1
Venezia
A Parigi non poteva più tornare.
Non si sfida caid Mbarrek: non si uccide suo figlio e la si passa liscia. Chance Renard aveva provato a fuggire. Ormai si era convinto che fosse inutile. Prima o poi i killer del gangster algerino della Rive Gauche l’avrebbero ripreso. Ad Amsterdam c’erano andati vicino e Lana, per cui tutto era cominciato, era morta.
Ora Chance viveva alla giornata, accettando gli incarichi che gli proponevano con la consapevolezza di avere un’ombra alle spalle. Ormai aveva raggiunto un’età in cui, per un avventuriero, ogni giorno è regalato. Come se un giorno senza Lana avesse valore...
La missione a Venezia, almeno, si presentava interessante. Un groviglio di complotti e misteri.
Ufficialmente era venuto per salvare un uomo.
Un uomo con grandi peccati, molti soldi, troppi segreti.
Un uomo condannato.
Chance Renard si accese un sigaro. Il sole conferiva a Venezia luci e ombre come ricamate tra i vecchi palazzi dei canali, le calli e i ponticelli arcuati che li univano. Passaggi di un labirinto arcano senza fine. Era stato in quella città dieci anni prima, d’inverno. Era morta un’amica e lui quasi ci aveva lasciato la pelle. Il ritorno in un luogo già visto tendeva a riproporre sempre lo stesso cliché del vecchio soldato sopravvissuto al suo tempo.
Poco distante i passeggeri arrivati con lui dalla stazione si assiepavano in piazzale Roma, in attesa dei traghetti.
Chance preferiva viaggiare in treno, quando gli era possibile. L’illusione che il tempo scorra più lentamente, fino quasi a fermarsi. Durante il tragitto da Milano aveva avuto agio di rileggersi un racconto di Piero Chiara e fare il punto della situazione.
Malgrado il sole, tirava vento. I capelli ingrigiti non se ne volevano restare a posto. Li ravviò con una mano. Attraverso le lenti a specchio controllò il fluire dei passanti. Sana, vecchia paranoia. Aveva la pistola nella borsa di pelle. Troppo caldo per tenerla infilata nella cintura su un mezzo pubblico, anche con la giacca l’avrebbero notata.
Nessun pericolo, all’apparenza.
Chance notò immediatamente il motoscafo di lusso che risaliva il Canal Grande da Santa Croce. Il pilota era un uomo di fatica, marinaio al servizio dei ricchi, come tanti. Ma i due ceffi ritti come pali dietro di lui erano guardie del corpo. Spalle larghe, collo spesso, mascella prognata di chi esagera con gli steroidi. Auricolare, cranio rasato, tutto il solito carnevale dei duri. Pessimo inizio. Ma le istruzioni erano chiare: aspettare all’imbarcadero vicino alla stazione. Evidentemente, l’uomo che Chance doveva proteggere riteneva che la sceneggiata dei gorilla fosse necessaria per intimidire i suoi avversari.
Chance sapeva che non era così. Il nemico, chiunque fosse, non si sarebbe fatto infinocchiare da quattro pagliacci.
Chance spostò il sigaro sul lato destro della bocca e si mise il borsone in spalla. Il pilota del motoscafo se la cavò con parabordi e gomene. Chance si avvicinò all’imbarcadero valutando i due bodyguard. Uno rimase immobile, mano sotto la giacca a sfiorare una pistola. L’altro, testa lucida e mosca di barba, saltò agilmente sul molo.
— Lei è il Professionista. Ho visto una foto. La facevo più giovane.
Chance gli gettò il borsone addosso, facendolo quasi cadere. Balzò a due piedi sulla barca. Bloccò il secondo gorilla con la sinistra. La destra aveva già sfilato lo Spaccacuore dalla fibbia. Cinque centimetri di lama triangolare sfiorarono l’inguine dell’avversario.
— Io invece — Chance morse il sigaro, consapevole che nessuno sul molo s’era accorto di nulla — vi facevo esattamente come siete. Fessi e gonfi di ormoni. Be’, se qualcuno ci spia, ora saprà che è arrivato un vecchio bastardo. Muoviamoci, che di tempo ne abbiamo già perso abbastanza.
Con la valigia del Professionista in mano, malfermo sulle gambe, il capo dei bodyguard buttò il borsone sul fondo del motoscafo e tornò a bordo.
— Sono Nicky. Lui è Rosario. Come pensavo lei è un rompicoglioni. Non abbiamo nessun bisogno di aiuti esterni e, quando sarà finita, la spedirò nel canale a calci.
— Sarà un piacere vederti provare — ringhiò Chance. Si staccò dal bodyguard e ripose il coltello. La solita storia all’inizio di ogni incarico. Nessuno ama il Professionista venuto da fuori. Troppo testosterone in circolo. Ormai aveva fatto l’abitudine a quel genere di stronzate. Sedette sulla falchetta e riaccese il Garibaldi. Uno stormo di gabbiani volava verso il sole.
2
Antonia Lake arrivò di notte, come sempre prima di un “tiro”.
Sul passaporto c’era scritto Antonella Dellago, pittrice. La sua fittizia identità mantovana. La foto non le rendeva giustizia. A più di quarant’anni, Antonia era una femmina che gli uomini bramavano e le donne detestavano.
Fronte ampia, labbra siliconate, occhi verdi, una naturale aria di sfida. Antonia portava la criniera di capelli rossi come un vessillo. Il corpo era quello di una donna di dieci anni più giovane. Anche merito della chirurgia estetica: un seno pneumatico tendeva la camicetta di seta nera, delineando i capezzoli duri. L’allenamento costante completava la magia. Antonia era stata la prima donna a essere ammessa nella Special Detachment Delta Force americana. Molte vite prima. In quegli anni era stata di tutto. Mercenaria per tutte le guerre sporche, sicario della mafia russa, aveva persino aiutato un’organizzazione segreta dell’ONU.
Adesso era tornata a essere ciò che era. Un serpente velenoso. Una stone killer. Assassina di pietra, meccanica, molti modi per definire un solo fottuto lavoro. Cecchino d’élite. Poteva uccidere con ogni tipo di arma e a mani nude in cento modi differenti. Ogni giorno eseguiva cinquecento flessioni, settecento piegamenti sulle gambe, mille addominali. Esperta di Wing Chun, avrebbe steso un peso massimo con un preciso pugno alla gola. Mente flessibile come un giunco e corpo tagliente come un rasoio.
Quel “contratto veneziano” valeva duecentomila euro. Le era stato affidato da un qualche gruppo ombra. Nessun nome, solo una sigla. 666. Il numero della Bestia per i migliori professionisti del Male. Il 666 l’aveva contattata e tolta dai guai in Louisiana. Le avevano affidato un tiro di prova a Vladivostok, poi una serie di altre “sanzioni” tra l’Europa del Nord e il Medio Oriente. A tutti gli effetti, adesso Antonia faceva parte del loro “settore eliminazioni”.
Quando aveva ricevuto il CD con le istruzioni che si sarebbero automaticamente autodistrutte dopo la lettura, stava godendosi un periodo di vacanza sulle Dolomiti dopo aver ucciso a duemila metri di distanza un imprenditore tedesco.
Antonia era uno squalo sempre in movimento, sempre in cerca di preda. Come aveva detto una volta, era marcia dentro. Drogata di adrenalina. E di morte violenta.
Dal momento in cui aveva accettato l’incarico, ci si era immersa totalmente. Aveva scaricato e catalogato tutto il disponibile sul Bersaglio, aveva organizzato viaggio e sorveglianza. Il 666 le aveva lasciato un conto aperto in una banca da cui prelevare il necessario. Si sarebbero fatti vivi a lavoro ultimato. I patti erano: niente interferenze. Per un’emergenza c’era una zona Internet ad accesso criptato. Ma non doveva esserci nessuna emergenza, nessun margine di errore.
Antonia era arrivata a Venezia con una tavolozza, un baule di tele e una valigia. Aveva occupato una casetta a Dorsoduro, a pochi passi dal palazzo del Bersaglio. Aveva intagliato i vetri di una vecchia finestra smerigliata, posizionato un binocolo telemetrico Zeiss 48x. Era pronta all’azione: pantaloni e blusa neri, sneakers scure per muoversi in fretta.
Vide arrivare il motoscafo. C’era anche qualcun altro a bordo, un estraneo. Molto, molto diverso dagli imbecilli che proteggevano il Bersaglio. Non giovane ma con l’aria di uno con le palle di metallo. La controparte. Aveva occhio, Antonia. Un bell’uomo, se lo sarebbe scopato volentieri. Più probabile che dovesse ammazzarlo, però.
3
Dorsoduro, sull’isola di Mendigola, era stato il primo bastione. Secoli prima che Rialto diventasse il nucleo stabile della città di Venezia, pescatori e marinai della laguna vi avevano cercato riparo per sfuggire ai barbari della terraferma. Da quella testa di ponte di terreno solido avevano respinto attacchi e costruito case. Oggi Dorsoduro ospitava palazzi circondati da giardini.
Chance aveva impiegato il tempo della traversata per studiare il campo di fuoco. L’abitazione dell’uomo che doveva proteggere era composta da vari edifici collegati da giardini. Mura venate di rampicanti facevano capo a una sontuosa dimora che mescolava vari stili architettonici, dal barocco rinascimentale ad altre influenze più antiche con inserimenti moderni. Archi, colonne, muri di mattoni rossi a vista, sezioni stuccate in materiale più chiaro.
Il molo era delimitato da un’inferriata che partiva dal fondo del canale. Si aprì a un comando elettronico. All’interno, altri “duri” con le armi spianate, telecamere fisse a “occhio di mosca”, capaci di sorveglianza a trecentosessanta gradi. Un incubo per qualsiasi assassino.
Come incubo non bastava. Paolo Loredan, imparentato alla lontana con i dogi dell’epoca d’oro della Serenissima, aveva chiamato lui, il Professionista, un vecchio soldato che di elettronica non capiva niente ma aveva visto ferro e fuoco da vicino.
Il motoscafo entrò nella piccola darsena. Ignorando i due gorilla a bordo, Chance gettò via il sigaro e raccolse il bagaglio.
Sul pontile di pietra lo aspettava un nero altissimo, in total black con auricolare e taglio militare d’ordinanza, ma dotato di un’espressione acuta. Non un ennesimo macellaio idiota. Sorrise a Chance.
— Benvenuto, signor Renard. Venga, le mostro il suo alloggio. Immagino vorrà rinfrescarsi. Il dottor Loredan la riceverà nel suo studio privato tra venti minuti.
Fu una stretta veloce. Da uomini d’azione. Il nero si chiamava Ernesto Hoost, molucchese. Ex mercenario. Chance si fece strada verso l’ingresso principale della magnifica villa. Per alcuni versi, lavorare con Hoost non sarebbe stato un problema. Per altri versi, una spina nel culo.
Perché Chance Renard non era a Venezia per salvare la pelle a un trafficante d’armi, ma per carpire i suoi segreti.
Malgrado il calore avvertì una ventata fredda. Difficile dire da dove venisse, ma risvegliò il Rettile. La sua seconda natura, quella animale. A dispetto degli anni, ancora molto vigile. Chance fece vagare lo sguardo tra le case dall’altro lato del canale.
Qualcuno.
Da qualche parte, a osservare. Inevitabile, alla fine. Chance rivolse all’invisibile avversario un saluto mentale. Sarebbe stata una battaglia ad armi pari?
Succedeva di rado.
Doccia. Uno scroscio rovente per lavar via stanchezza e sudore. Una pausa per concentrarsi.
Telo da bagno attorno alle reni, Chance smontò sul letto la Beretta 90two ultimo modello, controllò la tenuta delle molle del caricatore, pulì la canna e rimontò tutto quanto. Pugnali, semiautomatica, caricatori di riserva. Fondina alla cintura. Indossò abiti puliti. Piccoli gesti per realizzare con chiarezza che, come diceva il suo amico Russell Kane, era dentro.
Bruno Genovese, capo della DSE, la sicurezza europea, gli aveva permesso di infiltrarsi nell’organizzazione di Loredan. Perfetto gangster globalizzato del ventunesimo secolo, Paolo Loredan. La facciata: mercante d’arte. La realtà: grossista di armi destinate al terrorismo internazionale. Niente certificati di end-user, clienti in ogni gruppo, nessuna ideologia. C’era un affare andato male, molto male, che preoccupava Loredan. E c’era un archivio segreto da recuperare: la missione di Chance.
Il Professionista di informatica capiva poco, ma una settimana con Kang, la caposezione informazioni della DSE, gli aveva fornito i fondamentali. Il problema era non farsi scoprire. Ed evitare di finire a galleggiare faccia in sotto in un canale veneziano.
Chance percorse un corridoio coperto di pannelli di legno e ritratti settecenteschi. Nicchie con vetri di Murano, colori e forme bizzarre, ammalianti. Scese la grande scala che conduceva nell’atrio. La casa del suo ospite grondava ricchezza antica e varietà di stili. C’era però qualcosa di algido in tutto quel lusso, un artifizio per nascondere cose torbide, maleodoranti.
Chance rimase a osservare un vetro istoriato raffigurante Sarah Bernhardt, incorniciata da motivi floreali, un’opera realizzata ai primi del Novecento da Alphonse Mucha. Trasferirla da Praga o da Parigi doveva essere costato un patrimonio. Probabilmente pagato con il sangue di bambini soldato della Sierra Leone.
— Il dottor Loredan la riceverà adesso.
Hoost era arrivato silenziosamente alle spalle del Professionista. Anche troppo silenziosamente.
Chance si finse assorto nella contemplazione del capolavoro ancora per un istante, poi assentì. Era pronto a entrare nelle fauci del lupo.
4
L’ufficio di Loredan era un posto da uomini. Mobilio scuro, tecnologico, arredi in cristallo e carbonio, apparecchiature informatiche ergonomiche di un nero che trafiggeva gli occhi.
Unico vezzo d’epoca: un manichino-armatura della Serenissima. Sedicesimo secolo, lavorazione lombarda, fregi fiorentini, in perfetto stato di conservazione, armi forgiate con passione a Candia.
Nell’aria un aroma di muschio mescolato a odore di foglie di tabacco Kentucky e whisky di pregio. Su una piattaforma di legno scuro in fondo alla stanza, la scrivania di Loredan sembrava un trono.
— Si accomodi, Renard, ero impaziente d’incontrarla.
Per l’ospite c’era una poltrona di cuoio e acciaio, sistemata a quarantacinque gradi ma più in basso. Giusto per stabilire le distanze.
Chance accettò l’invito a servirsi di un lungo e bitorzoluto Garibaldi. Lo accese con lo zippo, ma rifiutò il whisky.
Loredan poteva avere una sessantina d’anni ma doveva tenersi in forma. Chance non si sarebbe stupito se avesse scoperto che tirava di sciabola. Il viso con il naso adunco e i capelli candidi era un po’ rilasciato, ma nello sguardo e nella piega crudele delle labbra conservava qualcosa di autoritario. Un orso nella cui tana era bene muoversi con cautela. Un uomo abituato a comandare in ogni campo delle sue attività.
Consapevole dell’esame cui era stato sottoposto, Loredan si trastullò con il suo liquore agitando appena il bicchiere, compiaciuto. — Chance Renard, il Professionista.
— Prima di entrare nei particolari — disse Chance — perché ha deciso di rivolgersi a me? Non sto più a Parigi e l’indirizzo di Milano non è noto a tutti...
— In effetti, sono informazioni non facili da ottenere. — Loredan posò il bicchiere e si accese un sigaro a sua volta. — Diciamo che volevo il meglio.
Il Professionista irrigidì impercettibilmente il collo. Classici preliminari che potevano mandare la sua missione in fumo, o addirittura condannarlo a morte.
— Avevamo conoscenze comuni... — riprese Loredan. — Elena Marconero.
— Elena è morta. — Chance espirò una boccata di fumo. — Molti anni fa. E immagino che lei sia nello stesso ramo.
— Una perdita dolorosa — assentì Loredan.
Chance rimase in silenzio. Eventi e legami sepolti nella memoria. Elena Marconero, mercante d’armi e vedova di Bonifassio Cargese, boss dell’Unione Corsa. Il filo che univa la vita di Chance alla mafia corsa costituiva ancora un’ottima copertura.
— Ma lo show, Renard, deve continuare. Io ho... — Paolo Loredan assaporò il suo whisky — sostituito la defunta Elena in parte delle sue attività. Lei capisce a cosa mi riferisco?
Se era un tranello era ben congegnato.
— Il che sposta ma non modifica la domanda iniziale. Vedo che è molto ben fortificato... per quale motivo ha bisogno di un vecchio soldato come me?
— Lei non è un vecchio soldato e lo sa. — Loredan aspirò dal sigaro. — Possiede la magia di chi è ancora vivo quando tutti gli altri sono morti.
Non magia: maledizione. Ma questo, Chance non gli diede la soddisfazione di ammetterlo. Mai lagnarsi di ciò che si è scelto o ti è stato dato in dono.
Lana gli sorrise triste, da un luogo lontano. Lei aveva compreso. Lei sola, forse...
— Sono protetto da uomini e attrezzature di prim’ordine. È vero. Ma voglio anche lo sguardo di uno come lei. Della vecchia scuola.
Chance si concesse un’inarcata di sopracciglio. — Veniamo alla minaccia.
L’espressione di Paolo Loredan s’incupì improvvisamente. Posò il bicchiere e premette una sequenza di tasti sulla keyboard integrata nel piano del tavolo.
Uno schermo LCD a parete prese vita. Vi apparve un’immagine non particolarmente nitida ma riconoscibile.
— Antonia Lake.
Chance ascoltò la voce di Loredan con mezzo orecchio. Rimase a scrutare quella donna con i capelli del colore del fuoco. Abiti di pelle che parevano dipinti addosso, occhiali avvolgenti. Imbracciava un fucile di precisione Barrett calibro 50 BMG, un’arma in grado di aprire in due un carro armato.
— Forse si fa chiamare con un altro nome — continuò Loredan. — Una sniper professionista. L’immagine è stata scattata con un teleobiettivo a Malmö, in Svezia, qualche mese fa. Aveva appena “sanzionato” un gangster albanese che controllava il traffico di carte di credito false nel Nord Europa.
— Lei ruba carte di credito, Loredan? — provocò Chance.
Loredan rise, l’allegria di una iena. — No, io vendo armi. Micidiali. A tutti. Questo non è un segreto ma i dettagli, Renard, non sono affari suoi. Il problema è che, recentemente, ho avuto una... divergenza di prospettive di pagamento con un cliente in Serbia, un esaltato salafita. Il quale si è rivolto all’organizzazione per cui la signora Lake lavora saltuariamente. Qualcosa chiamato 666.
— Originale, come sigla. — Chance fece un anello di fumo. — E chi sono, i nipotini di Charles Manson?
— Nessuno sa esattamente chi sono. Gente molto pericolosa. Risolvono problemi in maniera permanente. Un mio informatore a Bratislava ha saputo del contratto affidato a questa donna per eliminarmi. Potrebbe essere già a Venezia in questo momento. Io voglio che lei la trovi. E voglio che la uccida prima che mi pianti un proiettile in testa.
Chance si limitò a sfoggiare la sua migliore faccia da schiaffi. — Mettiamo che io non voglia mettermi sulla linea di tiro per un mercante di morte.
— «Che becco lungo che hai» disse il corvo all’avvoltoio. Mettiamo che lei eviti l’ipocrisia, Renard. Venendo qui, lei sapeva perfettamente chi ero. Le offro cinquantamila euro per risolvermi questo problema.
— Centomila.
— Ma guarda — fu Loredan a inarcare un sopracciglio. — Che fine ha fatto la sua immacolata coscienza?
— Macchiata indelebilmente — soggiunse Chance gelido. — Da un pezzo. Questa donna sembra conoscere il gioco. E con gli anni, giocare con la mia vita e quella degli altri è tutto ciò che mi resta... cose che forse lei non capisce.
— Andati i centomila — cedette Loredan.
— Dovrà fornirmi alcune informazioni e qualche garanzia.
— È chiaro. — Visibilmente sollevato, Loredan si versò di nuovo da bere. — Basta che lei trovi quella pazza e la elimini. Sarà un messaggio sufficiente per tutti.
— Non ci conti troppo, contro qualcosa che sventola il... numero della Bestia.
Musica.
Arrivò loro da una direzione indefinita. Suoni arcani, esotici. Un flauto traverso, orientale.
— Avrà tutto ciò che le serve, glielo assicuro. — Loredan sembrò colpito positivamente dall’espressione di Chance. — Ma prima venga, sarà mio ospite a cena. E avrà l’occasione di conoscere mia moglie Eun-Yung. Sono certo che la troverà una persona interessante.
La stanza era fuori del tempo.
Di certo non apparteneva a Venezia, ma forse era stata concepita per non conformarsi a nessun altro luogo.
Pareti levigate, spoglie. Qualche mensola su cui ardeva incenso profumato. Una mistura preparata appositamente, con cura sapiente da mani esperte. Unica. Come le tre grandi sculture in vetro colorato. Una rossa, una blu, una verde. Fragili e possenti. Sembravano corpi in lotta, oppure amanti stretti in un amplesso dove dolore e passione si confondevano.
Chance Renard continuava a cogliere significati personali nelle cose. Stupido.
Sul lato della stanza senza finestre, illuminato da faretti invisibili, un tokonoma in lacca nera birmana con un’unica piccola spada. Aikuchi: la lama nascosta delle donne samurai.
Persino il pavimento in travi di legno chiaro era un intarsio di travetti e snodi, privo di un singolo chiodo. A ogni passo, il peso di Chance e di Loredan produceva una lievissima serie di scricchiolii, una sorta di intrinseco sistema d’allarme.
Chance sorrise tra sé. Era un metodo inventato dallo shogun Tokugawa Ieyasu, che era riuscito persino a fermare i ninja dei suoi più mortali nemici. Niente elettronica. Se l’archivio di Loredan era nascosto in casa, era proprio in quel luogo che lo avrebbe trovato.
Una sensazione che veniva dal Rettile. È già un dato significativo.
Ma il dettaglio più importante, più sorprendente, era la presenza che dominava la stanza.
Chance era al corrente della moglie coreana di Loredan, figlia di un generale di Pyongyang e legata a certi suoi affari in Oriente. Non immaginava però che lui fosse solo un paravento, probabilmente a sua insaputa.
Eun-Yung Park era al centro della stanza, compostamente seduta sulle ginocchia raccolte, drappeggiata in un abito tradizionale di seta bianca con ornamenti azzurri. I suoi capelli scendevano sino a terra allargandosi a ventaglio. Acconciati in maniera semplice e raffinatissima. Una cascata di inchiostro blu su una tela bianca.
Di una bellezza abbagliante, Eun-Yung Park era un’artista. Suonava il flauto coreano, una melodia di trecento anni prima nota come Le lacrime al tramonto.
Non era tutto. Quasi generate e mosse dalla musica stessa, immagini olografiche danzavano di fronte a lei. Scaturivano da una centralina che reagiva ai suoni producendo contrasti di colori, trasparenze, strani ectoplasmi di luce cangiante.
Chance Renard si sarebbe aspettato tutto in casa di un mercante d’armi, tranne una tale esibizione di raffinatezza.
Raggiante per l’effetto ottenuto, Loredan lasciò che sua moglie terminasse il pezzo, quasi ipnotizzata dalle figurazioni che lei stessa creava.
Quando Eun-Yung finì, abbassò appena il flauto e sbatté le lunghe ciglia scure. Occhi neri, simili a schegge d’ossidiana, dominavano il naso minuscolo, vagamente uncinato, le narici frementi.
— Lei deve essere l’uomo che salverà la vita a mio marito — disse, inchiodando il Professionista. — Le sarò grata in ogni modo. Per sempre.
5
Nel buio, Antonia Lake imprecò a denti stretti. Un verso simile al sibilo di una vipera.
L’estraneo, l’uomo che Loredan aveva ingaggiato per proteggere la propria vita malgrado l’esercito di contractors che lo circondava, aveva capito. Ad Antonia era bastato un frammento di sguardo per rendersene conto. L’estraneo aveva individuato il suo punto d’osservazione. E il fatto che gli energumeni in nero non si fossero precipitati nella stanza che occupava era un altro segnale.
Un solitario, un cacciatore.
Di uomini.
La cena si era svolta in un salone settecentesco. Ottima, dalle portate della cucina tipica locale al vino dei colli veneti.
E gli sguardi sfuggenti di Eun-Yung...
Il Professionista si era già trovato altre volte in quel territorio infido tra seduzione e pericolo. Pompava adrenalina ma trasformava il sangue in acqua. E non era decisamente il caso. Paolo Loredan, come molte personalità che volevano essere protette, pretendeva la sicurezza ma non voleva rinunciare a nessuno dei suoi impegni.
Aveva una fitta agenda di spostamenti e incontri d’affari. E nemmeno gli passava per la testa di alterare la tabella di marcia che si era prefisso. Aveva fatto costruire un’uscita segreta sul fianco della casa che dava su un moletto coperto dove poteva imbarcarsi su un motoscafo con i vetri a prova di proiettile.
Dopo cena, Chance però preferì lasciare la villa e ambientarsi.
La sera, d’estate, Venezia era magica. Le frotte di turisti, le orchestrine, le luci, l’atmosfera: un luogo unico al mondo. Chance consumò un paio di vodke in un bar di piazza San Marco. Continuava a pensare a Eun-Yung. In un modo che non riusciva spiegare, gli ricordava Lana. C’era un’ambiguità in quel suo fare sottomesso che continuava a insinuarsi dentro di lui.
Posto sbagliato, momento sbagliato.
Doveva mantenere freddezza, calcolare la direzione di un possibile attacco. Non aveva mai sentito nominare questa Antonia Lake, ma sembrava un personaggio pericoloso. Una disperata come lui.
Il Professionista gettò il sigaro in un canale e tornò verso Dorsoduro. C’era qualcosa che voleva controllare.
Sarebbe venuto, di questo Antonia era certa.
Assieme alle tenebre. Se non a cercare lei, almeno tracce che confermassero le sue intuizioni. Antonia aveva fatto sparire ogni cosa, spostando la sua base a un altro indirizzo sicuro. Solo il pannello di vetro era rotto. Non aveva importanza: l’estraneo avrebbe comunque compreso.
Così Antonia era tornata nella vecchia casa. Con una Walther Blackhawk da 9 millimetri, silenziatore Albrecht, puntatore laser SureFire.
Ad aspettare.
Quel vecchio edificio dall’altra parte del canale rispetto alla dimora di Loredan. Il Rettile gli aveva inviato un messaggio e lui aveva imparato a non ignorare quel genere di avvertimento.
Chance rimase in osservazione, al riparo di un porticato. Verificò che l’edificio fosse completamente buio. Attraversò il corso d’acqua superando uno stretto ponte di pietra. L’acqua del canale emanava un odore paludoso. L’umidità aggrediva i polmoni.
Giunto sulla riva della casa si addossò a un muro. Venezia, in quei quartieri, era diventata improvvisamente un labirinto arcano. In lontananza, un cane abbaiò. Passi affrettati di due amanti lungo una stretta calle. Poi solo lo sciabordio delle acque.
Chance estrasse la pistola. Il colpo era già in canna. Avvitò il silenziatore Vortex-4. Si accostò alla soglia con l’arma impugnata lungo il fianco, dito sulla guardia del grilletto. Nella sinistra aveva un passepartout. La serratura scattò con uno schiocco. Nella quiete, parve fragoroso. Alla fine, si perse nello sciabordio del canale.
Niente pila. Chance si appoggiò al battente ed esercitò una leggera pressione. I cardini cigolarono impercettibilmente. Qualcuno li aveva oliati. Di recente...
Doveva ucciderlo?
Antonia non ne era del tutto convinta. Caduto lui, ne sarebbe venuto un altro. Forse non così in fretta, però. Forse avrebbe avuto il tempo di eseguire il tiro per il 666 e... Nella mente, formulò una bestemmia.
Quasi aveva sperato di essersi sbagliata. Invece eccolo. Un’ombra nell’ombra sotto un portico dal suo lato del canale.
Veniva per lei.
E lei era pronta.
Chance entrò con cautela. Sentiva il respiro pietrificato nel petto.
Stava diventando vecchio?
No, lui avrebbe tenuto. Sino in fondo.
Non si era scelto apposta una vita così?
Arrivò a una scala. Ormai gli occhi erano abituati al buio. Riusciva a distinguere ben più dei contorni delle cose. Salì un gradino alla volta. Beretta in presa bassa, pollice su pollice.
Finalmente arrivò a una porta. Socchiusa. Si aprì come velluto.
Il Rettile fremeva nelle viscere. Lì c’era stato qualcuno. Una persona molto cauta e pericolosa.
Niente polvere. Niente impronte. Solo un vetro smerigliato rotto. Chance sedette sui talloni per esaminarne i resti. L’esperienza gli suggeriva che quello era il “nido” di un cecchino, abbandonato da poco. Provò una sensazione di vuoto freddo.
Quel pomeriggio. Sì... anche la sua avversaria doveva aver capito. E...
6
Pop. Pop. Pop.
All’interno della vecchia casa gli spari silenziati erano tuoni. Colpi sordi battuti sul tamburo infernale.
Chance si gettò a terra. Il fischio dei proiettili era sin troppo vicino. Vide le assi del pavimento contorcersi, esplodere in un pulviscolo di schegge.
Si girò sulla schiena, la Beretta a due mani. Con una pressione del pollice attivò il laser a punto rosso.
Nell’oscurità intravide prima una scia di fumo color acciaio, quindi un altro dardo laser verso la sua direzione. Premette il grilletto due volte in successione. Il carrello espulse due bossoli roventi che rimbalzarono sul terreno.
Altri scoppi sordi. Altra cordite.
Chance si spostò nuovamente, le mascelle serrate.
Una figura in fuga. Chioma simile a un agitarsi di fiamme.
Il Professionista sparò tutto il caricatore crivellando la parete, la scalinata che dava sul ballatoio nella parte superiore della stanza.
La donna rispose alla cieca.
Corsa frenetica. Bruma acre che grattava i polmoni.
Cambio di caricatore quando ancora il serbatoio non era vuoto. In un secondo fu a posto.
Chance si spostò, la semiautomatica rovente tra le mani.
Era tornato un silenzio opprimente.
Si proiettò oltre un angolo alzando la pistola.
Nulla.
Questa volta il contatto era stato più ravvicinato. Si erano visti, anche se di sfuggita. E avevano cercato di uccidersi.
Niente sangue. Il che non significava niente. Quella donna avrebbe potuto causargli molti guai. Guai definitivi.
Sorrise. Bel corteggiamento al piombo...
Erano della stessa razza, intuivano le mosse l’uno dell’altra, entrambi erano sulla difensiva.
Non c’era più niente da vedere là dentro. Qualsiasi traccia ormai era stata cancellata. Antonia Lake aveva trovato un altro covo.
Chance smontò il silenziatore e rinfoderò la pistola. Guardò dalla finestra.
Fuori, sul canale, c’erano nient’altro che ombre.
Nomi di spettri. Volti di demoni scolpiti nel legno, lavorati nella ceramica e nel gesso. Dipinti come arazzi o monocromatici.
Bautte veneziane ma anche maschere senufo, giapponesi, coreane, siberiane. Nessuno nella villa aveva udito nulla. Uno dei guardiani gli aveva persino riservato una battuta sui vecchi ubriaconi.
Adesso Chance era di nuovo nella magica casa dei Loredan. Di fronte a lui un corridoio ornato unicamente da maschere. Chance ne riconobbe alcune. Bu-nae, la strega coreana. Il tengu, demone degli inferi nipponici. Spauracchi sardi e teutonici, maschere per riti di fertilità sudanesi, persino una kachina degli hopi del Nuovo Messico.
Una corrente d’aria attirò il suo sguardo verso il terrazzo che s’affacciava sul Canal Grande.
Eun-Yung era là. Da un istante o da un’ora. Di certo lo aveva visto rientrare. Difficile che avesse immaginato cosa era accaduto nell’edificio pericolante dall’altro lato della via fluviale. Ma anche lei percepiva la presenza del Professionista. E gli si insinuava sottopelle.
Indossava un abito color indaco che nell’oscurità quasi completa si fondeva con la cascata di serici capelli che sfiorava il terreno. A piedi nudi si avvicinò a Chance scrutandolo senza parlare.
— Magnifiche — disse lui a mezza voce.
— Le piacciono le maschere?
— A casa mia, in Francia, ne avevo una collezione.
— Nascondono la realtà di un uomo.
— Oppure la rivelano.
Lei sorrise, e inaspettatamente protese la mano curatissima sfiorando il monile in argento che Chance portava sin dall’avventura in Corea. Ricordo dell’ultima volta che aveva visto Mimy. Anni, ormai.
— Conosce il significato di questo ciondolo? — domandò, consapevole della vicinanza di lei.
Eun-Yung tirò le labbra in un sorrisetto.
— Certo. Aragami. Lo Spettro Folle della Battaglia. Lei è un uomo tormentato, Chance Renard.
— E lei è felice?
— Oh, non sono domande da farsi a una donna sposata. Neppure a una discendente dei Sylla... Si chieda piuttosto cosa queste maschere rappresentano per Paolo.
Chance rimase in silenzio, come in attesa di una rivelazione.
— È ossessionato dall’occulto. Alla Giudecca c’è una vecchia zingara che gli predice il destino. Una megera, ma lui ne è soggiogato. Prima gli ha consigliato di ingannare quegli arabi e adesso gli ha predetto che morirà. — Eun-Yung indicò la parete. — Vede, mio marito si nasconde dietro queste maschere esoteriche come fa con l’arte, la tecnologia, i suoi gorilla. Alla fine è solo un vecchio pieno di superstizioni.
— E perché sta con lui?
Lei alzò le spalle. — Perché altrimenti mi ucciderebbe... ma questo lei già lo immagina. Io fui data come pegno e tale resto. Il simbolo di un’alleanza. Ma se lei vorrà osare...
Non lasciò il tempo a Chance neppure di abbozzare un pensiero. Volò via, leggera come uno spirito. La sua lieve risata si perse nel buio. Ma perseguitò Chance Renard per tutta la notte.
7
Un muro di cinta proteggeva il giardino interno della casa dei Loredan. Rifugio sicuro o gabbia. Eun-Yung non era una tigre docile né rassegnata. Chance ne era certo. E Antonia Lake poteva infiltrarsi dovunque come una vedova nera nelle fessure di una parete, lo sentiva. Perciò si giocava su un piano differente e scivoloso.
La mattina successiva, tazza di caffè in mano e primo sigaro da accendere, Chance eseguì un altro giro d’ispezione. Nessun altro palazzo nel circondario era più alto del muro. Buona mossa. Ossessionato dall’occulto o no, Paolo Loredan era prudente, almeno sotto certi aspetti.
Su una pedana rialzata, Nicky e Rosario si esercitavano nelle arti marziali. Torso nudo, muscoli tonici, un grande spreco di calci volanti e urla ringhianti.
Chance scosse il capo. Qualcosa che ai due gorilla non sfuggì.
— Vecchietto, perché non vieni a darci una lezione, eh?
Nicky sentiva ancora il peso dell’umiliazione subita al suo arrivo.
Chance tirò dritto. Aveva altro a cui pensare: tipo proteggere Loredan che si ostinava a esporsi. Hoost gli sbarrò la strada. Il nero sorrideva. Accennò alla pedana, anche lui con un vago tono di sfida negli occhi.
Chance sbuffò. Posò sul margine del piano rialzato la tazza di caffè e il sigaro. Si levò la giacca con un gesto irritato. Con un’agilità studiata per impressionare “gli sbarbati” balzò sul tatami.
— Ehi — protestò Rosario. — Niente armi... e togli le scarpe.
Chance si limitò a un sorriso. Sferrò un calcio diretto all’inguine di Rosario che si accasciò cianotico.
Nicky era carico come una molla compressa. Con un urlo si preparò a calciare. Molto spettacolare.
Chance lo caricò bloccandogli la gamba d’appoggio con la sua. Gli assestò un calcio alla caviglia con il taglio della suola, poi lo strattonò per il collo. Ginocchiata al plesso e un colpo di gomito in obliquo che tagliò il labbro del bodyguard, scaraventandolo a terra.
Senza neppure guardarli Chance tornò sul terreno pietroso del giardino. Bevve un sorso di caffè e si accese il sigaro. Nicky gemette tentando di rialzarsi, la bocca piena di sangue.
— Do you know the meaning of the word “muerto”? — Chance lo gelò mescolando le lingue, un espediente così efficace da accasciare Nicky. — Basta così?
Hoost lo osservò debitamente impressionato e anche un po’ divertito: i suoi due uomini avevano ricevuto una lezione meritata.
— Lo dicevano che lei è un duro, Renard. — Loredan si era goduto la scena, forse l’aveva anche preordinata. — Mi fa piacere: in questi giorni ho diversi appuntamenti e conto sulla sua abilità.
Chance si rabbuiò. — Quand’è il primo?
— Domani pomeriggio. All’isola di San Servolo, un cliente importante. Non posso mancare. — Era quasi una sfida.
— Mi serve un fucile di precisione — Chance si rivolse a Hoost.
— Posso procurarle un Remington 700 LTR heavy barrel, ottica Leupold.
Chance assentì. — Valido.
— Novità? — domandò Loredan con un’espressione diversa, accigliata.
— Nulla di preoccupante: un incontro ravvicinato con Antonia Lake.
— Come...?
Il Professionista si voltò per indicare il palazzo fuori vista, oltre la cancellata e il canale.
— Ci spiava da là. Una bordata di nove millimetri da una parte e dall’altra. È sicuramente in gamba. E di certo non si lascerà incastrare da questi buffoni. — Chance indicò i due doloranti gorilla sul tatami. — Nessuno di loro s’è accorto di nulla. E Antonia Lake non mi sembra il tipo che sbaglia due volte.
Loredan evitò di guardarli. — A questo punto?
— A questo punto, lavoriamo sul suo stesso terreno: a lunga distanza. Se abbiamo fortuna chiudiamo la partita subito.
Loredan rimase impassibile. Quasi. — E se non ne abbiamo?
— Allora si prepari ad aggiungere un’altra maschera alla sua collezione. Una maschera funebre.
8
Un gatto miagolò da un angolo in ombra.
Un altro verso, una voce differente. Lotta per il predominio. Il territorio si difendeva con unghie e zanne.
Chance si voltò appena per guardare.
Trapestio di zuffa poi, velocissimi, due felini sfuggirono in direzioni differenti.
Il Professionista scosse la testa e tornò all’abbaino. E al Remington munito di bipiede di appoggio.
Non aveva avuto ancora il tempo di pensare al suo incarico principale. Era convinto che gli archivi di Loredan fossero nella sala occupata da Eun-Yung per i suoi momenti creativi ma un’incursione in quel territorio andava preparata. Forse, giocando su di lei... Solo che adesso aveva un diverso problema da affrontare.
Si era mosso dalla villa nelle luci incerte della prealba. L’appartamento abbandonato dava direttamente sul canale, a qualche centinaio di metri dall’uscita protetta della darsena. Si era posizionato, il silenzio rotto solo dagli scatti meccanici delle parti dell’arma che s’incastravano. Per tutta la giornata aveva sorvegliato i dintorni della villa dei Loredan. Alla ricerca del punto di tiro del cecchino avversario. Chance era pressoché sicuro che Antonia avrebbe sparato il suo colpo quando la motolancia con i vetri blindati di Loredan fosse uscita nel canale per andare all’appuntamento. Un solo proiettile, una sola possibilità: fare fuoco un istante prima di lei.
Chance tornò a studiare il susseguirsi di tetti di tegole in cotto usciti da un’altra epoca, ponticelli, scalinate, calli oscure. Il tipo peggiore di campo di fuoco. Ore tre, quella chiesetta con il campanile, punto dominante sull’intero canale. Chance accostò l’occhio al mirino telescopico e regolò l’ingrandimento.
Nulla.
Un momento...
Piccioni volteggiavano attorno alla cella campanaria.
No, non dall’alto.
Loredan non sarebbe uscito allo scoperto. Sopra la testa avrebbe avuto il tetto blindato della lancia. Anche con un rilevatore di calore, sarebbe stato un azzardo tentare di sparare da quell’angolazione.
In orizzontale...
Un sorriso gli spianò le labbra. Antonia doveva appostarsi al livello del canale, in una di quelle casette che s’affacciavano sull’acqua.
Chance ricominciò l’ispezione, suddividendo il campo di fuoco in settori, controllando ogni finestra, ogni apertura.
Dove sei, Antonia Lake?
Antonia Lake scese nella galleria umida, fetida. Lo sciabordio delle acque del canale vicino rimbombava. Il portico in ombra nascondeva parzialmente la scala coperta dì rampicanti.
Aveva raccolto i capelli sotto una bandana nera a disegni bianchi, ricordo di chissà quale impresa maledetta del passato.
Trovò la sua posizione. Ancora una volta si guardò indietro. Si sentiva ancora il fiato sul collo di quel fottuto Chance Renard. Aveva avuto modo di informarsi. Un duro, un mercenario. Un killer. Ed era là fuori ad aspettarla. Ne era sicura.
Distese il tappetino di neoprene e aprì la custodia della sua arma. Di nuovo il Barrett: calibro 50, treppiede, mirino telescopico Zeiss, proiettili TPD: tracciante-perforante-dirompente.
Da meccanica, impiegò tutto il tempo necessario a piazzare l’arma. Niente one shot, one kill, questa volta. Rapido semiautomatico, via la blindatura dell’imbarcazione, poi dritto sul bersaglio. Doveva inchiodare Loredan e sganciarsi prima che Renard organizzasse una reazione.
Le mani protette da guanti senza dita sfilarono dalla giberna da combattimento il primo proiettile calibro 50. Lo inserì nel caricatore da dieci colpi. Bevve un sorso da una bottiglietta d’acqua minerale.
Faceva un caldo da togliere il respiro là sotto.
— Sta per uscire — annunciò Hoost.
Chance nemmeno sussultò quando il trasmettitore interruppe il silenzio. — Bene, squadra a terra in posizione.
— Ha individuato il bersaglio?
— Voi tenetevi pronti e basta.
Chance si massaggiò la base del naso. Ormai conosceva a memoria lo scenario del canale. A coprire Loredan ci sarebbero stati Nicky e Rosario. Ernesto, con altri tre uomini, era appostato a breve distanza, per chiudere ad Antonia la via di fuga.
Ma non doveva fuggire.
Chance avvertì il rumore lontano dell’argano che regolava l’apertura della darsena laterale.
Dove sei, Antonia Lake?
Poi venne il borbottio del motore al minimo dei giri durante la manovra. Era un canale angusto, finché fosse rimasta nel centro abitato, la motolancia di Loredan non poteva correre. Emerse come uno squalo dall’interno delle alte mura.
Dove sei?
Riflesso. Dall’abbaino, Chance notò un semplice riflesso. Un raggio di sole che giocava con una superficie di vetro.
Avvicinò l’occhio alla diottra Leupold. Non voleva contatto diretto con la guarnizione di neoprene. Il rinculo gli avrebbe provocato il cosiddetto “taglio dell’idiota”. Si accostò ancora di pochi centimetri. Nel reticolo di mira apparve qualcosa.
Quell’arcata che si apriva direttamente sul corso d’acqua. E la canna tozza di un Barrett che spuntava appena dal rifugio. Un riflesso aveva tradito la posizione di Antonia.
Cazzo, se era brava... Si era avvicinata in modo da avere il bersaglio direttamente sulla linea di tiro.
Un paio di minuti. Poi il motoscafo di Loredan sarebbe stato in posizione.
Chance fu combattuto. Sparare il colpo o chiamare Hoost? Non poteva vedere Antonia, nascosta dall’arcata. Ma il dispositivo Leupold gli consentiva di inquadrare perfettamente il freno di bocca del Barrett.
Uno contro uno e ’fanculo al resto. Si gioca secondo le regole, tra professionisti.
Antonia aveva il diritto a una possibilità. Tanto peggio per Loredan se lui sbagliava.
Chance espirò l’aria cattiva e si preparò al tiro.
9
Ghiaccio in tutte le terminazioni nervose.
Antonia vide la motolancia procedere nel canale, stretta tra i palazzi, le onde appena smosse intorno allo scafo. Nello Zeiss aveva l’impressione di essere “dentro” la cabina. Vide il pilota e, dietro di lui, tra due guardaspalle, il Bersaglio.
Avrebbe voluto sparare un solo colpo, ma Loredan non era in posizione. Doveva creare il caos, mandare l’imbarcazione fuori rotta mentre frantumava la blindatura antiproiettile. A quella distanza il calibro 50 avrebbe avuto un effetto devastante. Antonia spostò il dito dal ponticello. Esercitò sul grilletto una pressione decisa e continua.
Fece fuoco.
Nello spazio chiuso del canale, lo sparo rimbombò come un tuono.
Il cristallo corazzato della lancia andò in eruzione. Il pilota schizzò dalla sedia, il cranio spappolato. Trambusto, panico. Loredan venne allo scoperto.
Antonia lo aveva nel reticolo.
Espulse il primo bossolo, camerò il secondo proiettile.
Chance ricacciò una bestemmia. L’assassina del 666 aveva sparato una frazione di istante prima di lui.
Vide la motolancia sbandare paurosamente, incagliandosi contro una parete di mattoni coperta di alghe.
Non aspettò oltre.
Fece fuoco.
Il proiettile del Remington centrò la canna del Barrett, strappandolo quasi dal treppiede piantato al suolo. Antonia avvertì l’impatto dalle braccia fino alle spalle. Doloroso, lancinante. Fu sbalzata via dalla posizione di tiro. Il fucile era danneggiato, irreparabilmente. E lei aveva perso la sua occasione.
Fottuto Renard! Doveva andarsene di là, al più presto.
— Circondate l’edificio — gridò Chance nell’intercom.
Lasciò il fucile e corse giù in strada.
Hoost e i suoi dovevano aver già serrato la rete.
Antonia sentiva la morte a naso. Restò per il tempo di un respiro vicino alla volta del suo rifugio poi si catapultò fuori a tuffo.
Pop. Pop. Pop. Pop.
Spari silenziati. Una mitraglietta.
Pop. Pop. Pop. Pop.
Una teoria di fori slabbrati tatuò il muro, eruttando pietrisco e polvere.
Antonia picchiò gli avambracci, rotolando sulla scalinata. Accompagnò la caduta con tutto il peso del corpo, in modo da riprendere la fuga mettendo mano alla giberna da combattimento. Contrasse glutei e cosce rimettendosi in piedi.
Le bastò inquadrare uno dei bodyguard, quello con la Microuzi silenziata.
Il braccio di Antonia eseguì un arco nel vuoto. Scagliò lo shaken, stella da lancio in acciaio brunito. Centrò il gorilla alla gola. Andò giù in un’emulsione rossa.
Antonia riprese a correre, inseguita dalle pallottole.
Raggiunse una piazzetta di edifici dominati da vetrate colorate. Trovò riparo dietro a un vecchio pozzo chiuso. In pugno aveva già la Blackhawk con ottica e silenziatore.
Voci concitate dei gorilla, passi pesanti, imprecazioni in italiano.
Si sporse oltre il bordo di metallo.
Aprì nuovamente il fuoco, due colpi alla volta. Ne freddò uno in corsa. Il secondo volò contro la vetrata che gli stava dietro. Crollò mandandola in pezzi.
Antonia infilò la pistola nella fondina e cominciò di nuovo a scappare.
Chance udiva le sirene. Polizia.
Che casino... e non sapeva neppure se Loredan era vivo.
Nella piazzetta vide i cadaveri dei due bodyguard. Il sangue ruscellava tra le mattonelle candide, creando un curioso effetto cromatico.
Eccola.
Chance scorse la figura che scappava verso un tetto. Inutile sparare. Cominciò a pompare con gomiti e ginocchia in accelerazione.
Troppi sigari, gli mancava il fiato.
Raggiunse una scala e da là il tetto di tegole rosse.
Il terreno era scivoloso, il suo peso fece schizzare una tegola come un piattello. Finì nel canale.
Il rumore costrinse Antonia a voltarsi.
Occhi negli occhi.
Chance le fu addosso prima che lei potesse afferrare un’arma.
Ricevette un corto laterale allo stomaco ma assorbì. Entrò nella sua guardia. Le dita artigliate le strapparono via la bandana liberando una fiammata di capelli rossi.
Antonia gli piazzò un colpo al collo con l’avambraccio, poi una testata in piena fronte che per poco non lo mandò KO. Vertigini, vista annebbiata. Lo stomaco ridotto a un groviglio di bile e budella.
Il Professionista sferrò un fendente con il dorso della mano. Sentì le labbra di lei spaccarsi. Si buttò addosso all’assassina per immobilizzarla.
Sotto i suoi piedi le tegole cedettero in una cascata di cocci. Fu risucchiato verso il basso. Forsennatamente, le sue mani s’aggrapparono alla grondaia. Il metallo gli segò le dita. Dolore, sangue...
Vide Antonia tuffarsi come un’atleta olimpica. Si inabissò nel canale inghiottita da una colonna di spruzzi.
Chance stava per mollare.
Una mano possente, nera, lo afferrò per il polso.
Sollevò la testa.
Ernesto Hoost.
10
— Ho perso quattro uomini.
— Lo so.
— Quattro uomini!
— Me lo ha già detto questo, Loredan!
Chance non ne poteva più. Di quel lavoro infame. Di gente fetida come Paolo Loredan. Di giocarsi la pelle. Poi ricordò che il suo compito era un altro. E il posto che occupava nella barricata.
— Dubito molto che verserà lacrime sulle loro tombe. — Accese un sigaro, strafottente. — Lei è vivo, o sbaglio?
Dal suo scranno, Paolo Loredan avvampò per qualche istante poi, subdola, la paura tornò dentro di lui. Assenti, respirò a fondo. — E lei è quasi morto...
— Sono ancora qui, a proteggerla. Se è sempre dell’idea.
Stava tirando troppo la corda?
— Ma sì. Ma sì... solo che... — Loredan si afflosciò sulla poltrona. — Credevo che volesse ucciderla, quella puttana.
— Non è quello il mio incarico.
— Ma aveva detto...
— Lo so cosa ho detto. E sono ancora convinto che si tratti della tattica migliore. L’abbiamo seriamente innervosita, ora dovrà riorganizzarsi.
— Innervosita ? — latrò Hoost. Chance non lo guardò neppure.
Loredan gli fece cenno di tacere. — Non... è possibile che rinunci?
Chance assaporò il Garibaldi per alcune boccate. Flash improvvisi. Altre avventure. Situazioni simili. L’esperienza e il Rettile gli parlavano.
— Escluso — scosse la testa. — Quella non molla. Ho già conosciuto killer di quel tipo. Per lei è una questione di faccia e orgoglio personale. Proverà ancora. Diventerà imprudente, però. E allora morirà. Non si sogni neppure che molli. La sua organizzazione lo considererebbe un fallimento e, in quella linea di affari, sbagliare e morire sono termini interscambiabili. Vale anche per me, ma non me ne preoccupo molto. Se lei volesse punirmi e rimpiazzarmi avrebbe sempre un grosso problema. Se Antonia Lake viene ritirata dai suoi per incapacità, manderanno uno più bravo.
— No... senta, Renard, non se la prenda così. — Loredan sudava, realmente spaventato. — Non volevo dire... insomma... comunque le ha tolto quel fottuto fucile.
— Non aspettiamoci che ripeta la stessa tattica, questa volta verrà vicino.
Con soddisfazione Chance vide una sensazione subdola, abbacinante, impadronirsi del trafficante e svuotarlo di ogni energia.
— Io non immaginavo che sarebbe finita a questo modo.
— E allora perché fregare quei salafiti? Perché non chiudere correttamente l’accordo?
— Io sono stato... consigliato. — Loredan si passò una mano sul viso, la ritrasse umida. — Vede, Renard, ci sono cose, circostanze che talvolta... — Alzò gli occhi al cielo. — Sfuggono alla logica.
— Non ha idea di quante volte abbia sentito questo discorso. Dove vuole andare a parare?
— Devo vedere una persona, urgentemente. — Loredan agitò una mano per tacitare ogni proposta. — Lo so che dovrei star chiuso qui ma sono costretto ad andare. Questa persona mi darà un consiglio.
L’indovina. Eun-Yung aveva ragione, quindi ...
— Organizzeremo la cosa. Abbiamo a che fare con un serpente molto velenoso. Meglio muoverci che restare ad aspettarlo qui.
Antonia Lake non riusciva ad accettare di avere fallito.
Chance Renard, certo. Così straordinariamente, maledettamente testardo da ricordarle un altro suo vecchio nemico. Spetrak, Vlad Spetrak.
Dove sei, adesso?
Era rientrata al suo nuovo covo, dalle parti di Cannaregio. Accese uno spinello. Lasciò che la ganja senegalese le riempisse i polmoni, che le svuotasse la mente dai ricordi. Mandò giù una sorsata di succo di pera misto a rum dominicano. La frustata di lava liquida le snebbiò il cervello.
Sul portatile c’era un’informazione criptata per lei.
Molto, molto interessante.
La location del prossimo campo di fuoco.
Questa volta non avrebbe fallito.
Da quando aveva avuto il primo rapporto sessuale, Chance Renard aveva elaborato una propria teoria sull’Altra Metà del Cielo.
Esistono donne con un grandissimo potere. Forse ne sono inconsapevoli da bambine o da adolescenti ma, con gli anni, ne diventano coscienti. A volte lo impiegano con discrezione, ma troppo spesso ne abusano. Esistono altre donne capaci di trovare un equilibrio in modo da non autodistruggersi. Di fatto sono in grado di friggere il cervello di un uomo, qualsiasi uomo, con un solo sguardo, un unico movimento, un accenno di sospiro.
Lana tornò a tormentarlo con uno dei suoi sorrisi di scherno.
Tu questo lo sai. Ti imponi di non caderci ma sei altrettanto consapevole del fatto che sia inutile resistere.
Lo invitò a osare.
Rimani lì, come uno scemo, e non vorresti essere da nessun’altra parte.
Poi uno diventa vecchio e crede di aver imparato.
La vita è una sola, in fondo...
Ma Lana era morta. Lana lo aveva lasciato solo. E adesso si divertiva a indurlo verso altre avventure. Forse perché, nel mondo buio dove si trovava, voleva che lui tornasse a essere l’incosciente di sempre. Tali filosofiche e profonde considerazioni tenevano Chance Renard insonne. Mentre avrebbe dovuto concentrarsi su ben altro problema. Solo che quel problema tattico e tecnico, eminentemente connesso alla sua professione, si imperniava sul soggetto di quei pensieri.
Eun-Yung sembrava presidiare la stanza dei segreti, locale algido e onirico, centro nevralgico dell’archivio di Loredan. Per tutta la sera Chance aveva cercato il modo di entrarvi, immaginando quale potesse essere il nascondiglio dal quale accedere al server protetto del trafficante. Ma ogni volta aveva trovato un ostacolo. Sensori di movimento antichi come la cultura coreana, fotocellule nascoste da chi aveva inventato quel genere di architettura, la presenza della stessa padrona di casa. La quale non faceva parola di ciò che era avvenuto quel giorno, ma continuava a tenere gli occhi puntati su Chance.
Alla sera, più per scrupolo che nella reale speranza di scoprire un varco, Chance si ritrovò a fumare l’ultimo sigaro sulla soglia della stanza dei segreti.
Eun-Yung era là, inginocchiata a suonare il flauto di fronte all’oloproiettore. Apparentemente assorta solo e unicamente nella sua arte. Dalle falde del kimono color indaco fuoriuscivano scarpette di vernice rossa come gocce di sangue stillate da un morso erotico sulla sua pelle. Incongrue con il resto della sala, la situazione e pure con l’arredamento.
Perfette scarpette rosse.
Attirarono l’attenzione di Chance, proprio per la loro apparente mancanza di armonia con il resto della scena. Eun-Yung suonò ancora per un poco, poi allontanò dalle labbra il flauto traverso. Le immagini dell’oloproiettore furono come inghiottite. Solo allora si voltò e sorrise a Chance. Un’espressione penetrante come un affondo di pugnale. Che bisogno c’era di parole?
Chance si sentì inadeguato in ogni suo tentativo di resistere, si sentì sconfitto.
Eun-Yung si alzò passandogli accanto con un frusciare di veli.
Chance ebbe la sensazione di posare le labbra su quelle di lei. Stringendola a sé, giocando con la sua lingua, inalando il suo profumo.
Un flash nella sua mente.
Restarono invece a sfidarsi per qualche istante poi il Professionista si diede per vinto e proseguì. Fu solo quando arrivò sul balcone che notò una piccola porta di servizio che dava su una scaletta. Tra un ballatoio e una rampa di ferro battuto, i gradini scendevano verso il giardino. L’ingresso pareva condurre alla stanza dei segreti, ma certamente, come ogni via troppo chiaramente indicata, celava trappole.
Eppure era di là che sarebbe dovuto passare.
Mentre ravvivava la fiammella del sigaro, Chance si rese conto che, una volta sottratto il segreto a Loredan, avrebbe perso ogni occasione di avvicinarsi a Eun-Yung.
La vita è ingiusta.
11
Luoghi di menzogne. Errori di valutazione, quasi sempre mortali. L’isola di Spinalunga non aveva preso il nome Giudecca perché era un quartiere ebraico. “Giudecca” veniva dal termine “giudicato”. Un tempo era stato un luogo di esecuzioni. Su quell’isola, Giovanni Stucky, un imprenditore impopolare che nell’altro secolo aveva fatto costruire un grande mulino per la produzione di farina, aveva pagato con la vita la sua convinzione di poter comprare tutto col denaro. Sgozzato con una rasoiata da un suo ex operaio.
Oggi ville residenziali nuove e brutte s’intersecavano con le strade vecchie e strette di un quartiere caratteristico ridondante di richiami di botteghe, musica da bar, schiamazzi assortiti.
Tuttora, valutare in maniera errata un luogo del genere poteva rivelarsi fatale.
Il Molino Stucky era stato restaurato come monumento storico. Era il luogo dove Paolo Loredan doveva incontrare l’indovina dalla quale dipendevano tutte le sue azioni. E forse anche qualcosa di più.
Chance lo accompagnò su una nuova motolancia. facendogli da scudo assieme a Ernesto, Nicky e Rosario. Lo serravano come scudi di una falange. Non una bella sensazione.
Con la sera e il calore, dal mare si levavano vapori foschi, simili a una nebbia che asciugava i polmoni.
Eppure, nella mente di Chance, gli occhi di Eun-Yung occupavano molto più spazio del dovuto. In ogni caso, avvicinandosi alla destinazione, lui si convinceva che Antonia Lake fosse vicina.
E Antonia non era il tipo da indugiare in sentimentalismi.
— Siamo arrivati — annunciò l’uomo al timone.
Chance scambiò un’occhiata con Hoost. Senza necessità di parole, aprì il boccaporto e uscì allo scoperto per primo. Rosario gli tenne dietro, come sempre astioso e poco disposto al lavoro di squadra.
Chance seguì il lento avvicinarsi dello scafo al pontile. L’urto venne ammortizzato dai grandi copertoni legati al bordo del molo. Chance si guardò in giro. Ormai era calata la notte. Più che aiutare, le luci del quartiere inquietavano.
Chance bonificò rapidamente la strada poi saltò a riva con agilità. Niente pensieri, in quel momento. Il Rettile prendeva il sopravvento, anestetizzando ogni altra passione.
— Via libera.
La casa della vecchia megera che si proclamava indovina si trovava a non più di duecento metri. Una piazzetta con l’immancabile pozzo chiuso, un’arcata di pietra, un vecchio edificio scuro.
Istintivamente, il Professionista cercò di capire dove potesse trovarsi Antonia ma non recepì nulla di ostile o pericoloso.
Quella donna doveva essere molto, molto brava.
Con un gesto imperioso indicò a Rosario di appostarsi sotto l’arcata con la pistola in pugno.
Il gorilla non amava prendere ordini ma non era uno sciocco. Aveva capito che, malgrado tutto, Chance conosceva il lavoro. Si affrettò a correre per prendere posizione. Aveva infilato un visore notturno ed era armato di una lunga pistola in polimeri e ceramica. A lui il compito di coprire il perimetro con tiri precisi.
Passi sull’acciottolato. Uno dei bodyguard.
Chance si sentiva nudo con le spalle allo scoperto, ma non poteva fare altrimenti. Estrasse la Beretta, mise il colpo in canna, impugnò a due mani.
— Muovetevi — sussurrò nel laringofono.
Spuntò prima Nicky, poi Loredan e infine Ernesto Hoost, armato di mitragliatore Beretta Arx160. Equipaggiato con puntatori, manopole, intensificatoci, lanciagranate, era l’ultima generazione delle armi da guerra: un fucile da battaglia. Hoost ne era orgoglioso. Si piazzò sul molo dietro un’enorme bitta di metallo, sorta di fungo marcio che spuntava dal terreno. Tra lui e Rosario avevano una visuale completa del campo di fuoco da attraversare.
— Renard, mi stia vicino — disse Loredan.
Non sembrava l’intonazione di chi impartisce un ordine, ma Chance non era comunque nello spirito di obbedire. Compì un passo in diagonale.
— Sbrighiamoci — disse secco.
La notte non gli piaceva. Non quella notte.
Si accese improvvisamente un lume alla finestra di uno dei palazzi sulla darsena. Un intenso faro giallo che spezzò l’oscurità.
Diversivo.
Chance soffocò un’imprecazione, incapace di resistere alla tentazione di guardare da quella parte, seppure per un solo istante.
Invece il nemico arrivò dall’ombra più buia.
Non una sola figura.
Un intero gruppo.
Mitragliatori silenziati, puntatori agli infrarossi, mimetiche da combattimento.
Il crepitio degli schiocchi in full-auto rimbalzò sulle pietre della vecchia piazza.
Un’infilata di colpi a tiro incrociato trascinò Ernesto al suolo.
— Via, via, via! — Chance azionò il mirino laser, cominciando a correre.
Rispose al fuoco alla messicana. Sparando in movimento. Pop, pop. Passi calibrati, due colpi per volta. Pop, pop. Forse aveva colto il bersaglio, forse no.
Un’altra raffica da un fantasma in tenuta da combattimento.
Rosario cadde senza aver sparato un colpo.
La luce che li aveva distratti si era spenta, sprofondandoli nuovamente in una oscurità afosa, priva di vie di fuga.
Chance si gettò a destra, spalle al muro. Esplose altri due colpi. Pop, pop.
Si chinò per istinto. La parete alle sue spalle eruttò sotto gli impatti dei proiettili ad alta velocità. Chance allineò il tiro, fece fuoco. Pop, pop.
Inchiodò una sagoma scoperchiandogli il cranio.
Fece un duro cenno a Loredan. — Da questa parte!
Loredan e l’ultimo dei suoi bodyguard esitarono.
— No... alla barca — urlò Loredan.
Chance non ebbe neppure il tempo di imprecare.
Accadde ciò che il Rettile aveva già prefigurato in un battito di ciglia.
Nicky fu abbattuto a distanza. Loredan restò improvvisamente solo. Di fronte gli apparve un’ombra. Un killer rimasto in attesa vicino al molo.
Non Antonia Lake.
Gli occhi ormai avvezzi alla visione notturna di Chance gli trasmisero un’ondata di emozioni che lo paralizzò.
Nelle acque era scomparso e dalle acque tornava a colpire.
Murad, l’Uomo delle Lame.
Con un braccio solo. Una zanna d’acciaio balenò nel buio in uno strano gioco di riflessi. Arco d’argento in piena tenebra.
Loredan emise un grido gorgogliante.
Uno zampillo di sangue scuro dilagò nel vuoto.
Murad impugnava una specie di falce-scimitarra. Di certo arma artigianale e senza possibilità di scampo.
Decapitò al volo il suo bersaglio.
La testa di Paolo Loredan rotolò sull’acciottolato, arrestandosi alla base del vecchio pozzo.
Poi, malgrado la notte, Murad diresse occhi come gioielli forgiati nell’inferno verso Chance.
Il Professionista vuotò il caricatore con ferocia. Il carrello scattò indietro. La cordite lo prese alla gola.
Murad era svanito.
Ma i suoi uomini no.
Passi a destra. Da un vicolo.
Chance era paralizzato. Mai restare senza colpi durante uno scontro. Non sarebbe mai riuscito a cambiare il caricatore in tempo.
Un uomo in nero sollevò l’MP5 silenziata.
E morì sbalzato da una serie di proiettili sparati nel buio.
Il corpo rotolò sul selciato tra rumori confusi e viscidi. Alle narici di Chance arrivò una folata: fumo di spari, tessuti bruciati e sangue.
Lo scontro era finito. Loredan e i suoi sterminati.
Murad sparito.
Restava solo Chance.
E la donna che gli aveva salvato la vita.
Scivolò fuori da una nicchia, in pugno la pistola Blackhawk ancora fumante.
La chioma rossa scarmigliata di fronte agli occhi. Una ferita superficiale alla spalla.
Antonia Lake.
— Via di qui, Chance Renard. Il 666 ha venduto anche me. Nuovi accordi. Una trappola per far fuori Loredan e accontentare i salafiti. Al tempo stesso eliminavano noi due. Secondo te a chi dobbiamo questo bello scherzetto?
Chance non rispose.
Dal canale arrivava una motolancia della polizia. Fari e sirene.
Chance cambiò caricatore e seguì la sua nuova, inattesa alleata.
La ditta Loredan aveva un nuovo amministratore.
Ed era di nuovo in affari con il mondo.