeta da strapazzo!
Era l’ammiraglio Alex Daves, il responsabile governativo delle missioni impossibili. Avevano già lavorato in coppia, con buon esito e stima reciproca. Alex faceva da collegamento tra la CIA e lo SMI.
Come dire: l’elefante e l’antilope.
Succedeva, qualche volta, specie nelle situazioni disperate, che l’elefante chiedesse all’antilope di correre veloce.
Era il caso attuale.
— Maledizione! Con un jet avrei fatto prima.
— Ma non avresti potuto atterrare nei pressi di Vancouver: stato di emergenza.
— Devo pensare che la situazione è schifosa?!
— Ecco il solito ottimista! Ora ascoltami bene: se non hai un’idea più che valida, quando tutto sarà finito, ci converrà piantare qui le nostre tende. Il Canadà ha bisogno di agricoltori e boscaioli...
— Afferrato il concetto. Quanto tempo ci resta?
— Poco. Forse meno di un’ora. Il governo canadese ha capitolato senza riserve, accettando tutte le condizioni imposte dai terroristi...
— Incredibile!
— Niente affatto. È stata una decisione estrema, presa allo scadere della quarta ora, quando un altro ostaggio, un professore belga, veniva scaraventato fuori del Jumbo, col volto spappolato da una scarica di mitra. È finito sui cadaveri dei tre che lo hanno preceduto. Sono bestie selvagge, decise a tutto: vogliono il nostro FHAAR 27, e l’avranno, pena una carneficina!
— Chi sono?
— Orientali, all’apparenza. Ma certo, agiscono per conto di qualche grande potenza.
— Ultimo ordine?
— Distruggere il caccia! Non è che un prototipo, e ne abbiamo altri sei in allestimento. Ma non deve cadere in mani nemiche, assolutamente... acc!
Un’interruzione.
— Qui, Raggio di Luna, cosa succede? Rispondi, Ariel, rispondi...
Ritornò la voce di Alex Daves, irriconoscibile per l’amarezza:
— Stanno portando sulla pista il nostro FHAAR 27. È la fine...
— Usate i bazoka!
— Impossibile. Qui, nessuno può muovere, un dito. Mezzo esercito canadese è stato mobilitato perché venga rispettato l’accordo, e si eviti il massacro degli ostaggi.
— Non hanno torto. Ma il caccia dovrà pur volare, no? Avete pensato ai missili?
— Tutta l’aviazione USA è in “allarme rosso”, ma i pirati, dotati di una velocità superiore, possono agevolmente sfuggire attraverso le maglie della rete. Per giunta, il FHAAR 27 ha, istallata a bordo, la più perfetta e sofisticata apparecchiatura anti-missile che sia mai stata inventata. Così la perdita sarà irreparabile.
— E i piloti del caccia? I servizi di sicurezza?
— In stato d’arresto precauzionale. Solo tu, puoi ancora muoverti senza gendarmeria attorno. Tu solo, sei libero di agire. Contiamo su di te: che la fortuna ti assista!
— Okay!
Nel chiudere il contatto, vide profilarsi all’orizzonte la torre di controllo dell’aeroporto.
Evitò di stretta misura un posto di blocco, sterzando su due ruote, e infilandosi in una stradina non asfaltata, che lo portò direttamente all’hangar CA 7.
Sì, un’idea ce l’aveva, piantata a chiodo nel cervello, precisa e pazza.
Ma era attuabile? Avrebbe trovato il tempo necessario? E la persona giusta? Che tipo era questo capitano Randall?
Per non pensare ai troppi interrogativi, si slanciò di corsa verso una porticina aperta nell’immensa parete dell’hangar.
Non appena le sue retine si furono diaframmate alla scarsa luce del vasto capannone, scorse nell’angolo più lontano, in un bagliore brunorossiccio e riverberi d’acciaio, l’immagine che cercava. Cacciò un sospiro di sollievo.
Subito, un individuo alto e furibondo lo aggredì:
— Non potete entrare qui fuori!
— Il capitano Bob Randall?
— Sì. Fuori lo stesso!
All’agente bastò un’occhiata per classificare il tipo: un uomo onesto, duro, che le lunghe ore di volo avevano temprato nel carattere, profondamente, e responsabilizzato alle decisioni estreme.
Capì che ce l’avrebbe fatta.
Sfoderò i suoi documenti e mise l’altro al corrente dell’incarico. Il capitano lo guardò, sbalordito:
— Per un’impresa del genere, vi mandano solo?!
— No, no. Ho con me una compagna della quale vorrei liberarmi il più presto possibile. Una bomba della leggerezza di un’arancia, ultimo incubo della CIA, capace di far saltare mezza Vancouver.
— La portate addosso?
— Non temete. Scoppia soltanto se tolgo la sicura, e previo impulso radio. E l’impulso, dev’essere trasmesso da questa cassettina. Ecco qui, si schiaccia il pulsante rosso...
— Accidenti a voi! Lasciate in pace quell’arnese. Ditemi, piuttosto, la tirate a braccio, o con la fionda, la vostra bomba? Perché, vedete, la pista dalla quale decollerà il caccia, dista almeno tre chilometri dal punto in cui ci troviamo.
— Neanche per sogno. La porterete voi sull’obiettivo, o meglio, la vostra creatura, e voi la guiderete, precisa sul bersaglio!
Così dicendo, tese l’indice verso un angolo dell’hangar dove, nella penombra, spiccavano un becco giallo e due occhiacci rossi, grifagni.
L’altro parve esplodere:
— Ma è mio! L’ho costruito con le mie mani, e mi è costato più di mille dollari!
— Il governo USA ve lo farà d’oro.
Si calmò subito. I muscoli del vello tradivano appena l’intenso lavorio della mente. Alla fine protestò, con minor convinzione:
— È un’idea da matti! Non ce la faremo mai...
— Sì. Se non perdiamo un istante. Pensate alla gratitudine dei nostri due paesi...
— Sicuro, mi fucileranno!
— Vi faranno un monumento!
Randall restò duro e teso per un paio di secondi ancora, che all’agente parvero un’eternità, poi si drizzò in tutta la sua statura:
— Bill, Harry! — tuonò, verso il fondo dell’hangar. — Sprangate le porte, staccate i telefoni, e preparate la saldatrice!
C’era folla nel breve spazio, lasciato libero dagli strumenti di guida della torre di controllo.
Il Ministro della Difesa canadese, verdognolo, le vene del collo pulsanti, gli occhi cerchiati, sopportava assai male l’ingrato compito di dirigere le operazioni.
L’ambasciatore USA e l’ammiraglio Alex Daves, stretti contro la vetrata che dava sulle piste, erano sorvegliati a vista da un drappello di militari in armi. I loro volti impassibili, contrastavano con gli sguardi furibondi che avrebbero potuto incenerire l’intero aeroporto.
Dappertutto generali, colonnelli, diplomatici di vari paesi, rappresentanti di servizi segreti di almeno tre nazioni, il comandante del campo.
Tutti sulle spine, non osavano fiatare, né guardarsi in faccia.
L’ora delle discussioni s’era chiusa senza possibilità di appello, dopo l’ultima telefonata tra il Presidente degli Stati Uniti e il Premier canadese, interrotta bruscamente.
Non c’era via di mezzo: il FHAAR 27 rappresentava l’agnello sacro, da immolare per la salvezza dei settanta ostaggi. Anche se ciò comportava, inevitabilmente, una frattura nei secolari rapporti di amicizia e di buon vicinato tra le due nazioni.
Alex Daves voltò con ostentazione le spalle ai presenti e si concentrò sulla scena che aveva di fronte.
Nessun aereo nel cielo e sulle altre piste: prontamente allontanati o fatti proseguire verso altri aeroporti.
Mise a fuoco il binocolo sulla pista N. 3, centro cruciale di tutti gli sguardi e di tutte le ansie: ingrandito dalle lenti, il jumbo dirottato della Cp Air gli balzò incontro.
Nulla era cambiato; stava immobile da quattro ore sotto il sole, e non dava segno di vita.
Dovette fare uno sforzo per costringere la sua mente alla realtà: dentro quel ventre bianco, enorme, settanta vite umane, innocenti, dedite alla pace nel mondo, sopportavano una tragedia immane.
Il jumbo appariva ancora più gigantesco rispetto al lillipuziano fuso d’argento, il gioiello dell’aviazione USA, il FHAAR 27 che gli stava accanto con i reattori accesi.
I due piloti canadesi, che avevano guidato il caccia sul campo, erano stati costretti, mani in alto, ad entrare nel jumbo, e ad unirsi alla schiera degli ostaggi.
Alex Daves spostò la mira del binocolo sul caccia e aumentò l’ingrandimento: vide chiaramente l’uomo in tuta bruna, la pelle scura, il cranio rasato – uno dei tre pirati dell’aria – balzare giù dal velivolo.
Portava uno strumento per la ricerca di esplosivi, e sembrava stranamente calmo, soddisfatto.
Fece un cenno a ventaglio verso un finestrino del jumbo, gettò via lo strumento, e imbracciò il mitra.
Dal grande aereo di linea, portello di coda, cominciarono a scendere i passeggeri.
— Che intenzioni hanno? — chiese l’ambasciatore, soffiandogli sul collo.
— Proteggersi, ecco tutto — rispose Alex Daves, senza staccare gli occhi dalla scena.
Ora, i tre terroristi, ben coperti e strategicamente disposti, facevano ampi gesti rabbiosi, e urlavano ordini. Gli ostaggi, intontiti, distrutti, con la morte nello sguardo, obbedivano come automi, e intanto s’andavano disponendo in una lunga fila ai bordi della pista. Anche così, impossibile tentare un colpo di mano: ci sarebbero state troppe vittime...
— Oggetto volante a sud-est dell’aeroporto — scandì, nel silenzio della torre di controllo, la voce neutra dell’addetto radar.
— Pazzi! — urlò il ministro canadese. — Ordinategli di andarsene. Subito, via!
— L’oggetto volante non risponde — continuò il tecnico.
Ogni binocolo fu subito puntato nella direzione indicata.
— Ma è solo un uccello, un falco! Cosa diavolo dite?!
— È un oggetto metallico, signor ministro... ecco, adesso lo riconosco: è il “falco” del capitano Randall.
Il ministro scattò su tutte le furie, subiva all’estremo il peso della responsabilità:
— Spiegatevi meglio, per Dio!
Intervenne il Comandante dell’aeroporto:
— Era su tutti i giornali, signor ministro...
— Non leggo i giornali. Ditemelo voi!
— Il capitano Randall, primo pilota della nostra Compagnia, ha inventato e costruito il “falco” che vedete lassù. Non è altro che un robot, un piccolo aereo telecomandato, in acciaio leggero, con le forme e i colori di un rapace, e un’apertura d’ali di sette piedi. Serve per spaventare e scacciare via gli stormi di uccelli che invadono lo specchio di cielo delle nostre piste, e costituiscono un serio pericolo per gli aerei in decollo. Questi volatili, trascinati nei reattori, li bloccano, con conseguenze assai gravi. Ora, basta la vista di quel falcone in picchiata, per tenere il cielo dell’aeroporto completamente sgombro...
— Ma cosa ci fa in volo, in questo momento? Non vedo stormi di alcun genere!
— Non saprei. Non ha chiesto l’autorizzazione...
— Chiamatelo! Ditegli di portare via quel coso... o avrà a che fare con me!
— Il telefono del capitano Randall è staccato — s’intromise la voce di un tecnico.
— Oh, mio Dio! Se lo vedono i pirati, e succede un disastro, giuro che lo porto davanti alla Corte Marziale!
I pirati l’avevano visto; o meglio, avevano visto un falco, altissimo, volteggiare nel cielo in cerca di preda. Lo avevano trovato di buon auspicio: stessa famiglia di predatori, stessa sete di sangue.
Erano euforici, esaltati, drogati. L’ultimo dai tre, stava scomparendo nell’abitacolo del caccia, quando il pilota, con gesto rabbioso, liberò tutta la forza dei reattori.
L’agile aereo d’argento si slanciò sulla pista, bordata di ostaggi, aumentando la sua velocità al massimo della potenza...
— È rimasta una speranza, ammiraglio? — chiese, pallido, il diplomatico.
— La speranza è alata, signor ambasciatore — rispose Alex Daves, senza staccare gli occhi dal binocolo.
L’altro lo guardò bieco. «È crollato!» pensò.
Sulla pista, ormai lontano, il caccia si staccò da terra con l’urlo dei suoi reattori, e puntò verso il cielo limpido.
Gli ostaggi ruppero verso l’aeroporto gridando, correndo, piangendo e abbracciandosi, cadendo e rialzandosi, mentre le autoambulanze andavano loro incontro, a sirene impazzite.
Lassù nell’azzurro, il “falco” bloccò il suo placido volteggiare, strinse leggermente le ali e calò in picchiata.
Il caccia d’argento saliva verso il sole, come un guizzo di luce pura.
Il “falco” piombava giù, veloce meteora, su una linea obliqua che l’avrebbe portato all’intercettazione.
Ma bastava un soffio per fallire.
Ci pensò il pilota pirata, a facilitare le cose: vide il bolide all’ultimo momento, e all’ultimo momento capì che il “falco” era una macchina infernale. Nell’estremo tentativo di evitarlo, impresse al velivolo una disperata cabrata che espose la fusoliera all’attacco.
— Ora! — urlò il capitano Randall.
Raggio di Luna affondò il pollice sul tasto rosso.
Ci fu un’esplosione di luce, più accecante del sole.
Dove prima si trovava l’aereo, adesso una nuvoletta viola s’andava aprendo come un fiore.
Il tuono dell’esplosione raggiunse l’aeroporto mandando in frantumi un’infinità di vetri. Anche le vetrate della torre di controllo si sminuzzarono in tanti piccolissimi diamanti.
Quando l’ambasciatore USA riuscì finalmente a schiodare le mascelle, a ricuperare l’udito, e a immettere aria nei polmoni, quel tanto per sopravvivere, balbettò:
— Com’è potuto accadere un simile miracolo?... Voi lo sapete, ammiraglio Daves?...
— Il falco di Vancouver, o meglio, il robot del capitano Randall, portava una bomba.
— Formidabile!... Chi ha avuto quest’idea?
— Un nostro agente dello SMI. Un poeta...
— Già. Mia nonna diceva sempre che, i poeti, sono cugini del diavolo... Il suo nome in codice?
— Raggio di Luna.
L’ambasciatore sbarrò quel poco di palpebre che ancora gli restavano:
— Cristo! Cambiategli nome, ammiraglio. Chi lo va a dire, al Presidente, che un raggio di luna ha salvato l’America?!
— E voi, non ditelo al Presidente — rispose placido Alex Daves, deponendo il binocolo ed estraendo la pipa. — Ditelo alla First Lady. Lei è donna: capirà!...
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Barabba di Jovanotti, dall’album Lorenzo 1994. (N.d.R.)
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Si ricorda che Giuseppe Bonura è morto nel luglio 2008, proprio mentre usciva in edicola Legion: questo suo vecchio racconto è anche un piccolo omaggio allo scrittore. (N.d.R.)