Sopravvivere alla paura

 

 

 

— Monco!

Una voce ringhiante, che artiglia l’aria densa di stupore.

 

Te ne stai in disparte.

Hai lo sguardo spaurito, la faccia pallida. 

Gli occhi di qualcuno che ha visitato l’inferno ed è tornato per riferire. Solo che non trova le parole giuste per descriverlo. Allora trema e preferisce passare le ore vegetando. Perso dentro dimensioni estranee, senza nulla da capire o da intendere e volere.

Un uomo coraggioso ti ha condotto là. Dopo averti salvato dal settimo girone. Colui che si prende cura di te ora che è tutto finito. Adesso che non c’è più niente da nessuna parte. 

Hai solo quindici anni e devi completare gli studi. Crescere. Stare nascosto al sicuro. 

Dentro al collegio dove ti hanno portato, tutto sembra finto, lontano. Roba di un’altra dimensione a cui senti di non poter appartenere.

Perché vivi dentro la paura e vorresti piangere e gridare.

Distruggere il mondo intero.

Al limite startene da solo.

Fuori dalla percezione delle cose.

Perso all’interno di te stesso.

Ti vergogni per quello che ti hanno fatto e nello stesso tempo ne vai fiero: il moncherino del braccio sinistro lo nascondi sotto la giubba. 

 

— Monco... 

La voce sgradevole di un ragazzo.

— Sei arrivato oggi, monco? 

Tu che non rispondi. Resti a testa bassa. Non vuoi parlare con nessuno al mondo.

— Dico a te, sai!? 

Alzare la testa piano per vedere a chi appartiene quella voce.

Un tipo grande e grosso. Con la faccia cattiva. Ti fissa con un ghigno di traverso.

Non sai cosa dire. Vuoi solo essere lasciato in pace, andare via.

Vuoi che non sia successo nulla.

Vuoi non sentirti così solo e abbandonato.

Il ragazzo grande e grosso è in compagnia di altri due che lo fiancheggiano.

I due ti afferrano e ti sollevano.

E ti tengono stretto per le braccia.

Il ragazzo con lo sguardo cattivo dice: — Tu non vali un cazzo, monco.

Poi prende a colpirti sulla faccia: una volta, due volte.

Il sangue che esce e tu vorresti morire, ma non ci riesci.

Quel ragazzo ti sta pestando e tu non ce 1a fai a reagire.

Perché in fondo, alla fine, ti sembra persino giusto così: essere picchiato a sangue, senza un motivo vero. Solo perché sei fragile, solo perché sei triste.

Ancora un colpo, un altro. Ma non provi dolore.

— Non vali niente, monco! 

Un colpo, un altro...

E tu non senti nulla.

Solo il vuoto che grida da qualche parte: nella terra incognita abitata da tutti i mostri del mondo.

 

 

1

 

Bangkok. Magazzino del mattatoio

Dieci anni dopo

Spalancò gli occhi di colpo.

E c’era la folla urlante.

Attorno a lui.

Odore di carne e di sudore. Puzzo di sangue.

La gente accalcata attorno al ring urlava con le braccia sollevate. L’aria fumosa, una coltre opaca che confondeva lo sguardo.

Il monco si scosse dai suoi pensieri.

Si alzò da terra, abbandonando la posizione del loto. La meditazione era finita.

Mentre faceva gli esercizi di rilassamento si era perso nel luogo oscuro della sua memoria.

(Monco?)

Adesso doveva rendersi di nuovo trasparente a ogni sensazione, in attesa di entrare nella coltre della rabbia.

Solo quella.

Nient’altro.

Si avvolse le nocche della mano destra con la tela grezza. Si fasciò con calma. Poi si dedicò al moncherino della sinistra. Lente passate attorno a ciò che restava in fondo al braccio. Un grumo calloso al posto della mano.

Qualcuno del pubblico lo stava dileggiando, gridava ironicamente “Shuto”, “taglio della mano”. 

Cercò di mantenersi freddo, distaccato, senza emozione.

Calmo ma presente alla possibile devastazione, come un mare in tempesta sotto il pelo dell’acqua. Sollevò gli occhi e si guardò attorno. Le sue pupille sembravano bruciare fuoco verde. Smeraldi luccicanti pronti a tutto. 

Shuto”. 

Avanzò di un passo. Cercò di sentire il pavimento sotto i piedi nudi come se fosse una pelle da accarezzare. Doveva mantenersi leggero. Dirigere il ventre verso il basso. 

Raggiunto il centro del ring, inspirò lentamente per trovare l’equilibrio. Indossava solo un paio di boxer neri attillati a mezza coscia, il torace scolpito di muscoli.

In quel momento ci fu un boato. Il campione stava entrando e tutti gridavano il suo nome. Mara Sai. Un cinese gigantesco. Spalle da toro, rapato a zero, naso completamente schiacciato. Gli occhi a mandorla così stretti da non lasciar intravedere le pupille. Dava l’idea di un cieco. Uno che non possedeva gli occhi, solo fenditure nella carne. Mentre avanzava, i suoi pettorali possenti guizzavano come percorsi da piccole scariche elettriche. Le mani avvolte in fasce incrostate di sangue vecchio. Coaguli lasciati dai combattimenti. 

I due avversari si fronteggiarono, guardandosi, valutandosi.

Poi il paciere salì sul quadrato. Gridò qualcosa, sollevando entrambe le braccia al cielo. 

Tutta la folla si azzittì di colpo.

Silenzio assoluto e freddo.

Il paciere invitò gli avversari ad assumere la posizione di guardia. 

Mara Sai alzò le braccia: la destra aperta ad artiglio davanti al volto e la sinistra chiusa a pugno per proteggere il plesso solare. Gambe semiflesse. Una tipica guardia thai.

Il monco era più basso di almeno dieci centimetri. Con una struttura muscolare meno pesante. Assunse una guardia aperta, classica del karate.

Il combattimento stava per iniziare. Niente regole, niente tempi da rispettare. La sfida si sarebbe conclusa con l’ultimo sangue, come nelle arene dei gladiatori.

Il paciere fece un inchino e scese dal ring. 

E i due avversari presero a girare in circolo. Passi lievi, nessuna fretta.

Mara Sai piegò le labbra in una smorfia. Si sentiva sicuro di sé. Troppo sicuro. Attaccò rapido con un calcio laterale sinistro. E doppiò con un pugno diretto. 

Il monco parò entrambi i colpi con facilità. Fece un passo indietro e ruotò su se stesso lanciando un calcio rovesciato, Ushiro Mawasci. Girando sulle anche come una trottola, centrò con il tallone la spalla del cinese. Fu come colpire un muro di mattoni. 

Mara Sai non si scompose e fece scattare la gamba destra per una spazzata alla caviglia. Sparando nel contempo una percossa, fuori tempo e fuori misura. Raggiunse il volto del suo avversario solo di striscio. 

Il monco andò a terra schizzando sangue dalle narici. Attutì la caduta sbattendo i palmi a terra. Rotolò rapido verso sinistra e con uno scatto di reni si rimise in piedi. Sputò saliva arrossata poi si passò la lingua sui denti, c’erano tutti. La testa gli girava leggermente. Una fitta lancinante al centro della faccia e sulla fronte. Sperò che la canna del naso non si fosse rotta.

Sentì la rabbia crescergli dentro.

Questo non era un bene. Doveva mantenersi tranquillo.

La gente, tutta assieme, aveva ripreso a urlare. Era la fine del silenzio. Il sangue aveva cominciato a scorrere.

Mara Sai attaccò di pugno, lanciando un verso gutturale. Ormai sicuro della vittoria. 

Il monco cercò di fare riemergere oltre la consapevolezza tutti gli insegnamenti ricevuti durante quei lunghi anni di preparazione. 

Devi essere leggero come un pensiero...

Scartò da una parte solo all’ultimo momento. Colpì l’avambraccio di Mara Sai con il moncherino, usandolo come l’estremità di un bastone.

Usa la tua paura come se fosse un respiro.

Piroettò su se stesso. Colpì con la destra da sotto in su, taglio rovesciato al lobo dell’orecchio, sulla ghiandola situata nella connessione fra la testa e la mandibola.

Mara Sai emise un gemito di dolore. Schiantato da un devastante colpo di gomito frontale sulla bocca. Sputò una boccata di sangue e denti. Cercò di reagire muovendo le braccia scompostamente.

Il monco evitò i colpi spostandosi indietro di un passo e poi gli fu addosso di nuovo. 

Devi essere come la tempesta e il raggio di sole...

Calcio crescente interno esterno sinistro alla mandibola, seguito da un fulmineo rovesciato destro sul lato del collo. Poi rigirarsi agile come un ballerino portandosi di dietro all’avversario.

Non esistono certezze.

Mara Sai crollò sulle ginocchia, piegandosi in avanti.

Yoko geri spinto, il quadricipite che si tende come un maglio. 

Gli sfondò il rene sinistro con il tallone.

Solo la luce e il buio.

Mara Sai s’inarcò con il busto all’indietro per il dolore lancinante.

Il monco andò in presa laterale al polso sinistro, spostando il peso da una gamba all’altra. Esercitò una flessione sul gomito.

Solo la coscienza del sangue.

L’articolazione fu divelta dal suo alloggiamento e l’ulna si spezzò. Il braccio dell’avversario divenne un’appendice inanimata.

Senza pietà.

Il pubblico era come impazzito.

Tutti gridavano «Shuto, Shuto...». Ma non era più per offendere come prima. 

Ora pareva una preghiera, un’incitazione. La parola magica di un rito ancestrale, una liturgia di sangue e di morte.

Il monco si avventò ancora una volta. Afferrò il collo di Mara Sai e glielo torse lentamente. Si fermò. Appena prima di rompergli la spina dorsale.

La gente prese a gridare: «Uccidi». 

L’uomo senza mano smise di combattere.

Spinse via il corpo gigantesco del cinese. Sollevò lo sguardo e fissò la calca urlante. Aveva vinto. Adesso era lui il campione. Per quello che poteva importare. 

Una ragazza si avvicinò e gli coprì con un telo le spalle sudate. Insieme uscirono dal ring. Mentre un paio di infermieri improvvisati corsero a soccorrere Mara Sai che sussultava sul tappeto bagnato di sangue.

In prima fila: un occidentale con gli occhi celesti si lasciò sfuggire un sorriso. Poi si alzò per andare dietro a colui che aveva combattuto e vinto. Lo raggiunse, gli mise una mano sulla spalla.

Il monco si girò a guardarlo. — Ti sono piaciuto, Gabriel? — Il viso imperlato di sudore. I lineamenti duri e delicati nello stesso tempo, il naso gonfio, la piega crudele delle labbra.

L’uomo con gli occhi chiari divenne serio di colpo, annuendo. — È ora di cominciare. 

Occhi chiusi.

(Gabriel Bruno indossa la mimetica nera, il viso striato di sudore e di sangue, ti allunga la mano e dice: — Vieni con me, ragazzo...

(Mentre tutt’attorno l’orrore esplode nei corpi devastati...

(Quello che resta di tua madre e di tuo padre.

(L’innocenza perduta in quel giorno lontano.)

Occhi aperti. Labbra che si muovono appena.

— Sono pronto — disse Marc Ange in un sussurro.

 

 

2

 

Berna. Laboratorio Renaissance

Una settimana dopo

Il dottor Victor Leonardi si avvicinò al paziente seduto sul bordo del letto. — Come si sente? 

Marc Ange si girò al suono di quella voce. E provò subito un senso di vertigine. Si era risvegliato dall’anestesia da meno di un’ora ed era ancora un poco rintronato. — Mi sento strano.

— La mano funziona bene?

Marc abbassò lo sguardo per contemplare la protesi che gli avevano impiantato. Da vedere era perfetta: non si notava alcuna differenza con una mano vera. Da sentire, però, faceva impressione. Lanciando impulsi di movimento con il cervello, i nervi s’innescavano e le dita si azionavano, ma non si percepivano le sensazioni tattili corrispondenti. 

Arto fantasma.

Gli avevano detto che presto avrebbe reagito, ricreando sulla base dei ricordi le giuste sensazioni. Alla fine sarebbe stato davvero come se gli fosse ricresciuta la mano mozzata, come la coda di una lucertola. 

— Sì, funziona bene, dottore — tagliò corto Marc, senza riuscire a fare a meno di aprire e chiudere il pugno.

La protesi era in acciaio polimero con inserti in titanio, leggerissima, estremamente resistente. Un capolavoro di ingegneria biomeccanica: servoadduttori ergonomici, ricoperti di pelle sintetica. Ancora troppo costosa per essere commercializzata in campo traumatologico. 

Marc era un esperimento. E la mano artificiale un prototipo.

Il dottore gli chiese di porgergli la sinistra. Ne palpò il dorso, percorrendo con la punta delle dita i nervi sintetici. Esaminò con cura la connessione con l’avambraccio. Appena visibile, mascherata perfettamente con le pieghe naturali del polso. Un capolavoro di chirurgia plastica. 

— Provi a muovere il pollice, prego.

Marc ubbidì.

— Adesso l’indice...

Marc fece anche questo.

Il dottore continuò con l’esercizio passando a controllare dito per dito. Ogni volta venne il movimento giusto alla sua richiesta. Alla fine sorrise e si allontanò di un passo. — Direi che possiamo ritenerci molto soddisfatti, monsieur Ange. 

Entrò nella stanza Gabriel Bruno, giacca, cravatta, borsa da computer a tracolla. Sembrava un ragioniere.

— Non potevamo sperare in un risultato migliore, comandante Bruno — disse il dottore con aria soddisfatta. — Il suo pupillo non potrà mai diventare un virtuoso del pianoforte. Ma l’arto impiantato funziona perfettamente.

Se ne andò.

Gabriel si avvicinò al letto.

Marc sorrise al suo tutore. Provava senso di gratitudine e affetto per quell’uomo. Era stato il miglior amico di suo padre, fedele compagno di battaglia e prezioso collaboratore. Poi era successo quello che era successo. E Gabriel Bruno era diventato un sopravvissuto. Aveva salvato la vita al figlio del suo comandante, lo aveva cresciuto. Lo aveva trasformato in un guerriero. 

Per combattere il male.

Per distruggere il mostro dalla tante teste...

— Voglio farti ascoltare una cosa, Marc.

Gabriel estrasse il portatile dalla borsa. Lo aprì sul tavolino di legno in fondo alla camera.

Marc si alzò dal letto e si avvicinò. Sullo schermo, un mpg audio.

— Questa è la registrazione di un colloquio avvenuto fra tuo padre e Jean Noble, capo del servizio segreto francese. Fatta un mese prima che tu venissi rapito...

 

Una melodia di Liszt in sottofondo.

Poi una voce, quella del generale Gracieux Ange, il tono leggermente irritato: «Esiste un terrorismo dal basso e uno dall’alto, ci sono sistemi di coercizione che vengono deliberatamente usati per costringere altri a soggiacere alla volontà di coloro che esercitano il potere...». 

Colpo di tosse. Noble prende la parola e il tono che usa suona molto tranquillo: «Intende dire terrorismi legalizzati come il patibolo, la minaccia cristiana dell’inferno, e così via? ma io credo che non...».

Gracieux interrompe bruscamente: «Intendo dire che ci sono delle grida che non si dovrebbero ignorare: le voci dei deboli, dei perseguitati. Coloro che possono cadere facilmente preda del serpente». 

«Il serpente?»

«Il mostro dalle molte teste che sta in agguato pronto a colpire con crudele determinazione» spiega Gracieux. «Abbiamo trovato le sue tracce, le stiamo seguendo. Ma sarà difficile scoprire dove batte il suo cuore immortale.» 

«Cosa intende dire, generale? Cerchi di essere più chiaro.» Adesso la voce del capo del servizio segreto è leggermente rauca, come quella di chi sta per mettersi a tossire ma non ci riesce. 

Le note di Liszt fanno quasi da contrappunto a un’atmosfera sbagliata, priva di senso.

«Lei conosce la leggenda dell’entità dalle molte teste?» riprende Gracieux Ange. «Rappresenta la calamità, la sostanza nociva che genera il male...»

Parole che paiono insinuarsi nell’aria densa di melodia sotto la forma di un sussurro venefico. 

«Siamo sulle tracce di qualcosa, ma non sappiamo ancora cosa. Un mostro in agguato. Che aspetta di mordere. Che ha già morso.» 

Un attimo di silenzio, solo le note di Liszt in sottofondo. Poi la voce del generale sembra aprirsi un varco improvviso, un pensiero dimenticato e finalmente ritrovato.

Una parola pronunciata di getto. In coda a un respiro trattenuto.

Un nome che è una leggenda e una lucida ossessione.

La radice del male che impera sul mondo degli uomini: «HYDRA».

 

La registrazione terminò.

Marc restò in silenzio. Aprendo e chiudendo la sua mano nuova. — Perché mi hai fatto sentire questa conversazione?

La sua voce era leggermente incrinata. Udire suo padre lo aveva commosso, sentiva le lacrime premere dietro i bulbi oculari. Strinse le mascelle con forza, cercando di ricacciare il dolore. 

Gabriel sospirò: — Si tratta di una documentazione audio registrata per mezzo di una cimice di rilevamento nascosta nell’ufficio di Noble. Evidentemente a quei tempi il capo del servizio segreto era stato posto sotto sorveglianza dalla sezione investigativa interna, forse si sospettava una sua implicazione come doppiogiochista. Tuo padre non ne sapeva nulla. Considerava Noble un alleato prezioso nella lotta contro il terrorismo. 

— Mentre in realtà...?

— Dopo quello che è successo a tuo padre e alla nostra squadra, dopo il massacro, Noble si è dimesso dal servizio per motivi familiari. Almeno questa è la versione ufficiale. 

Marc abbassò lo sguardo alla mano artificiale. Continuava ad aprirla e a chiuderla. — Tu pensi che Noble sia implicato nel mio rapimento e nella strage di Nemo?

— Tutta la faccenda è rimasta coperta dal più assoluto riservo. E solo lui sapeva dell’azione che tuo padre aveva intrapreso per venirti a liberare.

— Quindi sospetti che lui fosse legato all’organizzazione che faceva capo ai rapitori? 

Gabriel scosse la testa più volte, come per scrollarsi di dosso un dubbio, un’incertezza. — Io credo che ci sia un potere che opera in modo sotterraneo. Quell’Hydra di cui tuo padre parla nella registrazione. Gracieux aveva scoperto qualcosa d’importante. Per questo è stato messo a tacere. Uccidendo sua moglie e mutilando suo figlio. Organizzando la trappola che ha portato alla distruzione l’intera squadra di Nemo.

— Un doppio inganno?

— Qualcosa del genere. Tutte le tracce audio con i resoconti delle intercettazioni che riguardavano Noble sono state cancellate dagli archivi dell’investigativa. Il brano di conversazione che ti ho fatto ascoltare è l’unica cosa rimasta integra. Forse per un errore. Una conversazione che non significa gran che. Solo la prova che Noble sapeva di Hydra e che era stato posto sotto sorveglianza. La settimana successiva al massacro di Nemo, due agenti dell’investigativa sono morti in circostanze misteriose. Noble si dimise subito dopo. Una coincidenza strana... 

— Ma che non dimostra la sua colpevolezza.

Gabriel corrugò la fronte. Digitò sulla tastiera del computer e aprì un jpg.

L’immagine di un uomo sui sessant’anni, calvo come un uovo, seduto al tavolino di un bar in compagnia di un tipo abbastanza giovane, con la barba, i tratti tipici di un mediorientale.

— Questa ripresa satellitare risale al mese scorso.

— Il luogo?

— Genova. Il nostro amico Noble che chiacchiera amabilmente con Abu Zamal, un uomo di punta del terrorismo islamico. Sembra che stia arrotondando la sua pensione da ex governativo. 

— Facendo da consulente al nemico — precisò Marc.

— In tutti i casi, Noble è marcio...

Gabriel lavorò sui tasti. Altro jpg aperto: un uomo con i capelli rossi, fucile d’assalto in pugno. Al suo fianco, un tipo con folti baffi neri.

— Kostantin Dobrovich e Dolph Guthberg, fotografati prima dell’incursione di Nemo sul luogo del tuo rapimento. Si tratta solo di bieca manovalanza. Gente assunta apposta per rapire e torturare. Assassini a pagamento. — Altri due clic, altri due jpg più recenti, stessi uomini in primo piano, probabilmente foto del passaporto. — Sono entrambi vivi e vegeti e fanno parte della scorta personale di Noble. Insomma, lavorano per lui... 

Marc fissò le facce dei due uomini, prima l’uno e poi l’altro. Il secondo, Dolph Guthberg, lo ricordava bene. 

Sacramerda.

Era l’unico che si era tolto il cappuccio... prima di violentare sua madre. Adesso non portava più i baffi, ma era comunque riconoscibile.

Tutto prese a vorticargli attorno, mentre apriva e chiudeva la mano sinistra a scatti.

Nella testa immagini confuse di quello che era stato.

L’orrore.

 

Il chirurgo con quel camice informe e il cappuccio nero che lascia scoperti solo gli occhi.

Avanza verso di lui con la sega ossea in pugno.

Il ricordo di quel momento terribile, nella cella in cui lo avevano rinchiuso...

Risate sparse nel nulla, manciate di orrore.

La paura che aveva provato: prima e dopo.

Il chirurgo sempre più vicino.

Si china e ti afferra.

I suoi occhi, le sue pupille strane: una nera e una celeste. Facevano venire la nausea quando le fissavi a lungo. 

Una voce dal fondo della cella, profonda e tesa.

Fallo. Fallo adesso.

Il sangue e le urla. Che sembravano provenire da un’altra persona.

Uno che ti sta a fianco e ti dice cosa succede.

(Adesso stai piangendo, adesso stai urlando, adesso vorresti vomitare anche l’anima e morire di colpo...)

 

— Marc?

La voce di Gabriel da un luogo lontano, oltre la nebbia dei ricordi.

Cosa?

A rapidi scatti, Marc Ange superò la crisi di realtà in cui era precipitato e tornò al presente. Dentro quella camera in quell’ospedale segreto. Dove lo avevano appena trasformato nell’uomo bionico. Come nei telefilm che vedeva da bambino.

— Stai bene, Marc?

— A posto.

A parte un frammento di ossessione, mon ami, solo quello... 

Marc mise di nuovo a fuoco lo sguardo sulle immagini dei due uomini al centro dello schermo. Decise di non rivelare di avere riconosciuto uno dei killer, aveva già abbastanza angosce da superare.

Fissò Gabriel dritto negli occhi. — Cosa vuoi che faccia esattamente?

La voce arrochita dalla rabbia che gli premeva dentro.

La rabbia, la disperazione.

Per tutta risposta, Gabriel Bruno aprì un altro jpg. L’immagine di una donna... molto bella. Occhi e capelli scuri. — Karin Kessler, la moglie di Noble. Nazionalità tedesca. Quarantenne, ricca, annoiata. In questo periodo soggiorna in Corsica, in un prestigioso centro talassoterapico di Ajaccio: cure di bellezza rigenerative. Il marito la raggiunge solo il fine settimana in compagnia della sua scorta. Ti ho già prenotato una camera. 

Marc si costrinse a sorridere. — Vista sul golfo?

— E non solo su quello...

 

 

3

 

Hotel Eden Roc.

Sulla strada costiera che porta da Ajaccio alle Iles Sanguinaires. Era una costruzione moderna, circondata da un giardino lussureggiante, con un’ampia piscina rettangolare immersa in un palmeto. 

Marc vi giunse nel primo pomeriggio. Al volante della Porsche 993 turbo nera che gli aveva procurato Gabriel, la preferita della collezione che era stata di suo padre. L’auto era dotata di alcuni accessori interessanti: parabrezza blindato abbassabile, un revolver Ruger Redhawk 44 Magnum, canna da otto pollici, in un comparto nascosto del portaoggetti, sistema satellitare MAG fornito dagli stessi laboratori militari dove era stata ideata la mano artificiale. Abituato a usare un moncherino, guidare con la protesi gli aveva creato un grottesco senso di disagio.

Nello stereo, Marc aveva trovato un CD lasciato da suo padre: King Crimson. C’era un brano assolutamente perfetto per l’occasione: Two Hands, Due Mani. Marc lo aveva ascoltato ossessivamente per tutto il tragitto sulla litoranea, la malinconia che gli premeva dentro, senza provare alcuna emozione per la missione da compiere. 

Già, che cosa devo fare, esattamente?

Non lo sapeva ancora.

Lo avrebbe scoperto.

Forse troppo presto.

Scese dall’auto.

Istantaneamente, un facchino si precipitò a prendere in consegna la Samsonite, l’unico bagaglio dentro il cofano anteriore della 993.

Nella hall, Marc si guardò attorno. Un ambiente accogliente, elegante. Tappeti persiani sul pavimento, divani e poltrone di broccato. Specchi con le cornici dorate. Nell’ampia sala bar, s’intravedeva uno Steinway a coda circondato da piante di ficus. 

Il portiere lo accolse con un sorriso, porgendogli la chiave elettronica della camera: terzo piano, vista mare.

— Spero che si troverà bene da noi, signore...

 

La camera era arredata con lo stesso stile della hall. Salotto tardo Settecento con la tappezzeria carta da zucchero, quadri antichi alle pareti. Bellissima la terrazza che dava sul golfo, parapetto di colonnine bianche, tavolino di marmo rosa...

Marc aprì la valigia, riponendo la roba con cura. Poi si spogliò ed esaminò la propria immagine riflessa a figura intera nello specchio dell’armadio. Spalle larghe, torace intarsiato di muscoli, addominali definiti. 

Dopo il college, dopo la laurea. Tre anni in un centro segreto di addestramento delle forze speciali israeliane diretto da un vecchio amico di Bruno. Tutti quei mesi di allenamento. Ore e ore a sollevare pesi, a combattere, a correre. Le sedute al poligono. Guida difensiva. Corsi di lettura veloce e di tecnica mnemonica... Sembravano appartenere a una dimensione sospesa nel tempo e nello spazio. Un apprendistato concluso nei combattimenti clandestini della suburra di Bangkok. 

Con un dito percorse la linea delle cicatrici che aveva sul petto e sull’addome. Le esercitazioni avevano lasciato segni. Ancora prima delle battaglie vere e proprie. Si esaminò il naso: ormai si era sgonfiato quasi del tutto. Il brutto colpo ricevuto da quel fottuto Mara Sai non aveva provocato fratture, per fortuna.

Meccanicamente, iniziò a fare un kata stile shotokan, il preferito del suo maestro di arti marziali: Kanku dai, guardare il cielo. Presto una pellicola di sudore prese a ricoprirgli il corpo. Giunse alla posizione finale con la mente percorsa da veli di bruma. Tutti quegli anni trascorsi per raggiungere un sogno che forse nemmeno esisteva. Per diventare... 

L’angelo della vendetta?

Contro tutti i mostri del mondo.

La sua missione, la sua maledizione, il retaggio di una vita spezzata che cercava di ricomporsi.

Andò in bagno a farsi una doccia: prima calda e poi fredda, come faceva sempre quando aveva bisogno di sentire il sangue scorrere più veloce nelle vene.

Più tardi, tuta da ginnastica e sandali di gomma, diede una scorsa ai depliant che gli avevano consegnato alla reception. Diverse foto mostravano le piscine terapiche del centro.

 
La talassoterapia è una cura legata al mare, che ha origini antichissime ed era già conosciuta e utilizzata dai greci. Il termine thálassa deriva infatti dal greco e significa “mare”. 
Fu divulgata nel lontano 1700 dal medico inglese Richard Russel, che usava addirittura far bere dell’acqua di mare per curare alcuni disturbi... 
 

Marc controllò l’ora. Trenta minuti all’apertura del centro.

Fumò una Gitanes in terrazza, ammirando il paesaggio. Il golfo con le barche sull’acqua piena di riflessi. Gettò il mozzicone nel vuoto e tornò dentro.

Da una tasca interna della valigia estrasse una piccola custodia.

Dentro c’era l’arma personale che aveva scelto. Walther TPH 22 LR, long rifle, compatta, leggera, facilmente occultabile. Nonostante il calibro poco potente, nelle mani di un esperto poteva essere del tutto letale. 

Riempì il caricatore da sei colpi e lo inserì nell’impugnatura. Poi ripose l’arma nella Samsonite. 

Era giunta l’ora di cominciare le danze.

Cercando di tenere la mente sgombra da tutto, uscì dalla camera per raggiungere gli ascensori e scendere al piano seminterrato.

 

 

4

 

Zona delle piscine. Marc entrò indossando un accappatoio di spugna bianco dell’albergo, la scritta “Eden Roc” sul taschino.

Non c’era ancora molta gente. Una decina di persone, non di più.

Si guardò attorno e la vide.

Karin Kessler era immersa in una delle vasche idrotermali e sorseggiava qualcosa da un bicchiere di plastica. Aveva i capelli neri raccolti. Indossava un due pezzi rosso. 

Marc si tolse l’accappatoio e si sedette sul bordo della vasca, immergendo i piedi nell’acqua: era piacevolmente tiepida.

Con noncuranza fece guizzare i pettorali. Puro esibizionismo. E si sentì ridicolo ad atteggiarsi a consumato playboy a caccia di tardone in fase terminale.

— Ha paura di scottarsi?

Aveva funzionato. Karin gli rivolse la parola in tono neutro, che non rivelava le sue origine germaniche.

Marc sollevò uno sguardo fintamente stupito. — Prego?

— La vedevo incerto. — Karin gli rivolse un sorriso enigmatico. — Scusi se mi sono permessa.

Marc incontrò il suo sguardo. Poi le rivolse un sorriso smagliante, i suoi occhi di smeraldo parvero accendersi. — Una bella donna come lei può permettersi tutto.

S’immerse nella vasca e si sedette sul fondo restando con il mento sul pelo dell’acqua. Infastidito dalla mano artificiale, insensibile a tutto.

Il posto si stava animando e stavano entrando altre persone, tutte con l’accappatoio bianco. Gente vecchia, gente giovane...

— È la prima volta che viene in questo albergo? Non l’ho mai vista prima — saltò su Karin senza abbandonare l’espressione enigmatica.

— Sì, è la prima volta. Lei invece è un habituè?

La donna bevve un sorso dal bicchiere. — Vengo tutti gli anni in questo periodo. Ormai mi sono affezionata. E poi adoro la talassoterapia, mi rilassa... mi fa bene alla pelle.

— A quanto pare è una cura che funziona.

— In che senso, scusi?

— La sua pelle è splendida!

Karin lo guardò con la testa leggermente piegata da una parte come per valutarlo. — Lei è molto galante, sa?

Aveva occhi neri. Il destro sembrava luccicare stranamente. Forse per effetto dell’inclinazione dei raggi del sole.

— Sono galante solo con chi se lo merita.

Karin bevve un altro sorso, scrutandolo al di sopra dell’orlo del bicchiere.

Lui corrugò la fronte: — Spero che quello che sta bevendo non sia acqua di mare.

— Fa bene all’intestino. Purifica. Dicono.

— Più o meno di un Martini dry?

Karin fece un risolino. — Meno. — Allungò verso di lui la mano che stringeva il bicchiere. — Vuole assaggiare?

Marc fece segno di no con la testa. E sorrise a sua volta. Notò che Karin portava la fede al dito. — Anche suo marito soggiorna qui con lei? — chiese, con fare insinuante. 

— Mi raggiungerà domani mattina.

— Quindi in questo momento lei è single? 

Karin posò il bicchiere sul bordo della vasca. — In questo momento...

Marc la fissò intensamente. — Quindi se stasera le propongo di cenare assieme, non potrà dirmi di no, giusto?

Karin non rispose subito. Emerse dall’acqua mostrando un corpo rotondo, seni pieni, fianchi larghi. Attraverso la stoffa del costume si vedevano i capezzoli irrigiditi. Molto eccitante. 

Andò a indossare il suo accappatoio bianco. Se lo allacciò in vita. Si rivolse al suo corteggiatore. — Alle nove al bar dell’albergo per un drink, tanto per cominciare? — La voce leggermente roca.

Marc annuì, sorridendo di nuovo. Restò a guardarla mentre si allontanava ancheggiando con grazia. 

Pensò che Karin Kessler aveva abboccato.

Pensò che se la sarebbe fatta volentieri.

Pensò che si sentiva eccitato.

E al tempo stesso pieno di rabbia e di malinconia, come sempre.

Non sapeva ancora che strada avrebbe intrapreso. Non sapeva nemmeno bene dove voleva arrivare. Cosa doveva fare con quella donna.

Agire d’istinto. Valutare il nemico. Entrare dentro la guardia dell’avversario. Aggirare l’ostacolo. Il cavallo di Troia insegnava. 

Quella notte sarebbe penetrato nella città nemica, pronto a distruggerla. Tutto questo per un unico scopo. 

Sopravvivere alla paura, che altro...

 

 

5

 

Si trovarono al bar dell’hotel all’orario prefissato.

Karin era molto elegante: abito da sera Rocco Barocco nero, corpetto di pizzo trasparente. 

Marc era in jeans e cintura Carlo Pignatelli, camicia bianca con il collo a rondine e jabot ricamato, il tutto completato da una giacca da smoking portata in modo informale. Aveva infilato la TPH direttamente nella cintola, sul lato destro. Scarso peso, minimo ingombro. 

Sorseggiarono cocktail Martini sulle poltroncine di cuoio davanti alla grande vetrata affacciata sul mare. Iniziarono a darsi del tu. 

Marc disse di lavorare nell’import-export. Karin rivelò di essere laureata in Medicina, ma di non aver mai esercitato. Si era sposata troppo presto con un uomo molto più vecchio di lei. Ma lasciò intendere un mare di cose facendo brillare gli occhi. Della serie: sono così pentita per questo, sai? Ma tu, bambino, potresti aiutarmi a stare meglio. 

Cenarono sulla terrazza panoramica dell’albergo. Ravioli verdi al ragù di scampi, bignè di calamari e soufflé al mirto. Nell’aria si sentiva l’odore del mare.

— Cosa fa tuo marito? — chiese Marc, mentre sorseggiavano il caffè.

Karin esitò un attimo prima di rispondere. — Un tempo lavorava per il governo. Adesso, diciamo che è in pensione.

— Cosa faceva per il governo?

— Lavorava al ministero degli Affari interni.

Marc ebbe la netta sensazione che non volesse parlare del marito.

Imbarazzo? Forse, a livello psicologico, assaporava già il tradimento che stava per compiere. Oppure era solo un argomento che non amava toccare. Di certo non in quel momento.

Karin si alzò, porgendogli la mano. — Perché non andiamo in camera mia a bere un altro drink?

 

 

6

 

Già in ascensore Karin gli si incollò addosso, baciandolo con passione. La sua saliva era leggermente salata, forse per quegli assurdi drink d’acqua di mare che ingeriva per curarsi lo stress da rughe incipienti. 

Con la lingua che spingeva e cercava di entrare il più possibile nella bocca di lui, come per volerlo soffocare. Ansimando, sfregando il bacino contro la sua erezione...

— Stringimi forte. — Le labbra umide di saliva, occhi neri e intensi, l’iride destra che, di nuovo, sembrava più opaca dall’altra...

Marc le infilò la mano sotto il vestito da sera, arrivando a toccarle la fessura del sesso. Karin non indossava mutandine, solo le autoreggenti. Profumava di femmina e d’eau de toilette Pure Poison Dior, le don de la séduction, un mix di aromi inebrianti e irresistibili. 

Continuò a baciarla cingendola con il braccio sinistro, la mano artificiale che premeva sulle natiche piene senza sentirle. Con la mano destra si tolse la TPH dalla cintola e la infilò nella tasca della giacca. Non voleva rischiare che lei potesse vederla, una volta che i vestiti fossero volati da tutte le parti nella passione... 

 

La stanza era identica a quella di Marc. Unica differenza visibile le poltroncine color rosa confetto invece che carta da zucchero. 

Si prepararono un drink veloce: bourbon senza ghiaccio.

Marc la scrutò. — Porti una lente a contatto?

Karin annuì. — Ho un difetto di vista alla pupilla destra, perché, si nota molto?

— No. Sei bellissima.

Marc sentiva una spina d’apprensione, come un avvertimento che non riusciva a decifrare.

Karin posò il bicchiere sul tavolino, accanto a un Macintosh nero portatile, acceso, led verde ben visibile.

— Dobbiamo fare in fretta — disse con un sospiro quasi rassegnato. — Mio marito arriverà all’alba, come tutti i sabati mattina.

— Perché così presto?

— Mio marito è un inguaribile metodico. Arriva a quell’ora perché vuole andare a pescare. Mi raggiunge in camera. Di solito nemmeno mi saluta. Si cambia ed esce per andare via con la sua barca.

— Be’, allora, se dovessimo fare troppo tardi, potrei sempre nascondermi nell’armadio e attendere che lui compia la sua toccata e fuga...

— Quindi tre ore non ti bastano? — Karin si spogliò fissandolo dritto negli occhi.

La guardò sentendosi sempre più eccitato man mano che porzioni di carne nuova si offrivano alla sua contemplazione. Karin era molto bella e aveva ancora il fisico di una ventenne, senza ombra di cellulite: l’acqua di mare faceva miracoli.

Con gesti lenti e misurati, Marc si tolse la giacca. La drappeggiò sulla spalliera della sedia davanti alla scrivania, la pistola facilmente raggiungibile. Si sbarazzò della camicia ricamata facendo sbucare il fisico da atleta, irto di muscoli. Si tolse anche i jeans, restando nudo, nemmeno lui portava gli slip. 

Karin venne avanti, con la faccia scura di libidine. Gli afferrò il pene in erezione. Un gesto rapace, come se volesse strapparglielo via.