Le cinque voci

di Giuseppe Bonura2

 

 

Apparso sul n. 500 di Segretissimo (28 giugno 1973) 

 

 

 

Con abbacinante consapevolezza, A. sapeva che la sua fuga era senza meta e senza futuro. E tuttavia continuava a fuggire. Si spostava da una città all’altra, da un paese all’altro, da un villaggio all’altro. Ogni tanto si chiedeva in quale angolo d’Europa sarebbe stato raggiunto dalla raffica. Scorgeva il suo corpo galleggiare bocconi su una fetida pozzanghera suburbana; delle volte un’immagine meno oscena sopraffaceva il suo istinto di sopravvivenza e lo empiva di un folle desiderio di morte. 

Allora si fermava. Parcheggiava l’auto a ridosso di una siepe di biancospini o di tamerici, in un’arborea campagna o sulla riva di un fiume e di un lago inconosciuti. Si stendeva, le mani incrociate sotto la nuca, il ginocchio destro sollevato, gli occhi aperti a un cielo profondo e indifferente come il tempo o la storia: e aspettava. Passi talora si avvicinavano, e voci si udivano: ma non riguardavano lui. Contadini, pescatori e amanti gli gettavano umani sguardi e rapidi si allontanavano nella luce o nell’ombra lasciando dietro di sé una scia di divertiti bisbigli. A. sorrideva. Però a tratti lo assaliva la voglia di gridar loro chi era, di enumerare freddamente gli uomini e le donne che aveva ucciso su comando o per difesa, per vedere specchiato in quella gente ignota e pacifica il suo panico. Con il pensiero allestiva una drammatica scena di fughe e di inseguimenti. Simulava mentalmente il rantolo delle corse disperate, lo schianto degli spari, i tonfi delle cadute irrimediabili. Cadaveri si moltiplicavano su un palcoscenico fantasmatico. Qualcuno sussultava nello spasimo dell’agonia. A. gli dava il colpo di grazia: e si svegliava. Dieci quindici venti, spesso trenta secondi e più di trenta passavano prima che si persuadesse di essere ancora vivo. Non di rado provava un’acuta delusione. 

Riprendeva a fuggire. Da quando cinque anonime e ghignanti comunicazioni telefoniche, a breve distanza l’una dall’altra, lo avevano avvertito che la sua identità era stata scoperta, il sangue di A. pulsava all’unisono con i giri delle ruote della sua macchina. Quasi tutto il suo mondo era racchiuso nello specchietto retrovisore. Là dentro, un giorno, sarebbe apparso il volto oscuro della morte. A. si augurava di vedere in faccia i suoi giustizieri, di domandar loro come avevano fatto a individuarlo, perché avevano tardato tanto a sopprimerlo. Sapeva che la sua era una curiosità infantile, addirittura grottesca per un uomo come lui, e nondimeno non riusciva a rassegnarsi a scomparire per sempre in un lugubre silenzio privo di interrogativi e di risposte. Gli sembrava che se quella curiosità fosse stata soddisfatta, la sua vita e la sua morte avrebbero avuto un senso. 

Anche per questo ogni tanto decideva di attendere, disteso ad occhi spalancati, gli ignoti che lo avrebbero ucciso. Ma gli inseguitori, dopo quelle cinque repentine telefonate notturne, non gli avevano più segnalato la loro presenza. Erano sfrecciate migliaia e migliaia di auto di fianco a quella di A. e niente era successo. Aveva visto innumerevoli occhi osservarlo supino sull’erba o sulla ghiaia, ma nessuna mano impugnava un’arma. La sua fuga e la sua immobilità si consumavano in una sorta di vuoto siderale. 

Una mattina si risolse a tornare nell’albergo dove era stato identificato. Percorrendo la via principale della metropoli, gli parve rimpicciolita, come se le case e i palazzi che la fiancheggiavano si fossero spostati in avanti nell’assurdo tentativo di congiungersi. Lo dominava ancora la visione degli spazi immensi. 

Chiese la stessa camera che aveva occupato prima di cominciare la sua fuga. Fortunatamente era libera. Entrando, l’unica cosa che lo interessò fu il telefono. Sollevò il ricevitore e ascoltò, affascinato, gli squilli che risuonavano nella incommensurabile cavità di un labirinto di fili e di cavi. Si figurò protozoi simili a uomini avanzare dentro il buio di microscopiche e tortuose gallerie. Un esercito sotterraneo si dirigeva verso di lui, con urla belluine e rulli di tamburo. Lo riscossero i rintocchi delle campane della chiesa davanti all’albergo. 

A. scostò le tende della finestra. In un tramonto violaceo la lucida carrozzeria di un sontuoso carro funebre mandava bagliori d’oro e d’argento. Lo seguiva un’esigua folla compunta. Gli sembrò che una donna alzasse il viso e che per un istante i suoi occhi bianchi come la cera palpebrassero dietro il velo. A. la pedinò con lo sguardo finché il corteo svoltò l’angolo e si dissolse in un pulviscolo di luce artificiale: le automobili, i negozi, i cinema, tutta la città si era illuminata di colpo. 

Le narici di A. si colmarono dell’odore selvatico della sua pelle. Si ricordò che da almeno quattro settimane non faceva un bagno completo. Indugiò a lungo nella vasca tra gonfie spume di sali tonificanti, giocando a immaginarsi immerso in un mare equatoriale. Nella nebbia calda, azzurra e fluttuante della stanza, un dialogo incongruo si svolse tra lui e una bambina riflessa nelle sue pupille. A. sapeva che il suo nome era Diana. 

— Lo prendiamo per la coda — disse A. — Il buco non dev’essere molto profondo. 

— Non infilarci la mano — gridò la bambina. — Ha i denti aguzzi come i chiodi. Li ho visti quando ha aperto la bocca per saltarmi addosso. Ti mangerà il braccio.

A. rise.

— Un topo non è una tigre — disse.

— Ma quello non è un topo normale. È un ratto.

— Come fai a saperlo?

— Me l’ha detto la mamma.

Il rombo di un aereo sovrastò per un attimo le voci.

— Ammazzalo con la tua pistola — disse la bambina.

— È una buona idea — rispose A.

Ora si udivano rumori di passi, e di cassetti aperti e chiusi, e un borbottare confuso a distanza: e su tutto un ronzio continuo, ossessivo.

— Tappati le orecchie.

Uno sparo spaccò il silenzio come se fosse fatto di vetro.

— L’hai colpito? — domandò la bambina.

Poi urlò.

A. schiacciò il pulsante di ritorno e l’intera bobina si arrotolò a ritroso fino alla posizione d’avvio. Spense il microregistratore e lo posò sulla mensola della vasca da bagno. Cercò di richiamare alla memoria la data di quella mattina in cui si era divertito a riprodurre le reazioni di sua figlia Diana quando, tra eccitata e spaurita, era andata ad avvertirlo che nella sua camera si era introdotto «un tipo che ha il muso di un topo gigantesco e criminale». In un primo momento A. si era messo a ridere credendo che la piccola fosse preda di una delle sue tante fantasticherie. Poi le lacrime offese di Diana e un cenno asseverativo e ammiccante della moglie, avevano spinto A. a organizzare quella straordinaria battuta di caccia nella sua casa, che si era conclusa con il massacro dell’ospite indiscreto. Lo aveva ridotto a una poltiglia tale che il gatto, dopo averlo annusato, si era acciambellato in disparte con una chiara espressione di disgusto. 

A. non aveva più cancellato quell’inopinata registrazione in un apparecchio che gli serviva per il suo tragico mestiere. Anzi ogni volta che gli veniva il desiderio di ascoltarla si pentiva di non avere impresso nella bobina, con la sua voce, anche la data di quell’avventura domestica, che gli suscitava un senso di tenerezza e di aspra nostalgia. La data lo avrebbe aiutato a misurare con precisione il tempo della sua lontananza e a calcolare con esattezza l’età di Diana. Certe notti gli capitava di sognarla donna, ma poi si accorgeva che era il volto della moglie. 

Qualcuno bussò. Con calma A. indossò l’accappatoio nella cui tasca aveva infilato una rivoltella. Si affacciò alla porta della stanza da bagno. Nella penombra, l’apparecchio telefonico colore avorio gli inviò un barbaglio sinistro.

— Chi è? — domandò.

— Un telegramma per lei — gli rispose una fresca voce di ragazzo di là dallo spessore della parete. 

A. tentò d’immaginarne la statura e la fisionomia. E nella mente non lo vide solo: quattro figure lo attorniavano con un mostruoso e muto sorriso sulle labbra esangui. Il corridoio si stendeva nella desolazione di un deserto di tappezzerie e di passatoie crivellate di fori catramosi e maleodoranti, come bizzarre vestigia di una comunità arsa viva con le punte incandescenti di schidioni e di coltelli. In realtà non erano che gli innocui segni delle sigarette schiacciate contro i muri o gettate a terra ancora accese da clienti sbadati o infantilmente sadici. La fantasia di A. fabbricava lugubri metafore barocche. 

— Non posso sbagliarmi — replicò la fresca voce a una ennesima domanda automatica di A. — C’è scritto proprio camera diciotto. 

— E niente nome? — insistette A.

— Le ripeto: niente. Soltanto il numero. Se vuole, lo respingo. Affari suoi.

— No. Me lo passi sotto la porta.

Per viltà, A. non lo lesse subito. Era matematicamente sicuro che conteneva il secondo messaggio di coloro che ormai chiamava, dentro di sé, “i cinque cavalieri dell’Apocalisse”. Quando lo lesse, A. comprese che il cancro della paura aveva devastato il suo corpo e il suo spirito. Il telegramma augurava, con uno stile burocratico, un’erculea e marziale notte d’amore alla coppia di sposi che aveva occupato la camera durante gli ultimi giorni della sua fuga. Era firmato: «La mensa degli ufficiali». Evidentemente i giovani coniugi stavano scappando anche loro da un albergo all’altro, e forse da una città all’altra, per non farsi sopraffare dalla volgarità di quegli inviti. 

Il giorno dopo vennero recapitati ad A. nove telegrammi dello stesso tenore e della stessa firma. Invitò brutalmente il fattorino a informare il direttore dell’equivoco.

Poi fu tentato di chiedere un’interurbana. Voleva sentire la sua famiglia. Ma ancora una volta, proprio mentre si apprestava a comunicare il numero telefonico della sua casa, lo paralizzò la furente consapevolezza che non gli era neppure concesso questo elementare diritto. Lo avrebbe intercettato il centralino della sua azienda e gli avrebbe impedito di parlare, obbedendo d’altronde allo scheletrico ma ineludibile dettato della legge.

Per una settimana A. attese invano le voci o i passi degli ignoti inseguitori. Consumava i pasti nella sua stanza. Aveva ottenuto che la cameriera assaggiasse in sua presenza il cibo, blandendola quotidianamente con il violento fascino della banconota. Conobbe la tortura dell’insonnia e la sterminata crudeltà di un’esecuzione certa e ogni giorno differita. Infine si avventurò nella metropoli. 

Anziché percorrere le strade centrali, dove forse non avrebbero osato aggredirlo, si mescolò con l’umanità meteca e infida dell’angiporto. Passeggiava senza voltare il capo, aspettando fatalisticamente la raffica o il pugnale. Né più lo angosciava di vedere il suo corpo riverso su un cumulo di rifiuti. Osservava i passanti con occhi allegri e beffardi. 

Una sera si azzardò fino alla estremità di un molo obliquo e vischioso. Le navi e le motobarche rullavano lievi sull’acqua nera e asfaltata di petrolio. Il mare non aveva più odore e le alghe erano ciuffi di capelli di marinai in franchigia. A. si liberò di alcuni documenti, d’altronde privi d’importanza. All’improvviso una ragazza gli si parò davanti, dopo averlo aggirato furtivamente. 

— Sei solo? — domandò.

Aveva la voce roca e patetica della civetteria professionale.

— Mi puoi uccidere — disse d’impulso A. — Ma vorrei prima vedere in faccia i tuoi complici.

La ragazza rise.

— Quanti credi che ne abbia? Cento? Mille?

— No, quattro — rispose A.

— Ma tu vaneggi. Ti senti male, per caso?

— Sto benissimo.

— Allora vieni.

A. restò senza fiato quando, nella luce marcia e cangiante di un appartamento ingombro di suppellettili e di mobili su cui pareva si fossero incrostati gli stili di tutte le epoche e le civiltà, si accorse che la ragazza non poteva avere più di quattordici anni. Pensò alla figlia. Il desiderio di morire diventò insopportabile come la profonda e oscura nostalgia di un apolide. 

— Dove sono gli altri? — chiese.

— Ma quali altri?

A. si irritò.

— Basta con la commedia.

La ragazza smise di spogliarsi. Si buttò sulle spalle una sorta di mantello militare e retrocesse fino a una tenda grigia e screpolata come la creta delle arsure. Fissava A. con un ghigno che le spaccava il trucco da un orecchio all’altro. E con quieta perfidia disse

— Non vuole pagare, anche se ha il portafogli gonfio.

Sulla tenda si disegnò in rilievo la sagoma di un uomo. Fulmineo, A. scaricò la sua pistola. Vide la ragazza cadere e il disegno svanire. Si precipitò fuori e la folla assistette con critico interesse alla corsa di un pazzo. 

La mattina seguente i giornali riportavano con enfasi la notizia di un ennesimo delitto avvenuto nella “tonnara della malavita”. Le vittime erano una piccola prostituta e il suo protettore. Costui era il padre. Dell’assassino, o degli assassini, nulla. La polizia perlustrava con alacrità le piste di un regolamento di conti. 

La stanza numero 18 cominciò a esalare vapori pestiferi. Qualcuno giurò di avere udito, passando davanti alla porta, l’ululo di un lupo. Altri, l’ansito di un agonizzante. La cameriera faceva pervenire ad A., insieme alla colazione e alla cena, gli allarmati commenti degli ospiti dell’albergo. A. annuiva e mangiava fumando. Aveva proibito agli inservienti di pulire il pavimento, di aprire la finestra e di cambiare le lenzuola. Con il denaro li aveva persuasi a simulare il loro compito. Per il direttore, A. era semplicemente un cliente facoltoso e madornale.

Nella semincoscienza dell’abbrutimento, A. seguitava a interrogarsi sulla ragione che lo aveva indotto a sparare. Era andato a quell’appuntamento per morire, non per uccidere, credendo senza il minimo dubbio di entrare docile nella trappola degli ignoti inseguitori. Se meditava sull’equivoco; la sua maschera allucinante rifletteva un arguto e desolato sorriso. 

Una notte un incubo lo svegliò di soprassalto. Cercò a tastoni l’interruttore della lampada sopra il comodino. Urtò il telefono, schiacciò con il polso il microregistratore, che cadde insieme all’apparecchio. E cinque voci ghignanti, in cinque toni diversi, ripeterono a brevi intervalli, nello sterminato silenzio della stanza, la stessa frase: «Ti abbiamo scovato. Morirai». Accese la luce e guardò inebetito lo sfacelo, e ascoltò ridendo la condanna. Il microregistratore ronzava a vuoto. Poi pronunciò un’altra frase: «Lo prendiamo per la coda. Il buco non dev’essere molto profondo». A. riconobbe la sua voce. Ricordò Diana e quella lontana caccia a un topo nella sua casa. Ricordò nitidamente che si era divertito, prima di iniziare il massacro, a riprodurre per cinque volte, in cinque toni diversi, quella terribile e innocente frase per drammatizzare il gioco. Comprese che la notte in cui aveva creduto di essere stato inesorabilmente identificato, tutto si era svolto come questa notte, e che soltanto il sonno e la paura lo avevano spinto a confondere il telefono con il microregistratore: però né l’uno né l’altro, quella notte, erano caduti. 

Per tre mesi era fuggito, aveva atteso la morte e ucciso, incalzato dalla sua stessa voce.