Private Rendition
L’uomo era rannicchiato dietro il suo riparo sul tetto della struttura. Udì i motori rombanti dei fuoristrada, alzò la testa. Schiacciò il mozzicone della sigaretta sotto lo stivale. Cautamente, si sporse oltre il parapetto di cemento. Due convogli provenienti da direzioni opposte si fermarono davanti a un edificio abbandonato a qualche chilometro dal villaggio di Rybnitsa, nel Nord della Transnistria. Più a ovest, il confine moldovo.
L’uomo afferrò la videocamera e la puntò sui veicoli attraverso una breccia lasciata da vecchi combattimenti. Sei o sette uomini in abiti civili scesero per scortare il loro capo, alto e corpulento, all’interno del palazzo. Dall’altro convoglio emersero guerriglieri armati, tutti uguali con le folte barbe. Due rimasero a presidio del portone sfondato, il resto del gruppo scomparve oltre l’ingresso.
Un sorriso involontario si stampò sulle labbra dell’uomo. Le informazioni erano state precise. L’incontro segreto di Arkadie Globokar con gli emissari arabi di al Qaeda era una realtà.
Montò il microfono laser direzionale, aspettando di vedere dove avrebbe avuto luogo il colloquio. Una faccia barbuta si sporse da una finestra senza vetri al secondo piano. L’uomo si ritrasse di scatto. Tornò a guardare dopo qualche istante. L’arabo si era appostato per tenere d’occhio la strada sottostante, la canna dell’arma che spuntava oltre il davanzale.
L’uomo si mosse carponi per raggiungere una posizione più favorevole. Si procurò una visuale diretta all’interno della stanza in cui si trovavano i protagonisti dell’incontro, l’uno di fronte all’altro. Si mise l’auricolare, puntò la videocamera, avviò la registrazione. Imbruniva, ma c’era ancora luce sufficiente. L’inquadratura era a fuoco nel display. Frammenti di parole interrotte da scariche gli risuonarono nell’orecchio. Zoomò con il microfono sui due uomini.
— ... sono in grado di soddisfare qualsiasi richiesta — stava spiegando Globokar.
— Conosco la tua fama. Ecco quel che ci serve. — Era Ahmed al Aziz, un luogotenente di al Qaeda. Elencò una serie di armamenti convenzionali e non, come razzi Alazan con testata a isotopi radioattivi, lanciamissili mobili Duga, lanciamine Vasilioc. — Quanto ci vorrà?
— Difficile dirlo. È merce molto delicata.
Al Aziz rise aspramente. — Stai provando ad alzare il prezzo, russo?
— Non sono russo.
Cominciarono a discutere l’aspetto economico. L’arabo giudicò eccessive le richieste, gesticolando spazientito. Globokar oppose ragioni logistiche, vantò la sicurezza dei suoi canali di trasporto e la qualità della merce. Alla fine raggiunsero un accordo e si strinsero la mano, poi uscirono dall’inquadratura.
L’uomo fermò la registrazione. A parte qualche frase troppo spezzettata per riuscire comprensibile, il colloquio era stato ripreso integralmente. Spense le apparecchiature e le ripose nello zaino. Aveva raccolto materiale che valeva oro, al di là delle più incoraggianti previsioni. Prima di ritirarsi recuperò il mozzicone calpestato, poi scivolò via chino sulle gambe. Si infilò in una porta divelta, scese una scala dissestata, uscì sul retro della struttura, si inoltrò a passo rapido nella boscaglia che ricopriva la collinetta, ridiscese sul versante opposto.
Raggiunse la moto nascosta fra gli alberi. Si diresse verso la frontiera.
La Dacia avanzava lentamente sotto il nevischio fitto. Margot de Weers, seduta accanto al guidatore, passò la mano inguantata sul finestrino appannato. La notte era accecata dal biancore della tormenta. Una notte come tante, a Tiraspol.
— Non si vede un cazzo. — Margot si protese verso il parabrezza. — Sei sicuro di sapere la strada?
— Ho la pianta della città scolpita qui dentro — rispose Stark, al volante, toccandosi la fronte con un dito. — Arriveremo in tempo.
Margot tornò a guardare fuori. File di caseggiati anonimi incombevano sulle strade, aride geometrie di un’epoca lontana. Dai lampioni cadevano coni di luce giallastra, rifratta dalla neve incessante. Niente auto in circolazione. Non è salutare, la sera, andarsene in giro per la capitale della Transnistria. E non per ragioni meteorologiche.
Margot abbassò lo sguardo sulla bottiglietta di vodka che teneva nella sinistra. L’aveva presa al volo dal frigobar della stanza. Si accorse solo in quel momento di non avere smesso di stringerla da quando avevano lasciato l’hotel. Si sgranchì le dita aprendo e richiudendo il pugno. Troppo nervosa.
Stappò la bottiglietta e bevve un sorso. L’alcol esplose gradevolmente, una palla di fuoco nelle viscere. Kvint, produzione locale.
— Mettila via — disse Stark. — Mi servi lucida.
— Sto congelando, Al — ribatté lei. — Fra tutti i cessi di macchina, non potevi noleggiarne una col riscaldamento funzionante?
— Mettila via. Non farmelo ripetere.
Margot infilò la bottiglietta nel cassetto del cruscotto. Non era il caso di discutere con un superiore.
— Per Dio! — sbottò Stark.
— Datti una calmata, l’ho messa via...
— Non voltarti. — Lui accennò all’indietro con la testa. — Polizia.
Margot si irrigidì. Non c’era incontro peggiore che potessero fare. Passando il confine al ponte sul Dnestr, poche ore prima, avevano già avuto un assaggio del comportamento delle autorità locali. La coda interminabile di auto e camion fermi al posto di blocco, l’estenuante trafila dei documenti, la lista dei soggetti che era vietato fotografare, la tangente d’obbligo. E dato che provenivano da Chişinău, dall’odiata Moldova, l’atteggiamento dei militari era ai limiti della vessazione.
Un’auto alle loro spalle lampeggiò.
— Prepara i documenti. — Stark accostò e spense il motore. — È solo un normale controllo.
— Da queste parti niente è normale.
Due agenti imbacuccati nella divisa invernale affiancarono la Dacia sui lati. Quello a sinistra picchiò con la torcia sul finestrino. Stark lo abbassò. L’agente si chinò a guardare dentro, illuminando l’abitacolo.
— Americani? — chiese bruscamente in russo.
— Europei — rispose Stark nella stessa lingua, allungandogli passaporti e permessi.
— Una lettera d’invito firmata dal ministro Andreev... — osservò l’agente, subito ammansito.
Una lettera come quella era il requisito minimo per poter soggiornare nel paese più di qualche ora. E il nome dell’onnipotente capo dell’MSB, il Ministero per la Sicurezza dello Stato, apriva qualsiasi porta.
L’agente ripiegò i documenti, senza restituirli. — Siete giornalisti. Da noi i giornalisti non sono graditi.
— Il governo ha fatto un’eccezione — azzardò Stark.
— A quanto pare. — L’agente perlustrò con la torcia il sedile posteriore, poi tornò su di lui. — Ma i trattamenti di favore hanno un prezzo.
Stark annuì. Mise una mano in tasca e gli tese una mazzetta di banconote. Ne teneva diverse, già pronte per le numerose occasioni in cui sarebbero servite. Naturalmente in dollari, non certo in rubli locali, lurida carta straccia che si sbriciolava tra le dita.
L’agente contò i soldi e parve soddisfatto. — Tornate al vostro albergo — concluse, riconsegnando i documenti. — Potreste incontrare qualche collega meno disponibile di noi.
— Grazie del consiglio, agente.
Stark rimise in moto solo quando l’auto li ebbe superati e fu sparita oltre la cortina livida che li avvolgeva.
— E grazie anche al ministro. — Margot tirò un sospiro di sollievo. — Senza di lui, non ci lasciavano andare così.
Procedendo verso nord a velocità ridotta, svoltarono in un viale che costeggiava il parco Kirov. Dagli alberi prigionieri dietro l’inferriata perimetrale si protendevano rami carichi di neve. Nella visuale incerta consentita dal parabrezza spazzato dai tergicristalli, Margot scorse davanti a sé un piazzale dominato da una statua.
— Ci siamo — annunciò Stark, fermandosi poco prima. Scesero e proseguirono a piedi sula neve fresca.
— Che senso ha farci venire fin qui a quest’ora? — rifletté Margot a voce alta, rabbrividendo per il gelo dei sei gradi sotto lo zero. Si tirò il berretto sulle orecchie. — Pensi che la mia richiesta di cambiare stanza li abbia messi in agitazione?
— Tra poco lo sapremo.
Arrivarono sotto il monumento di marmo nero.
— Ancora lui — commentò Margot, vedendolo da vicino.
A figura intera, il braccio teso verso l’orizzonte, Vladimir Il’ič Ul’janov, detto Lenin, persisteva nell’indicare un futuro al popolo russo, o quanto meno a quello più esiguo dell’autoproclamata repubblica. La città era infestata da statue simili, ultime superstiti della preistoria sovietica. E quello spettro marmoreo sorto dalle tenebre esprimeva alla perfezione la natura di uno Stato che non è uno Stato, la cui esistenza è negata dal mondo intero. Una follia anacronistica coperta di neve come dalla polvere della storia.
— Eccoli — disse Stark con un cenno.
Uno Hummer nero era in arrivo dal lato opposto del piazzale. Si fermò sotto l’incombente Lenin. Scesero in tre e si avviarono verso di loro.
— Margot de Weers?
Lei si limitò ad annuire.
— Sono Sasha, l’assistente del signor Globokar. — L’uomo aveva un fisico poderoso, da lottatore. Passo elastico e tratti mongolici, capo scoperto completamente calvo. — Ci siamo parlati al telefono.
— Piacere — disse Margot, senza tendergli la mano.
Gli altri due non aprirono bocca, facce rossastre per la vodka più che per il freddo.
Margot indicò il collega. — Il mio operatore, Allan Stark.
Appena un’occhiata, poi Sasha tornò a lei. — Il signor Globokar si scusa per averla costretta a uscire con questo tempo, ma è necessaria un’ultima verifica. — Estrasse un piccolo scanner di impronte digitali collegato a un palmare. — Ci occorre una conferma definitiva della sua identità, e non abbiamo voluto metterla in imbarazzo presentandoci al suo albergo.
— Che delicatezza — fece Margot. — Ma come pensate di confrontare...
— Dodici anni fa, lei venne fermata in territorio ceceno mentre svolgeva un’inchiesta. Quelli dell’FSB le presero le impronte, prima di rilasciarla. Ottenerle non è stato troppo difficile. Ora sono memorizzate in questo computer.
Margot rimase in silenzio. Tutto vero. L’episodio risaliva al lontano 1996.
— Le dispiace appoggiare qui il dito indice? — Sasha pareva quasi divertito. — Avremo un responso immediato.
Margot premette il dito sul lettore ottico. Sentì il cuore accelerare mentre il sensore rilevava l’impronta. Lo scanner emise un bip.
Sasha lesse il risultato sullo schermo del palmare. — Coincide al cento per cento. — Aveva un aria vagamente delusa. — Molto bene, la contatterò per fissarle un appuntamento con il signor Globokar. Per adesso, buona notte.
Fece dietro-front insieme ai due gorilla. Poco dopo lo Hummer scomparve là da dove era venuto.
— Quel tipo sarà un problema, me lo sento — disse Margot.
— In tal caso, ce ne libereremo. — Stark alzò le spalle.
— Il capo sei tu. Torniamo in albergo?
Margot accese la luce della sua camera rimanendo sulla soglia. Stark occupava quella di fronte.
Era sicura che l’incontro nella piazza fosse stato solo un pretesto per intrufolarsi durante la loro assenza. All’arrivo in hotel si era accorta che le stanze prenotate per loro erano imbottite di apparecchi per intercettazioni. Era riuscita a ottenere un cambio con un capriccio degno di una rockstar. Poi aveva ricevuto una chiamata di Sasha: una “questione urgente” da discutersi subito in un luogo neutro. Ora aveva modo di accertare se il suo espediente era servito.
Si sedette sul letto e aprì il portatile. Avviò per la seconda volta il software integrato di scansione antimicrospia. I sensori collocati nello châssis rilevarono due apparecchiature wireless nascoste. Una microspia nel telefono e una ambientale. Niente da fare, erano stati veloci. La stavano comunque sorvegliando. E lo stesso valeva sicuramente per Stark.
Non c’era da meravigliarsene. L’MSB allungava occhi e orecchie ovunque. Quasi tutti i membri dei servizi di sicurezza erano ex KGB. Nessun cittadino poteva sfuggire alla longa manus del governo, figurarsi uno straniero. Il vincolo di amicizia personale tra il ministro Andreev e Globokar spiegava come fosse stato possibile piazzare impunemente dei microfoni negli alloggi di due reporter occidentali. Ora probabilmente, dentro un furgoncino parcheggiato giù in strada o al caldo di una stanza dell’albergo stesso, solerti funzionari erano pronti a origliare ogni loro conversazione, telefonica e non. In modo da capire se la giornalista free lance Margot de Weers, venuta a Tiraspol in compagnia di un cameraman a intervistare niente meno che lo Zar del traffico d’armi, era veramente chi diceva di essere.
Margot prese dal frigobar una nuova bottiglietta di vodka. La sorseggiò in piedi davanti alla finestra. Fuori nevicava con intensità ancora maggiore. Sotto la coltre biancastra, la tetra capitale appariva ovattata, rassicurante. Eppure, era lì da neanche un giorno e aveva già rischiato la pelle. Se lo scanner di Sasha avesse dato un responso negativo, a quell’ora si sarebbe ritrovata con Stark in qualche scantinato nelle mani degli specialisti di interrogatori: lei stuprata a ripetizione, lui con le palle collegate a una batteria da autocarro.
La Quantum le aveva proposto quell’incarico alla luce del suo passato di giornalista. Margot si era offerta di usare il proprio nome, rinunciando per una volta a un’identità di copertura. In quel modo aveva potuto convincere i dirigenti del network francese per cui aveva lavorato anni a finanziare un reportage su Arkadie Globokar. E aveva potuto superare con successo tutti i controlli che Globokar stesso, per motivi di sicurezza, aveva effettuato fino a quella sera prima di ammetterla al suo cospetto. Un privilegio che mai l’inavvicinabile Zar delle armi aveva concesso a qualsiasi giornalista.
Continuò a rimuginarci sopra mentre si preparava per dormire. Pettinandosi i lunghi capelli neri davanti allo specchio del bagno, pensò che almeno lì avevano avuto la decenza di non piazzare una cimice. L’audio ovattato di un televisore le giungeva attraverso la parete: una monocorde voce femminile sciorinava in russo le notizie della giornata. In russo. In quei diciotto anni, il romeno parlato dalla maggioranza relativa dei cittadini era stato sostanzialmente cancellato a livello ufficiale. Da quando la provincia sulla riva sinistra del Dnestr, temendo l’annessione della Moldova alla Romania, era diventata secessionista e aveva proclamato unilateralmente la propria indipendenza. Così era nata la Pridnestrovskaja Moldovskaja Respublika, in breve Transnistria. Poi il conflitto, un migliaio di morti, la tregua garantita dal Gruppo operativo della XIV Armata. Una forza da Mosca destinata a presunte funzioni di peacekeeping. In realtà strumento del controllo esercitato dalla Federazione russa su uno Stato fantasma situato in posizione strategica, a soli ottanta chilometri dal porto di Odessa.
Margot si infilò a letto. Di fronte a lei, sul muro, campeggiava un ritratto di Bretnev sormontato dalla stella rossa. Curiosa decorazione per un albergo che si voleva moderno e internazionale... sempre che fosse possibile considerare moderno e internazionale un casermone tipico dell’edilizia socialista di cinquant’anni prima. Tende sbiadite, arredamento spartano, luci smorte nei corridoi, tutto come una volta. Un tuffo nell’angoscia di un mondo unicamente in bianco e nero.
Quella missione l’aveva proiettata indietro nel tempo, in un angolo di Unione Sovietica rimasto intatto come un museo a cielo aperto, dove i peggiori tiranni comunisti erano ancora oggetto di pubblica venerazione.
Spense la luce. La consapevolezza di non essere sola, ma in compagnia di chi la monitorava, non le impedì di addormentarsi quasi subito. In attesa della convocazione alla corte dello Zar.
Tre meno cinque del pomeriggio. Aveva smesso di nevicare, il cielo era di un grigio uniforme. Margot sentì il freddo azzannarle la faccia. Stark aveva a tracolla la borsa con la videocamera.
Davanti all’ingresso dell’albergo era parcheggiato un SUV nuovo di zecca. Un uomo con il colbacco si mosse verso di loro. Un altro era al volante. Non erano gli stessi della sera prima.
— Signora de Weers?
Margot annuì. Con distacco professionale, l’uomo le passò lungo il corpo un metal detector manuale. Davanti, dietro, lateralmente. A ogni allarme sonoro del rilevatore, Margot esibiva l’oggetto metallico che l’aveva provocato. Stark fu sottoposto alla stessa procedura. Alla fine, con un cenno di assenso, l’uomo spalancò per loro la portiera posteriore e salì nel posto del passeggero. L’auto partì.
Lungo le vie, le case erano tappezzate di manifesti con il ritratto del presidente, più falce e martello. La sua presenza aleggiava dappertutto, anche grazie alle insegne della sua mega azienda che monopolizzava interi settori commerciali. E in quel mausoleo socialista, i profitti che ne derivavano erano esclusiva del clan al potere. Tutto finto. La gente che Margot vedeva camminare tra ubriachi e cani randagi, gente intenta a vendere frutta, abiti usati, piccoli oggetti su bancarelle improvvisate, trasudava solo due cose: miseria e paura. Tutti a occhi bassi, rassegnati al peggio, in un grigiore morale che ricordava la svanita Berlino Est.
L’autista procedeva a bassa velocità. Lastre di ghiaccio rendevano insidioso il manto stradale martoriato dalle buche. In circolazione c’erano maxitaxi e catorci arrugginiti, qualche carretto trainato da cavalli e fiammanti Porsche Cayenne. Il traffico scarso era sovrastato dal rombo di camion vetusti che sputavano nere nuvolaglie dallo scarico. Svoltarono in una laterale che costeggiava un edificio imponente e si infilarono in un ingresso a volta.
Margot e Stark scesero dal SUV in un cortile interno. Vennero accompagnati per uno scalone fino al secondo piano, percorsero un lungo corridoio con molte porte. Il posto era squallido come un vecchio ospedale. A intervalli regolari erano collocate telecamere corazzate brandeggiabili. Incrociarono uomini della sicurezza, impiegate che andavano e venivano tra gli uffici. Poteva sembrare la sede di una qualunque multinazionale.
In fondo al corridoio, una porta blindata. Il loro accompagnatore si annunciò a una specie di videocitofono. La serratura scattò con un ronzio. Margot e Stark varcarono la soglia. La porta si richiuse alle loro spalle.
Sasha era in piedi accanto a un ampio tavolo di cristallo. Seduto davanti a un paio di monitor, c’era l’uomo per il quale erano venuti. Si alzò educatamente.
— Sono Arkadie Globokar.
E almeno su quello non c’erano dubbi. Era proprio come nell’unica sua foto esistente, un’istantanea rubata in uno scalo merci clandestino del Centroamerica al momento di una consegna. Appena quarant’anni, elegante nel completo blu, un’espressione tutto sommato bonaria sul viso dai lineamenti caucasici, folti baffi neri. In fondo, lo Zar degli arsenali planetari non faceva molta paura visto da vicino. Contrariamente a ciò che si raccontava di lui.
Re indiscusso del traffico internazionale di armi “legale”. Accusato di essere il fornitore occulto dei terroristi di ogni latitudine e di alimentare le infinite guerre africane vendendo armi a tutti i contendenti. Proprietario della Besarabia Stal, importante acciaieria nei pressi di Ttraspol ritenuta una copertura per la produzione di armamenti. Titolare di notevoli entrature ai piani alti del Cremlino.
Così recitava il dossier compilato dalla Quantum Agency.
Margot presentò Stark e si accomodò in una poltrona. — È da qui che governa il suo impero? — chiese, osservando lo studio senza finestre, arredato solo dell’essenziale.
— Per lo più. — Globokar ebbe un blando sorriso. Parlava un buon inglese, con una leggera inflessione locale. — Ma sono spesso in viaggio.
— Il palazzo è suo?
— No, è un ex edificio ministeriale di cui mi è stato, diciamo, concesso l’usufrutto.
— Vogliamo parlare dell’intervista? — si intromise Sasha, occupato a versare vodka in una serie di bicchierini. — Per ora somiglia anche troppo a un interrogatorio.
Quanto lo sguardo del suo principale era opaco e indifferente, il suo era insistente, scrutatore.
Margot alzò le mani in un gesto acquiescente. Globokar dava ogni tanto un’occhiata agli schermi, forse per controllare l’andamento delle sue numerose attività. Sasha distribuì da un vassoio i bicchieri colmi. Per Globokar, invece, appena un dito. Non fuma, non frequenta prostitute, beve con moderazione, secondo il dossier. Un uomo probo, pensò lei.
Dopo che la vodka fu scolata da ambo le parti, Margot venne al dunque. — Le sono grata per aver acconsentito a questa serie di incontri, signor Globokar — esordì. — Come le è stato anticipato nei precedenti contatti con il mio network, intendiamo realizzare un servizio su di lei in esclusiva mondiale. Ci piacerebbe poterla accompagnare, io e il mio collega, durante una sua giornata tipo. In modo da filmare la nostra “chiacchierata” non solo qui nel suo ufficio, ma anche alla sua acciaieria o mentre si dedica alla famiglia, ai suoi hobby...
Cinque figli, padre e marito esemplare, poco incline ai divertimenti.
— La cosa è fattibile. Anche se non potrete riprendere tutto, ovviamente. Per motivi di sicurezza.
— Ovviamente.
— Quando vorrebbe cominciare?
— Anche subito, se è d’accordo.
— Non c’è problema. — Globokar premette il tasto di un interfono. — Tereza, sono occupato per un po’. Non voglio interruzioni, per nessun motivo.
Stark posizionò la videocamera sul treppiede telescopico. In pochi momenti, fu pronto a riprendere il colloquio. Globokar si sistemò il nodo della cravatta, piazzandosi davanti all’obiettivo. Margot fece cenno a Stark. Partiti.
— Signor Globokar, perché ha concesso questa intervista? È la prima in assoluto, se non sbaglio.
— Infatti. Ho deciso di contravvenire a una mia regola per ribattere alle falsità che la stampa di tutto il mondo si ostina a mettere in giro su di me. Ho una reputazione da difendere, e non mi piace che i miei figli sentano dire certe cose del loro padre.
— Sono lusingata che abbia scelto noi per farlo. Tuttavia ammetterà che il suo mestiere non è dei più cristallini. Lei non è forse il maggiore trafficante d’armi al mondo, tanto da essere soprannominato “lo Zar”?
— Non è questo il punto. Io gestisco un commercio legale, autorizzato. Tratto i miei affari esclusivamente con i governi e con i servizi di intelligence. Di tutti i paesi, anche del suo. Perciò non capisco perché gli stessi che comprano le mie armi mi scarichino addosso le accuse più infamanti.
— Molti invece sostengono che, per esempio, la sua acciaieria sia un paravento per nascondere una produzione autonoma di armamenti. Il che si dice di gran parte delle industrie transnistriane. Cosa risponde?
— Quanto alla mia acciaieria, è un ramo completamente distinto delle mie attività. L’ho rilevata quando era sull’orlo del fallimento e l’ho rimessa in sesto. Produce soltanto quello per cui è nata: acciaio. — Con un gesto conclusivo, Globokar accantonò l’argomento. — Per il resto glielo ripeto, sono un intermediario. Compro armi da certi paesi, le rivendo ad altri. Qualcuno mi paga per fornirgli della merce, e io lo faccio meglio della concorrenza: tutto qui. Ho un’organizzazione molto efficiente. Sono solo un buon imprenditore, come tanti in Occidente. Ho imparato da voi.
— Capisco il suo punto di vista, ma le accuse più gravi riguardano proprio certi suoi “clienti”. Mi permetta di ricordarle di cosa stiamo parlando.
Margot riassunse brevemente come l’opinione pubblica internazionale giudicava la situazione in Transnistria. Il governo filorusso in carica, non riconosciuto da nessuna autorità al mondo, era visto come una specie di cosca che si autofinanziava nei modi più turpi. Tanto che al presidente e al suo entourage era stato proibito di mettere piede sul suolo europeo. Nel paese, vero e proprio bazar delle armi, si servivano le più pericolose organizzazioni malavitose e terroristiche del pianeta. Quella striscia di territorio, ad appena un passo dalla Romania, era un crocevia per il riciclaggio di denaro sporco, per il contrabbando, per il traffico di droga, di donne e bambini, perfino di organi. La Transnistria, insomma, poteva vantare una densità criminale forse unica sulla scena mondiale. In questo quadro si diceva che lui, Globokar, si fosse guadagnato un posto di rilievo vendendo, come prestanome per conto del suddetto governo, materiale bellico anche non convenzionale prodotto illegalmente in loco oppure trafugato dagli ex arsenali sovietici. Kalashnikov e granate, ma anche combustibile nucleare e addirittura testate strategiche. Delle quarantaduemila tonnellate di armamenti stoccate nel deposito militare di Kolbasna, a nord, ne rimaneva la metà: le altre in parte erano state riportate in Russia, in parte erano finite nelle mani sbagliate. Quelle della guerriglia cecena, di al Qaeda, dei curdi, degli estremisti serbi, dei separatisti dell’Ossezia meridionale, dell’Abcasia, del Nagorno-Karabah...
Globokar ribatté punto per punto. La sua posizione era sostanzialmente questa: non esisteva una sola prova concreta a sostegno delle accuse, per ciò lui era innocente. Si trattava di una montatura ordita ai suoi danni da un nemico ancora misterioso.
Dal 2006 è in guerra permanente con la Brigata Solncevo, potentissimo clan mafioso. Nel marzo di quell’anno, un ordigno nascosto nel vano bagagli di un Tupolev 154 dell’Aeroflot esplode durante il volo Mosca-San Pietroburgo. Nessun sopravvissuto su 132 tra passeggeri e membri dell’equipaggio. Fra le vittime, uno dei boss di spicco del clan. Nemico giurato di Arkadie Globokar. Tutti sanno che è lui il mandante dell’attentato, ma lo Zar ha protettori troppo in alto, a Mosca. Nessun procedimento viene avviato a suo carico. Anche in quel caso niente prove, ma questo Margot preferì riservarsi di citarlo in un colloquio successivo.
— Adesso le faccio io una domanda — disse Globokar alla fine, sporgendosi in avanti. — Lei pensa davvero che, se fossi compromesso con la gente che mi elencava poco fa, i servizi di intelligence occidentali o russi mi lascerebbero vivere tranquillamente qui a Tiraspol? Ha mai sentito parlare della guerra globale al terrorismo, signora de Weers? Se le cose stessero anche solo parzialmente come dice, sarei già morto da un pezzo.
— Magari uno come lei fa talmente comodo a tutti — obiettò Margot — che si preferisce chiudere un occhio.
Era del tutto consapevole di quanto i governi fossero recalcitranti a regolamentare il traffico d’armi. Solo di fronte a un’evidenza schiacciante sarebbero stati costretti a revocare la tacita “immunità diplomatica” a un ambasciatore così prezioso del libero mercato.
— Non raccoglierò la sua provocazione. — Globokar sorrise, un po’ tirato. — Ma voglio dirle una cosa, signora de Weers, e desidero essere preso molto sul serio. — Guardò dritto nell’obiettivo. — Ho sempre onorato i miei impegni con lealtà e riservatezza, e continuerò a farlo. In ogni caso esiste una documentazione completa dei miei affari passati e presenti, e intendo proprio tutti, conservata in un luogo sicuro. Se dovesse mai capitarmi qualcosa verrà resa pubblica, e allora si potrà valutare quanto c’è di vero nelle leggende che mi riguardano. Lo giuro sui miei figli.
Margot sbatté le palpebre, lasciando passare un secondo di silenzio in più del necessario. Lo Zar aveva scoperto le sue carte.
— Per oggi basta, ho un appuntamento tra mezz’ora. — Globokar tornò ad appoggiarsi allo schienale. — Sasha la contatterà domani per fissare il prossimo incontro. I ragazzi vi riaccompagneranno in albergo.
Margot, perplessa, lo ringraziò a mezza voce.
Sasha scortò lei e Stark fuori dallo studio.
— «Se dovesse mai capitarmi qualcosa...» Cristo, ma l’hai sentito?
Margot alzò la voce per superare il ritmo ossessivo della musica che riempiva il Prospekt, il disco restaurant dove stavano finendo di cenare. L’alberata ulitsa 25 Oktober era la principale via commerciale, da dove locali alla moda e boutique di lusso si erano lanciati all’assalto dell’ultimo Soviet bolscevico. Il posto era frequentato per lo più da membri della rampante borghesia imprenditoriale e finanziaria che anche lì, in ritardo rispetto al resto delle Russie, cominciava a pretendere il suo spazio vitale. Dal loro tavolo al piano superiore, Margot e Stark sovrastavano una folla omogenea di nuovi ricchi che ballavano nella sala di sotto, immersi nelle luci stroboscopiche. Al tavolo vicino si susseguivano i brindisi sguaiati di un gruppo di trentenni in giacca e cravatta.
— L’ho sentito. — Stark masticava svogliatamente i suoi blinis.
— Adesso si spiega quel tono così pacato, tutta quella disponibilità — continuò Margot. — La campagna di stampa in atto contro di lui lo ha allarmato. E ora si sta servendo di noi per mandare un avvertimento ai suoi clienti, attuali o ex. Nel caso che qualcuno commettesse l’errore di sottovalutarlo e accarezzasse l’idea di liberarsene.
Stark buttò giù il suo terzo bicchierino di palincă, un’acquavite ad altissima gradazione. Si asciugò le labbra con il dorso della mano. — Ascoltami bene — disse poi in tono risoluto, gli occhi grigi fissi in quelli di Margot. — Che cos’ha in mente lui non ci riguarda. Noi non siamo quelli che crede, se l’hai dimenticato. Siamo qui per impacchettarlo e portarcelo via, nient’altro. Aspettiamo solo il momento buono. E fammi un grandissimo favore, piantala di pensare come una giornalista. Non lo sei più da un pezzo.
Margot scosse la testa e sorseggiò il suo caffè turco.
Con Allan Stark non aveva legato fin dall’inizio. Da quando la QA li aveva convocati in Ucraina tre mesi prima, durante il periodo trascorso gomito a gomito per l’addestramento e la preparazione della missione, non era riuscita a farsi un’idea chiara del suo diretto superiore. Stark aveva mantenuto le distanze, quasi non gradisse che il titolare dell’operazione avesse assegnato a una donna il ruolo da protagonista. E ora, a Tiraspol, senza squadre d’appoggio né supporto logistico sul campo, Margot de Weers affidava la sua vita a qualcuno con cui non era in sintonia. Non lo conosceva abbastanza per sapere come si sarebbe comportato in situazioni critiche. Di sicuro le pareva troppo giovane. Qualsiasi dato personale sul suo conto le era precluso, ma doveva avere poco più di trent’anni e una non grandissima esperienza alle spalle. Belloccio, prestante, l’aria inespressiva, mascherava con l’arroganza una certa superficialità di analisi. Ma forse era solo un’impressione che poteva anche rivelarsi sbagliata. Secondo le procedure tipiche della Quantum, all’oscuro com’era delle finalità più generali della missione, Margot doveva accontentarsi della scarsa quota di informazioni che le spettava, proporzionale alla sua posizione gerarchica. Per il resto, era nelle mani di Stark.
— Al banco del bar, dietro di te, c’è una bionda che mi sta puntando — disse lui svagato, come se fino a poco prima avessero parlato del più e del meno.
— Sentiti libero di approfittarne — replicò Margot, senza alzare gli occhi dalla tazza fumante. — Siamo colleghi, non marito e moglie.
— Allora non ti secca se vado a farci due chiacchiere.
— Come ho già detto, il capo sei tu.
— Ci si vede tra un po’.
La piantò in asso. Margot lo intravide poco dopo, giù nella pista, strusciarsi a una bella ragazza, mani sulle tette, in mezzo alla calca che si agitava al ritmo di un pezzo techno-pop. Davvero deprimente. Povero stronzo. Le luci intermittenti non aiutavano, ma le parve che lei reggesse in mano un bicchiere dal quale bevevano tutti e due.
Fu tentata di rientrare in albergo. Sperava solo che non fosse così stupido da portarsela in camera. Che se la scopasse pure in piedi nei bagni del Prospekt, e finita lì.
Bevve l’ultimo sorso di caffè. Tornando a guardare di sotto, notò che a Stark si era avvicinata una seconda ragazza, bruna. La bionda gliela stava presentando. Poi, ridendo, cominciarono a trascinarlo con sé attraverso la folla danzante. Stark faceva una certa resistenza, ma il richiamo di quelle chiappe sode doveva essere irresistibile. Margot si alzò per andarsene.
In quel momento, Stark levò lo sguardo verso il suo tavolo. Questione di un attimo. Margot percepì che qualcosa non andava. Stark era esitante. Aveva bevuto. La situazione gli stava sfuggendo di mano.
Scorse ancora i tre diretti ai bagni, come previsto. Rifletté. La presenza sua e di Stark in città era nota soltanto a Globokar e alle autorità. Lo Zar aveva tutto l’interesse a che l’intervista andasse in porto. E quel che era bene per lui lo era anche per le autorità. Dunque erano in una botte di ferro. Non poteva succedere niente, inutile cedere alla paranoia. Che Stark se la spassasse pure...
No. Con quello sguardo era come se avesse cercato il suo aiuto. Doveva controllare.
Margot scese la scala che conduceva alla pista da ballo. Fendette la calca spintonando senza complimenti. Riemerse dall’altro lato della sala, affrettando il passo. Spalancò con una manata la porta basculante dei bagni. A destra la toilette delle donne, a sinistra quella degli uomini. Davanti, in fondo a un breve corridoio buio, un’altra porta con un filo di luce che filtrava sotto il battente. Infilò la testa nella toilette maschile. Due uomini pisciavano negli orinatoi, nessuno nei gabinetti. Fece lo stesso in quella femminile. Una tizia completamente ubriaca cercava di rifarsi il trucco davanti allo specchio. Un gabinetto era occupato, ma si vedeva un solo paio di gambe. Di Stark e delle due squinzie nessuna traccia.
Si diresse alla porta in fondo. C’era scritto RISERVATO AL PERSONALE. La spalancò rudemente. Un buttafuori si girò di scatto. Alle sue spalle, la ragazza bionda stava lasciando la stanza da un’uscita secondaria. Si girò e la vide.
— Ehi, tu non puoi entrare qui! — Il buttafuori allungò un braccio per fermarla.
Margot gli afferrò il polso, fece leva sull’avambraccio con la sinistra, impresse una violenta torsione. Il buttafuori rovinò a terra come un sacco vuoto, ululando di dolore. Lei si lanciò in avanti.
La ragazza rinunciò a richiudere la porta e si mise in mezzo. — Aspetta, il tuo amico si è sentito male! — disse in fretta, in un inglese approssimativo.
— Cazzate! — ribatté Margot minacciosa, cercando di passare. L’altra si frapponeva con tutto il corpo. — Dimmi dov’è!
— Ha sniffato della roba e si è sentito male. Lo stiamo portando da un dottore.
Margot scaraventò indietro la bionda. Sbirciò fuori. La porta dava sull’esterno, in un vicolo. Sotto la neve che aveva ripreso a scendere, due uomini stavano caricando Stark esanime a bordo di un furgone. La ragazza bruna era al volante.
Margot assestò alla bionda una ginocchiata nell’inguine. — Togliti di mezzo, puttana!
Quella si piegò in due boccheggiando. Margot la prese per i capelli e le sferrò una seconda ginocchiata che dovette romperle il setto nasale. Sangue gocciolò sul pavimento.
Oltrepassò la ragazza e uscì nel vicolo. — Fermi, voi! — urlò ai due gorilla.
Fece per correre verso il furgone. Movimento, alla sua destra. Si spostò in tempo per non essere abbrancata da un terzo uomo. Non abbastanza per evitare uno strattone. Cadde a terra.
L’uomo riprovò a farsi sotto. Lei gli sforbiciò un calcio all’altezza delle caviglie. L’uomo andò giù, falciato come una spiga di grano. Margot si rialzò, ma anche lui. Tarchiato, reso ancor più grosso dalla giubba imbottita, la barba completamente intrisa di neve: un Babbo Natale straccione. Balzò nuovamente in avanti. Lei evitò l’assalto. Lo colpì alla nuca con il taglio della mano. Il Babbo Natale straccione andò faccia in giù sul cemento incrostato di ghiaccio.
Margot si girò verso il furgone. Gli altri due stavano richiudendo il portellone laterale. Aprì la bocca per gridare. La voce le morì in gola: contatto gelido di una lama sotto il mento. Qualcuno alle sue spalle l’afferrò per i capelli, tirandole indietro la testa. C’era evidentemente una sesta persona, nel commando che li aveva presi di mira.
Margot si sentì sospingere contro il muro di mattoni. Che fosse la fine? Il coltello stava per disegnarle un sorriso tutto nuovo da un orecchio all’altro? O le avrebbe aperto un buco nella pancia, condannandola a morire dissanguata?
Una voce maschile le parlò vicinissima. Sentì sul collo il calore del fiato. — Tu oggi hai visto lo Zar.
— Cosa volete da noi? — sibilò lei. — Siamo giornalisti, ma non cerchiamo guai. Siamo qui solo per un’intervista...
— Quando lo incontrerai di nuovo? — tagliò corto l’uomo.
— Forse domani.
— Bene, allora dovrai fare qualcosa per me. Obbedisci, e tu e il tuo amico tornerete a casa interi. Racconta che si è ubriacato, o drogato, e che non sai dove sia. Hanno potuto vederlo tutti andarsene con due troie. Se fai qualche scherzo, prima uccido lui, poi vengo a prendere te. — Un’altra pressione del coltello sulla gola. — Hai capito?
Margot annuì.
— Domattina avrai mie notizie.
Con un secco ordine, l’uomo bloccò il Babbo Natale straccione. Si era rimesso faticosamente in piedi, pronto a saldare il conto con Margot. La lama si allontanò dal suo collo. Uno spintone la scaraventò contro il muro. Margot batté la testa e si accasciò su se stessa, sentì il furgone mettersi in moto.
Per qualche secondo ebbe il buio nella mente. Riaprì gli occhi e si guardò intorno: il furgone era scomparso. Nel vicolo scuro c’era soltanto la neve che si accumulava. Ne raccolse una manciata e si tamponò la fronte dolorante.
Si fermò al bar dell’albergo. Aveva bisogno di qualcosa di forte. Si trovava sola e senza ordini precisi, era Stark ad averli. Non le restava che contattare l’Agenzia. Ora toccava a lei.
Prese il telefono satellitare. Spedì un messaggio cifrato a 256 bit sul server sicuro della Quantum.
STARK SEQUESTRATO DA IGNOTI.
SAPEVANO DELL’INCONTRO CON G.
VOGLIONO CHE FACCIA QUALCOSA PER LORO.
ALTRIMENTI UCCIDERANNO L’OSTAGGIO.
CHIEDO URGENTEMENTE ISTRUZIONI.
Salì in camera. In attesa di una risposta, si preparò un bagno caldo. Lontana da orecchi elettronici, con il rumore dell’acqua che scorreva, avrebbe potuto parlare senza timore di essere intercettata.
La QA non avrebbe mai annullato la missione. Un’organizzazione che aveva fatto delle attività di intelligence un business al servizio del cliente, svincolandole da qualunque motivazione ideologica che non fosse quella del massimo profitto, non avrebbe rinunciato a incassare la sua astronomica parcella. Lei stessa, ormai parte integrante dell’ingranaggio, non si sarebbe tirata indietro a quel punto. Togliere di mezzo Globokar, al quale era difficile credere quando si dichiarava innocente come un bimbo, le appariva giusto e desiderabile. E poi, compiere un atto di pirateria internazionale in un paese di banditi era un reato o semplicemente rispetto degli usi locali? Per conto di chi lo avrebbe compiuto, questo era un altro paio di maniche. L’Agenzia manteneva come sempre assoluto riserbo sull’identità del committente. Sapere chi avesse commissionato un certo incarico non era prerogativa degli agenti operativi, ma solo del capo operazione. Cioè di colui che stava probabilmente per contattarla.
Il display del telefono satellitare cominciò a lampeggiare. Margot digitò la sua password per poter ricevere la chiamata.
— Margot — rispose piano.
— Il mio nome in codice è Ariel — disse una sottile voce d’uomo. — Sono il responsabile dell’operazione. Dammi i particolari.
Margot riferì com’erano andate le cose.
— La negligenza di Stark è di una tale gravità — disse Ariel dopo aver ascoltato in silenzio — che non ci lasceremo condizionare dalla situazione di pericolo in cui si trova. In altre parole, lo abbandoniamo. Da questo momento, assumi tu il comando della missione.
— Chiedo conferma. — Margot rimase interdetta. — Intende davvero abbandonarlo? Non vogliamo aspettare che i rapitori si facciano vivi, scoprire chi sono, che intenzioni hanno? Forse possiamo fare qualcosa per salvarlo.
— Stark è sacrificabile. Si è dimostrato non all’altezza e ne pagherà le conseguenze. Non possiamo pregiudicare l’esito dell’intera operazione a causa sua. Valuteremo le eventuali richieste dei sequestratori solo nella misura in cui potrebbero interferire con i nostri piani. A parte questo, si procede come stabilito.
— Signore, si tratta pur sempre di un collega...
— La decisione è irrevocabile. Adesso l’importante è che tu abbia le informazioni necessarie. Eccole.
L’obiettivo era la cattura di Arkadie Globokar. Anche se si fosse presentata l’opportunità di eliminarlo, l’unico vincolo imposto dal committente prevedeva che venisse consegnato vivo. L’invio di agenti in sostituzione di Stark era un’ipotesi impraticabile. A lei quindi decidere dove e quando passare all’azione. Riguardo al come, a un suo segnale un elicottero sarebbe decollato dal territorio ucraino con una squadra Argo, braccio armato della QA, per recuperare lei e il prigioniero in un punto di estrazione da concordare. La frontiera orientale era un colabrodo, attraversarla non sarebbe stato un problema. Ma prima se la sarebbe dovuta cavare da sola. Una volta fuori dal paese, avrebbe potuto ritenere completato il suo incarico.
— Ora sai quello che sapeva lui — concluse Ariel. — Se e quando i rapitori si metteranno in contatto con te, richiama.
L’acqua calda fece defluire a poco a poco la tensione dal suo corpo. Non poté non pensare a Stark. Sarebbe stata capace di abbandonarlo freddamente al suo destino?
Il mattino seguente Margot era consapevole di dover recitare una parte. A beneficio degli ascoltatori che avevano trasformato la sua stanza in un palcoscenico. Usò l’apparecchio intercettato per telefonare alla sua referente del network, a Parigi. Mostrandosi imbarazzata, raccontò che Stark si era allontanato ubriaco con due squillo incontrate in un locale e non si era più fatto vedere. La donna le domandò se questo poteva pregiudicare la realizzazione del servizio. Lei garantì che avrebbe proseguito anche da sola. Sapeva usare una videocamera, dopo tutto. Avrebbe spedito il girato della prima sessione.
Si augurò che quell’espediente rafforzasse la versione ritoccata dei fatti che avrebbe rifilato a Globokar.
Mezz’ora dopo faceva colazione nella saletta a pianterreno. Ricevette una chiamata. Era Sasha.
— Che fine ha fatto il suo operatore? — le chiese, sbrigativo come sempre. — Perché non è rientrato con lei?
— Come lo sa? — fece Margot, simulando stupore.
— Lo so e basta. Allora?
Margot gli fornì il resoconto addomesticato della scomparsa di Stark.
— Speravo di trovarlo nella sua camera, stamattina, ma non è tornato — concluse. — Non le nascondo di essere un po’ preoccupata. Non vorrei che gli fosse capitato qualcosa, nelle condizioni in cui era.
— Un comportamento un po’ strano, per un professionista — commentò Sasha. Era dubbioso, ma non più del solito. Effetto della telefonata a Parigi? Forse. — A questo punto dobbiamo sospendere gli incontri, in attesa di saperne di più.
— Non lo ritengo necessario. Sono in grado di continuare l’intervista anche da sola. Immagino che il signor Globokar non abbia tempo da perdere.
— Sarà lui a decidere. Intanto sentirò in giro. Forse qualcuno ha visto il suo collega lasciare il locale in compagnia. Se ha novità, mi contatti al numero che le è apparso.
Fine della conversazione. Margot si versò un altro bicchiere di succo d’arancia. Difficile dire se fosse stata convincente, ma per il momento non poteva fare di più. Contava sul fatto che lo Zar avrebbe accettato di proseguire lo stesso.
Attraversò la hall per tornare in camera.
— Signora de Weers? — Era l’addetta alla reception. — C’è qui una busta per lei.
Margot, subito all’erta, si avvicinò al banco. — Chi l’ha consegnata?
— Non saprei dirglielo. — La ragazza le porse una busta imbottita con il suo nome stampato su un’etichetta adesiva. — L’ho trovata poco fa nella sua casella. Quando ho preso servizio, alle sette e mezzo, sono sicura che non c’era. L’avrà ritirata un collega che poi si è scordato di avvertirmi.
— Capisco, grazie.
Margot aprì la busta mentre l’ascensore saliva al piano. Dentro c’erano una sottile custodia di materiale plastico e una flash card, una scheda di memoria. La custodia conteneva una sorta di comando a distanza. La richiuse di scatto. Il suo cuore accelerò i battiti. Sotto gli occhi aveva probabilmente la risposta a numerosi interrogativi.
In camera, Margot accese il notebook e inserì la flash card nello slot. Trovò un file video contrassegnato “1” e una cartella “2”. Collegò gli auricolari, esitò un istante, poi premette il tasto per visualizzare il filmato.
Primo piano di un uomo con il volto coperto da un passamontagna nero.
«Margot de Weers, questo messaggio è per te.» Credette di riconoscere la voce del suo aggressore della sera precedente. «Il tuo collega è qui con noi.»
Panoramica su un uomo bendato, legato nudo a una sedia, sotto un fascio di luce. Margot riconobbe Stark. Alle sue spalle un altro tizio mascherato, in abiti civili. Zoom sul prigioniero, non sembrava mostrare segni di violenze.
«Sta bene, come vedi» riprese la voce, fuori campo. «Ma voglio dimostrarti che starà peggio, se non collabori.»
L’uomo alle spalle di Stark si spostò di lato. Con un tonfa, micidiale sfollagente asiatico, gli inflisse un colpo durissimo appena sotto il ginocchio, all’altezza del nervo peroneo. Un urlo animalesco fuoriuscì dalla gola di Stark, che si divincolava sulla sedia. Margot respirò a fondo.
«Hai visto abbastanza.» L’inquadratura tornò al primo piano iniziale. «Ecco quello che dovrai fare per salvare la pelle a lui. E a te stessa.»
Bastardo figlio di puttana.
«Quel piccolo oggetto che avrai trovato nella custodia è una microcarica termobarica, l’involucro è di una resina non rilevabile dai metal detector. Al prossimo incontro con Arkadie Globokar lo porterai con te. Gli chiederai di fare una sosta per andare al cesso, inventa quello che ti pare. L’importante è che lasci il congegno nella stanza dov’è lui. Appena ti sarai allontanata, sbloccherai e premerai il pulsante dell’attivatore. È nella custodia. A quel punto, starà a te non farti prendere dagli uomini dello Zar.»
Era ancora peggio di quanto potesse aspettarsi.
«Se riesci a cavartela, vai alla pensione Sovetskaja. C’è una camera a nome di Katja Černova: sei tu. Non ti chiederanno documenti, non faranno domande. Il gestore ci avvertirà immediatamente. Verremo a prelevarti e ti metteremo su un aereo insieme al tuo collega. Se invece Globokar esce vivo dall’incontro, il tuo amichetto qui ha chiuso. Poi toccherà a te. E per te sarà peggio, molto peggio.»
La fronte velata di sudore, Margot socchiuse delicatamente la custodia. Osservò la luccicante bomba miniaturizzata. Un ordigno termobarico... Massima potenza incendiaria per un raggio circoscritto. Utilizzata in uno spazio chiuso come lo studio di Globokar, avrebbe incenerito ogni cosa, lui compreso.
«Forse stai pensando che sei una giornalista, non un’assassina» stava dicendo la voce dal video. «Ma sei l’unica persona che può avvicinarsi a Globokar dall’esterno. Per questo ti abbiamo scelto, quando abbiamo saputo del tuo arrivo. Adesso vedrai qualcosa che ti alleggerirà la coscienza. Guarda bene.»
Stacco. Una strada ripresa dall’alto. Automezzi in arrivo davanti a un edificio abbandonato. Globokar e terroristi arabi. Trattative per una vendita di armamenti. La voce traduceva sommariamente ciò che veniva detto. Con materiale simile lo Zar sarebbe stato inchiodato davanti al mondo intero. Se Margot voleva una prova concreta che le aveva mentito spudoratamente, eccola lì.
Stacco, di nuovo il primo piano. «Interessante, vero?» commentò l’uomo. «L’ho girato personalmente in un villaggio nei pressi di Rybnitsa, al Nord, circa tre settimane fa. Doveva servire a sputtanare Globokar, ma poi sei arrivata tu. Grazie al tuo aiuto ci libereremo di lui molto più in fretta. In cambio, nella cartella troverai il filmato integrale, insieme ad altri documenti che dimostrano i suoi legami inconfessabili e il coinvolgimento del governo. Divulga tutto, mostra all’opinione pubblica occidentale che paese di criminali è la Transnistria. E magari diventerai famosa. Ma prima devi fare come ti ho detto. Hai visto a chi vende le sue armi quel traditore. Non merita di vivere, ammazzarlo è un dovere. È destino che sia tuo dovere. Buona caccia.»
Fermo immagine sul volto incappucciato, gli occhi che brillavano nelle fessure del passamontagna. Fine del filmato. Margot rimase per qualche secondo a fissare lo schermo, l’espressione stravolta di Stark ancora stampata nella mente. Si riscosse. Aprì la cartella indicata. Oltre al video integrale dell’incontro segreto di Globokar, c’era una quantità di documenti testuali e fotografici.
Solo un servizio di intelligence avrebbe potuto mettere assieme un dossier del genere. Ma quale intelligence? Chi aveva interesse a farlo fuori? Forse qualcuno che voleva impedirgli di continuare ad armare al Qaeda e soci. Qualcuno che non era in affari con lui e non era disposto a chiudere un occhio. Al Cremlino di certo non avrebbero perso tempo con una messinscena come quella. Per Mosca eliminare Globokar sarebbe stato un gioco da ragazzi. Gli americani? A loro sarebbe bastata una soffiata sulla presenza dello Zar nel suo palazzo, e un missile guidato dai satelliti lo avrebbe cancellato dalla faccia della terra. No, doveva trattarsi di qualcuno molto più vicino. Qualcuno che voleva colpire quel “paese di criminali” che era la Transnistria...
Margot rimase immobile, osservando il micidiale ordigno sul tavolino davanti a sé. La mente elaborava informazioni, dettagli, frammenti. Che cos’aveva pensato poco prima? Globokar sarebbe rimasto incenerito, con quel tipo di esplosivo.
Solamente cenere.
E nessun cadavere.
Tempo scaduto. Per chiamare l’Agenzia. E anche per qualsiasi altra cosa.
Compose sul satellitare il numero di Sasha.
Per la seconda volta, Margot percorse il corridoio dell’ex palazzo ministeriale. Sasha la seguiva, reso sospettoso dalla sua richiesta di riprendere l’intervista il più presto possibile. Prima di caricarla in macchina aveva preteso non solo di controllarla con il metal detector, ma anche di perquisirla manualmente. Il microordigno, infilato nel reggiseno, gli era sfuggito.
Entrarono nello studio blindato.
Globokar continuò a digitare sulla tastiera di un portatile. Non si alzò per salutarla, ma le fece cenno di accomodarsi.
Sul pavimento accanto alla poltrona, Margot posò la borsa con la videocamera, recuperata fra la roba di Stark. Non l’aprì. Non estrasse la videocamera. Si sedette e basta.
— Non l’accende? — Globokar notò il suo gesto.
— Non ci servirà.
— C’è qualcosa che non va? — fece Globokar, stringendo leggermente le palpebre.
— Sì, qualcosa c’è.
Globokar lanciò una brevissima occhiata a Sasha, posizionato alle spalle di Margot. Nel suo sguardo era balenato un messaggio del tipo: “Tienti pronto, non si sa mai”. Chiuse il computer e si appoggiò allo schienale. — Allora, di che si tratta?
— Del mio collega. Non si è ubriacato, ieri sera, e non è sparito rincorrendo qualche puttana. Lo hanno sequestrato.
Lo Zar ebbe un moto di sorpresa. Altra occhiata a Sasha, più prolungata. — Chi?
Margot scosse la testa. — Non ne ho idea.
— Come l’ha saputo? Si sono fatti vivi loro?
— Stamattina, in albergo, mi è stata consegnata una busta. Conteneva alcune cose, tra cui questa. — Trasse da una tasca la flash card e la posò sul tavolo. — Lì dentro c’è un filmato in cui il capo dei rapitori mi spiega tutta la faccenda. E si vede Stark, il mio collega, mentre viene picchiato.
Globokar prese la scheda di memoria e la rigirò tra le dita.
— Cosa le hanno chiesto di fare, per salvarlo? — Sasha, in piedi dietro di lei, andò dritto al nocciolo della questione.
— C’è anche un bel po’ di materiale sul suo conto, signor Globokar — continuò Margot, ignorandolo. — Per esempio, una bella scenetta in cui è stato beccato a parlare d’affari in un villaggio del Nord... con un luogotenente di al Qaeda. Questo e molto altro.
Globokar la osservava in silenzio. Una facciata di calma apparente. A che gioco stava giocando, la donna che gli sedeva davanti? Doveva crederle o no?
— Che cosa le hanno chiesto di fare? — ripeté Sasha, implacabile.
— Posso? — fece Margot, infilando una mano nella scollatura del maglione.
Percepiva la presenza di Sasha, reattivo, pronto a neutralizzarla in caso di pericolo. A un cenno affermativo di Globokar, estrasse l’ordigno dal suo nascondiglio e posò anche quello sul tavolo. — Ecco qua.
Lo Zar stavolta se la fece sotto sul serio. Spalancò gli occhi, fissando l’oggetto dal led rosso intermittente.
Sasha si avvicinò per esaminarlo. Anche il suo sgomento era palpabile. — Una carica termobarica... — mormorò.
Globokar lo guardava come se non capisse. — Sasha, come cazzo ha fatto ad arrivare fin qui con quella roba addosso?
L’altro scosse la testa. Appariva in difficoltà. — C’è un comando a distanza per innescarla? — chiese rivolto a lei.
— Eccolo. — Margot prelevò l’attivatore dalla borsa della videocamera. — Dovevo assentarmi con un pretesto durante il nostro colloquio e... — Finse di premere il pulsante. — Ridurvi in cenere.
Globokar deglutì. Aveva perso tutto il suo aplomb.
— Bene, lo appoggi lì e ci racconti tutto. — Sasha cercò di riprendere il controllo della situazione.
— Possiamo fare di meglio — suggerì Margot. — Guardare il filmato.
Così fecero. Alla fine, lo Zar aveva la fronte imperlata di sudore. — C’è il SIS dietro a questa storia, nessuno me lo toglie dalla testa — commentò quasi tra sé.
— I servizi segreti moldovi?
Anche Margot aveva pensato a quella possibilità. Serviciul de Informaţii şi Securitate, bestia nera della cricca al potere in Transnistria.
Globokar annuì, preoccupato. — Da quando è finita la guerra civile, fanno di tutto per destabilizzare il nostro paese. Questo sarebbe soltanto l’ultimo dei loro complotti.
— Lasciamo da parte le supposizioni, adesso — tagliò corto Sasha. — Perché ha deciso di rivelarci tutto, signora de Weers?
— Non me la sono sentita di cedere a un simile ricatto. Quel bastardo del video ha detto un’unica cosa sensata: non sono un’assassina. Inoltre so benissimo che non rispetterebbero mai gli accordi. In nessun caso ci lascerebbero andare, Stark e me.
— Più che probabile — convenne Sasha. — In questo modo però salverà se stessa, certamente non il suo collega. È davvero così cinica, o ha qualcosa in mente?
Margot rifletté un attimo, poi puntò il dito verso Globokar. — Senti, Arkadie, mettiamo le carte in tavola. Tu sei il figlio di puttana che tutti hanno sempre dipinto. Lì ci sono le prove che lo dimostrano. Hai venduto armi ed esplosivi ai peggiori tagliagole del pianeta, i quali sicuramente se ne sono serviti anche per attentati contro la popolazione civile. Fare fuori uno come te sarebbe un gran regalo per il mondo. Ma i bastardi che vogliono fotterti non sono migliori di te, e in più hanno il mio collega. Perciò sono costretta a stare dalla tua parte. Ti propongo un’alleanza temporanea. Per fottere loro.
— Fotterli in che termini? — Lo Zar drizzò le antenne. Ecco un linguaggio che capiva perfettamente.
— Molto semplici. Tu aiuti me a liberare Stark, io aiuto te ad arrivare fino a loro. Per cominciare, ti rifugerai in un posto sicuro e io farò quel che mi è stato chiesto. Dopo di che andrò in quella pensione ad aspettare che vengano a prendermi. Sono costretti a venire: non possono lasciarmi in circolazione.
Globokar la guardò come se fosse pazza. — Stai parlando di far esplodere la bomba veramente?
— Esatto. Devi essere dato per morto. È l’unica maniera per creare un contatto diretto che possa condurci al loro covo. Neutralizzata la cellula operativa, potrete tentare di risalire a chi tiene le fila dell’organizzazione. Ricordati che se non li fermiamo sei spacciato comunque. Il materiale che hanno su di te metterà in moto la giustizia internazionale. O peggio.
Globokar si rivolse al suo numero due. — Che ne pensi?
Sasha guardò Margot. — Forse è davvero l’unica possibilità, ma aggiungerei una clausola all’accordo. — La diffidenza nei suoi confronti sembrava accantonata. Per ora. — Alla fine di tutto, se le cose andranno per il verso giusto, ti dimenticherai di quella roba. — Indicò il computer. — Il filmato non esiste, e quell’incontro non è mai avvenuto.
— Accetto. Mi preme di più la vita di Stark. — Margot si alzò. — Non c’è molto tempo, Arkadie. Decidi.
— Potrebbe anche funzionare. — Globokar aveva cominciato ad annuire meccanicamente. — Procediamo.
Pensione Sovetskaja: una fetta verticale di un malandato stabile a tre piani. Un rugginoso cartello in cirillico attaccato alla porta d’ingresso era l’unico segno della sua esistenza. Sei stanze in tutto, per lo meno quelle che davano sulla strada.
Margot pagò il tassista e scese nel vento carico di neve.
Esitò a entrare. Varcata la soglia, non si tornava indietro. Sasha e i suoi uomini erano già nei paraggi, pronti a intervenire. Per evitare fughe di notizie, erano stati messi al corrente solo i più fidati: i due che erano con lui e i guardaspalle che avevano portato via lo Zar da un’uscita secondaria per scortarlo alla sua acciaieria fuori città. Lì sarebbe rimasto in attesa degli sviluppi. Era domenica e lo stabilimento era chiuso. Nessun altro sapeva. Margot era uscita dallo studio vuoto. Aveva azionato l’attivatore. L’esplosione aveva scatenato panico autentico tra il personale e gli addetti alla sicurezza. Le telecamere di sorveglianza erano state disattivate, i nastri sostituiti, in modo che non restasse traccia della sua presenza. Si era dileguata nel caos fiammeggiante.
E adesso toccava ancora a lei.
Tirò un respiro profondo ed entrò nella pensione Sovetskaja.
Seduto dietro il banco, un uomo sui trent’anni stava giocando con una console portatile. In quell’atmosfera che puzzava di stantio, gli squittii elettronici del videogame erano suoni grotteschi. Alzò gli occhi su di lei. — Che vuoi?
— C’è una camera prenotata a mio nome. — Margot si avvicinò al banco. — Sono Katja Černova.
L’uomo smise di muovere freneticamente i pollici sui tasti e la squadrò attentamente. Si alzò, prese una chiave dal quadro alle sue spalle e si avviò verso le scale. — Vieni con me.
Salirono all’ultimo piano. L’uomo le aprì la stanza 32. Margot entrò. La porta venne subito richiusa. La chiave girò nella serratura all’esterno.
Era in gabbia, con l’unica compagnia di una sedia, un armadietto e un letto di ferro. Il bagno non era stato previsto dall’architetto. Margot verificò la finestra. Bloccata. Si sedette sul materasso lercio, privo di lenzuola. L’aria era gelida.
Ci misero quasi due ore ad arrivare. Passi pesanti nel corridoio, voci sussurrate. Margot avvertì Sasha con il cellulare, poi se lo infilò nella tasca pettorale esterna del giaccone lasciando attiva la linea. Andò a piazzarsi davanti alla finestra, tenendo il letto tra sé e la porta.
La chiave girò nella toppa. Entrarono in due. Uno portava un cappotto con il collo di pelo, l’altro una giubba verde militare imbottita. Margot lo riconobbe: il gorilla che aveva atterrato nel vicolo del Prospekt. Le scoccò un’occhiata feroce.
— De Weers? — Collo di pelo venne a fermarsi in mezzo alla stanza, giubba verde richiuse la porta a chiave dall’interno.
Margot annuì. Collo di pelo estrasse il cellulare e chiamò un numero. Scambiò qualche frase in romeno, poi buttò il telefono sul materasso e le accennò di raccoglierlo.
— Sì? — fece Margot, accostandolo all’orecchio.
— Sei stata in gamba — la voce del sequestratore capo. — La TV locale ha dato la notizia che Globokar è saltato in aria insieme a uno dei suoi. Chi era?
— Sasha, il suo braccio destro. Dov’è Stark?
— Tra poco lo raggiungerai. Ripassami Vladim.
— Se ti chiami Vladim, vuole te... — Margot lanciò il telefono a collo di pelo.
Lui lo afferrò al volo, ascoltò. — D’accordo, ti richiamo dopo.
Dopo che cosa? L’ordine era di ucciderla, Margot ne fu istintivamente certa.
— Vieni qui. — Vladim fece un passo avanti, portando una mano sotto il cappotto.
— Qui fa troppo caldo — scandì lei, pronunciando la frase prestabilita. — Qui fa troppo caldo!
— Che cazzo dici? Muoviti, non abbiamo tempo da perdere.
Margot non si mosse, l’uomo avanzò deciso per superare il letto che li divideva. La sua mano sbucò con un lampo da sotto la falda del cappotto: la lama di un coltello da combattimento. Margot lo lasciò avvicinare ancora. Giubba verde iniziò a dire qualcosa, tentando forse di mettere in guardia Vladim.
Non ci riuscì. Margot roteò su se stessa. Lasciò partire un calcio alla gola. Vladim rovinò all’indietro contro l’armadietto. Lei gli fu addosso prima che scivolasse a terra. Gli passò un braccio intorno al collo e lo tirò verso di sé, facendosi scudo con il suo corpo. Imprecando, giubba verde estrasse la pistola, la puntò contro la coppia avvinghiata.
— Sta’ indietro, stronzo! — Margot sibilò a denti stretti. — Gli spezzo il collo...
Era addossata al muro sotto il peso del corpo quasi inerte, il coltello a terra, irraggiungibile. Infilò la mano libera sotto il cappotto di Vladim, trovò una pistola. La spianò. Era una Makarov PM. La puntò contro giubba verde.
— Getta quell’arma!
Giubba verde imprecò di nuovo, spostando impercettibilmente la sua pistola, cercando il varco per il tiro.
Colpi improvvisi alla porta. — Vladim! Kostea! — La voce concitata sembrava quella dell’albergatore.
Kostea indietreggiò, girò la chiave, spalancò la porta, sempre tenendo l’arma puntata. L’albergatore volò letteralmente dentro la stanza. Dietro di lui, il commando di Globokar fece irruzione. Sasha, fucile a pompa calibro 12 a canna accorciata, gli altri due con pistole da guerra.
Kostea si voltò alla disperata.
D’istinto, Margot fece sparire la Makarov in una tasca interna del giaccone. Non si sa mai...
Sasha fece fuoco, pallettoni doppio zero. L’impatto scaraventò Kostea contro la parete.
— Ok, ok! — urlò Margot. — Clear! — Lasciò crollare a terra il boccheggiante Vladim.
Sasha si avvicinò a Vladim. Lo sollevò con una sola mano come un sacco di rifiuti, lo costrinse a sedere con la schiena al muro affrescato di sangue.
— Come sei riuscita a conciarlo così? — le chiese senza guardarla.
— Manuale del trapper — rispose Margot. — Occupiamoci di lui, prima che qualcuno avvisi la polizia.
Sasha alzò le spalle. — Qui uno sparo non fa notizia. Nessuno ci disturberà.
I suoi due uomini tenevano l’albergatore farcia al muro in un angolo.
Margot sedette sui talloni di fianco a Vladim. — Ora devi portarci al vostro covo.
Vladim respirava ancora a fatica, biascicò qualcosa di inintelligibile.
— Cos’ha detto? — domandò lei a Sasha.
— Che sei una troia e che scoperà il tuo cadavere.
— Tipo romantico. — Margot assestò un calcio nelle palle a Vladim, che guaì come un cagnolino. — Hai cambiato idea?
Vladim sputò sul pavimento, facendo di no con la testa.
— Ci penso io. — Sasha lo afferrò per i capelli, sollevandogli la testa. — Guarda bene quello che faccio, topo di fogna.
Raccolse il coltello, poi andò verso l’albergatore. Nei suoi occhi balenò il terrore. Sasha gli posò una mano sulla fronte, gli spinse la testa indietro scatenando le sue urla. Gli tagliò la gola con un unico gesto, netto e preciso. Il sangue schizzò a fontana. L’albergatore si afflosciò su se stesso, stringendosi al collo le mani che non riuscivano a contenere i ribollenti getti rossi.
I due uomini di Sasha restarono impassibili. Margot arretrò dagli schizzi.
— Era loro complice — le disse Sasha, notando la sua reazione. — Nessuna pietà per i traditori.
Tornò a chinarsi accanto a Vladim, che aveva sgranato gli occhi di fronte alla mattanza. Gli passò la lama insanguinata sulla bocca. Vladim storse le labbra in una smorfia di disgusto.
— Adesso è il tuo turno. — Sasha passò la lama in presa rovescia. — Pronto?
Vladim levò entrambe le mani: resa incondizionata.
— Molto saggio — fece Sasha. — Per chi lavorate?
— SIS — rantolò Vladim.
Agenti moldovi. Margot scambiò un’occhiata con Sasha. Globokar aveva visto giusto. E anche lei c’era andata vicino.
— Ci porterai dove tenete il giornalista. — Sasha gli diede un colpetto sulla tempia con il manico del coltello. — Subito.
Vladim annuì ripetutamente.
— Siete venuti con una macchina?
Vladim fece nuovamente di sì.
— Allora andiamo — disse Sasha, gettando via l’arma. Si rivolse ai suoi: — Ruslan, Pavel, caricatelo sulla sua auto. Guiderà lui. Voi ci verrete dietro.
— Un momento — s’intromise Margot. — Al telefono, questo idiota ha detto che a lavoro finito avrebbe chiamato.
Sasha frugò Vladim. — Sentito, topo di fogna? — Trovò il suo cellulare. — Devi fare una telefonata a tua madre puttana.
Una via deserta del quartiere industriale, un kombinat di fabbriche e depositi di container.
Vladim fermò l’auto all’imboccatura. Sasha gli sedeva accanto, calibro 12 puntato nel fianco. Dal sedile posteriore, Margot si voltò brevemente. Lo Hummer con gli uomini di Sasha finì di arrestarsi dietro di loro. Vladim indicò un magazzino a circa duecento metri. Il covo era lì.
— Quanti di guardia a Stark? — chiese Margot.
— Solamente in due — bofonchiò Vladim.
— Più le due donne che hanno partecipato al sequestro.
— No, no... Le abbiamo pagate solo per adescarlo. Poi Bogdan, il capo, le ha liquidate.
— Perché?
— Le avevi viste — Vladim inghiottì — potevi riconoscerle.
— Cronaca dei cimiteri. — Sasha lo pungolò con il calibro 12. — Muoviamoci.
Scesero tutti e si riunirono a lato di un capannone. La strada era battuta da vento gelido misto a cristalli di ghiaccio.
— Pavel prenderà posizione di fronte al magazzino e terrà sotto tiro l’ingresso — disse Sasha. — Il nostro amico Vladim porterà la macchina il più vicino possibile. Io sarò di fianco a lui, mi scambieranno per il suo compare. Ruslan, invece, rimarrà qui con la signora de Weers.
— Io vengo con voi — lo corresse Margot. — Mi stenderò sul sedile posteriore. Non mi vedranno.
— Scordatelo. Saresti più di ostacolo che altro.
— Là dentro c’è il mio collega, sempre che sia ancora vivo, e voglio vedere quel che succede. — Agganciò il suo sguardo. — Ricordati che senza di me non sareste qui.
Sasha rifletté un attimo, poi scrollò le spalle. — La vita è la tua. Ma non potremo occuparci anche di te. — Andò ad aprire il bagagliaio dello Hummer. Da un borsone pieno di armi, estrasse un fucile di precisione Heckler & Koch PSG1 per Pavel e cartucce per il suo TOZ-194.
— Mi serve una pistola — intervenne ancora Margot. — Devo potermi difendere.
Sasha la guardò storto. — Sei certa di saperla usare, una pistola?
— Ho fatto per anni l’inviata nelle peggiori zone di guerra.
Lui scosse la testa e ficcò nuovamente la mano nel borsone. — Ricorda una sola cosa. — Tese a Margot una Glock 19. — Tu spari per sbaglio a noi, io sparo sul serio a te.
Margot estrasse il caricatore, lo reinserì. — Non mancare il primo colpo.
Sasha grugnì. Poi si rivolse agli altri: — Bogdan lo voglio vivo.
Vladim tornò al volante dell’auto. Sasha prese posto accanto a lui, fucile sulle ginocchia. Margot dietro, distesa sul sedile.
Aggirando una serie di capannoni sulla sinistra, Pavel raggiunse il suo punto di fuoco dietro una fila di container.
— Parti — ordinò Sasha.
Vladim svoltò a destra. Scesero una rampa verso un fabbricato con il tetto di lamiera ondulata. In fondo, oltre uno spiazzo occupato da una scavatrice, una porta metallica scorrevole. Margot scrutò nello spazio tra i sedili anteriori. La porta metallica si spalancò. Un uomo comparve sulla soglia armato di una compatta pistola mitragliatrice.
— Quello è Bogdan — disse Vladim.
Ormai erano a trenta metri dall’ingresso.
— Avanti piano. — Sasha chinò la testa per essere meno riconoscibile. — Comincia ad accostare, dalla tua parte.
Bogdan fece segno di affrettarsi.
Margot strinse la pistola e si appiattì sul sedile.
Bogdan sbraitò qualcosa, agitando le braccia. Margot riconobbe la voce dell’uomo con il passamontagna visto nel filmato.
— Adesso scendi e chiedigli di venire qui — disse Sasha. — Non mandare segnali, capisco la vostra lingua. Una sola mossa che non mi piace e ti faccio saltare il cervello.
— Non se la berrà...
— Scendi.
Vladim aprì la portiera e scese. Chiamò Bogdan, ma si sentiva che non era naturale. Se ne stava lì impalato, con una mano sulla portiera aperta. Margot lo teneva d’occhio attraverso il finestrino. Vladim insistette, e alla fine Bogdan si mosse verso l’auto.
— Torna dentro, adesso — intimò Sasha, fucile puntato. — Mi hai sentito?
Con uno scatto improvviso, Vladim sbatté la portiera e schizzò via urlando a Bogdan. Detonazione lontana, sibilo. La testa di Vladim mandò fuori uno zampillo grigiastro: proiettile del PSG1 di Pavel. Margot lo vide piombare giù come un birillo abbattuto.
Bogdan alzò la pistola mitragliatrice. Aprì il fuoco sull’auto ritirandosi verso l’ingresso del magazzino. I finestrini divennero ragnatele di buchi e crepe, andarono in pezzi sotto il piombo.
— Cazzo! — Sasha spalancò la portiera per buttarsi fuori. Margot sgusciò a sua volta fuori dall’auto. Un secondo colpo di Pavel dalla lunga distanza mancò Bogdan d’un soffio. Sasha si sporse dalla fiancata dell’auto e sparò con il fucile a pompa. Centrò Bogdan a una gamba. Lasciandosi dietro una frastagliata traccia rossa, Bogdan riuscì a strisciare fino alla soglia sventagliando proiettili alla cieca. Scomparve all’interno.
Dietro l’auto, Sasha gesticolò in direzione di Pavel per avere altro fuoco di copertura. Proiettili del fucile di precisione grandinarono contro la porta. Sasha si mise a correre. Margot gli andò dietro. Si ritrovarono addossati alla parete, di fianco all’ingresso, armi in pugno.
— Tutto bene? — le chiese Sasha.
— Muoviamoci, o Stark è spacciato.
Pavel arrivò di corsa, fucile di precisione di traverso alla schiena. Si liberò del fucile ed estrasse la pistola. Sasha balzò all’interno, coperto dal compagno. Rotolò sul pavimento con agilità sorprendente per un uomo di quella mole. Raffiche esplosero da dentro. Pavel sparò a sua volta. Dietro di lui, Margot gettò una rapida occhiata. Vide Sasha ripararsi dietro una catasta di bidoni, Bogdan che spariva in un corridoio interno. Quel luogo era un mezzo labirinto, probabilmente con altre uscite. Nessuna traccia del secondo uomo segnalato da Vladim. Se si trovava vicino a Stark, non c’erano speranze di arrivare in tempo.
Margot entrò, Glock a due mani in presa bassa. Pavel la seguì imprecando tra i denti. Sasha li coprì con una bordata del TOZ-194. Rischiando grosso, tra schegge che volavano da tutte le parti, Margot corse fino ad appoggiarsi spalle allo stipite. Gettò un rapido sguardo nel corridoio. Nessuno. Solo la stria disegnata dalla ferita di Bogdan. Nella scarsa luce di lampadine molto distanziate il sangue appariva quasi nero.
Sasha la raggiunse.
Margot si proiettò nel corridoio, ginocchio a terra, Glock puntata. Non stette a pensarci troppo. Tenendosi curva avanzò, lo sguardo fisso sul rettangolo illuminato della porta in fondo allo stretto passaggio.
Movimento, una sagoma scura, la fiammata di un grosso calibro. Il proiettile sibilò a pochi centimetri dalla sua testa. Margot aprì il fuoco, gettandosi quasi contemporaneamente di lato. Due colpi in rapida successione. Poi altri due appena atterrò sulla spalla sinistra. Era pronta a premere di nuovo il grilletto. No, inutile. Nemico a terra, di traverso alla porta. Altro sangue sul cemento crudo.
Margot sentì Sasha sopraggiungere dietro di lei. Si rimise in piedi, corse fin sulla soglia della stanza. Allontanò con un calcio la pistola ancora nel pugno dell’uomo a terra. Scrutò al di là.
Un tavolo, bottiglie vuote sul pavimento. E la scia di sangue. Compiva una curva attorno al tavolo, fino all’angolo opposto. La mente di Margot registrò confusamente una scena già vista. Una sedia, un uomo legato... Margot si avventò dentro.
Bogdan era lì, schiena alla parete, gamba ridotta a un pezzo di carne sanguinolenta. Alzò l’arma su di lei. Margot fece fuoco, colpo singolo. Lo centrò all’altezza del cuore.
Sasha piombò nella stanza seguito da Pavel. La spinse da parte. Tenendo Bogdan sotto tiro gli si avvicinò, lo tastò con un piede, guardò gli occhi vitrei.
— ’Fanculo! — sbottò, abbassando il fucile.
— O lui o io.
— Tutto questo casino per niente...
Margot lo ignorò e si girò verso Stark. Nudo, benda sugli occhi, come nel filmato. La testa reclinata sul petto. Posò la Glock sul tavolo e gli si accostò. Un foro di proiettile circondato da sangue non ancora coagulato appena sotto lo sterno. Gli avevano sparato nello stomaco e lo avevano lasciato morire. Era arrivata tardi, di poco, ma tardi.
Gli tolse la benda, gli sollevò con delicatezza la testa. Le palpebre di Stark si dischiusero leggermente.
— È vivo! — esclamò. — Al, riesci a sentirmi?
Nessuna reazione.
— Al! Rispondimi!
— Non ne avrà per molto — decretò Sasha avvicinandosi.
Stark aprì gli occhi.
Margot sussultò. Le parve di cogliere l’ombra di un sorriso sulle labbra livide.
— Margot, ce l’hai fatta... alla fine.
Sasha si sporse in avanti per ascoltare.
— Sì, Al, sono qui — disse lei. — Non affaticarti a parlare, adesso ti portiamo via.
Stark scosse la testa. — Inutile. — Un brivido lo squassò da capo a piedi. — La missione, devi pensarci tu... Io ho fatto una cazzata...
Margot sentì su di sé gli occhi di Sasha.
— Non pensare a questo. — Continuò a fissare Stark. — Al network saranno fieri di te, quando vedranno l’intervista.
Stark si guardò intorno, l’ultimo barlume di ragione cosciente. Si rese conto della presenza di Sasha. Annuì più volte. — Sì, sì, il network... devi andare avanti...
La testa ricadde.
Sasha cercò con le dita la pulsazione giugulare. — Il tuo collega è morto.
Margot alzò gli occhi d’impulso. Era stata solo un’impressione, o lui aveva calcato di proposito sulla parola “collega”?
— Non me lo perdonerò mai — osservò, glissando. — Sono stata io a volerlo per questo lavoro...
— Neanche dal mio punto di vista è stato un gran successo. — Sasha scrollò le spalle. — Quel Bogdan non potrà rivelarci niente.
— Non ho avuto scelta — ripeté Margot.
— Lascia perdere. — Sasha raccolse dal tavolo la pistola che Margot aveva posato e la fece sparire con noncuranza in una tasca del soprabito. — In fondo, se abbiamo annientato questa cellula è in parte anche merito tuo. Alla faccia della giornalista: tu sei una specie di macchina da guerra.
— Guardi la morte troppe volte, ti resta appiccicata addosso...
— Te la cavi molto bene, davvero molto bene, per essere una giornalista. Pistole, arti marziali... Vi addestrano per ogni evenienza. E se l’intervistato dà in escandescenze — Sasha sogghignò — che cazzo, potete sempre sparargli, no?
Margot sorrise storto. Le cose si stavano mettendo male.
— Toglimi una curiosità — continuò Sasha. — A che genere di missione si riferiva il tuo defunto collega? È così che chiamate le interviste, nel vostro mestiere? Missioni?
Davvero molto male.
— Stava delirando, in punto di morte...
— A me è sembrato lucido. E tu non troppo stupita.
— A che gioco giochiamo, Sasha? Cosa sono tutte queste stronzate?
— Secondo me le stronzate sono quelle che ci hai raccontato finora — fece Sasha, gelido. La canna del fucile a pompa ancora puntata verso il basso.
— Posso dimostrarti che è tutto vero. — Con calma, Margot infilò una mano sotto il giaccone.
— Un altro filmetto?
— Esatto. — Folgorante, estrasse la Makarov di Vladim. — Al piombo.
Sasha spostò il dito sul grilletto del fucile. I suoi lineamenti granitici si contrassero. Sconcerto, paura. Anche rassegnazione, forse.
Margot fece fuoco, due proiettili al centro di massa. Sasha barcollò all’indietro. Il calibro 12 sputò fuoco e fiamme contro il pavimento. Margot gli piantò il terzo colpo, conclusivo, in piena fronte.
Pavel ringhiò qualcosa. Aveva scelto proprio quel momento per cambiare caricatore. Momento sbagliato. Margot si riposizionò di novanta gradi. Fece nuovamente fuoco. Stessa tecnica: due al petto, il terzo alla testa.
Spostò l’arma da un corpo a terra all’altro. Nessun movimento. Si avvicinò a Sasha. Le parve di notare un leggero sollevarsi del torace, forse un ultimo barlume di vita che ancora resisteva. No, se l’era solo immaginato. L’adrenalina le tagliava il fiato. Controllò Pavel. Andato anche lui. Lasciò ricadere il braccio.
Era sola, sei cadaveri disseminati tra dentro e fuori, sangue da tutte le parti. Notò una porta di ferro parzialmente nascosta da armadi metallici. Cautamente, andò ad aprirla. Dava su uno spiazzo occupato da container vuoti. L’idea la sfiorò, solo per un momento. Andarsene lontano da lì, abbandonare la missione. E passare il resto della sua esistenza a sfuggire ai killer della Quantum. Ma Globokar? Proprio adesso che gli era così vicina... No, sapeva di dover finire ciò che aveva cominciato.
E per riuscirci aveva bisogno di armarsi. Gli uomini del SIS erano ben equipaggiati. Sostituì la Makarov con una Heckler & Koch USP Tactical, quattordici colpi, calibro 9 millimetri Parabellum. Applicò il silenziatore e la infilò nella tasca interna del giaccone. Prese anche delle PlastiCuffs. I moldovi avevano usato quelle per bloccare le mani di Stark. Ora restavano da cancellare le tracce. Tutte le tracce. E tutti i corpi.
Margot trovò una tanica di kerosene. Inondò l’intera stanza. Rimediò un accendino. Diede fuoco. Le fiamme ruggirono.
Rifece correndo il tragitto fino all’uscita. Sbucò nel cortile... sotto il tiro di Ruslan.
— Non sparare! — Margot tese entrambe le braccia in avanti. — Sono io!
— Porca puttana! — sbottò lui, e abbassò la pistola. — Che cazzo è successo, là dentro?
— Sono tutti andati, Cristo santo! — rispose Margot, mostrandosi sconvolta. — Vladim ci aveva presi per il culo. C’era un terzo complice, è saltato fuori sparando all’impazzata. Sasha e Pavel sono morti. Io non so come ho fatto a cavarmela.
— Hai detto che Sasha e Pavel sono morti?
— Stecchiti. Anche il mio cameraman è morto. E ora... — Margot indicò dietro di sé — sta bruciando tutto, un proiettile deve aver centrato un contenitore di carburante. Vai a vedere, se vuoi. Io non rimango qui un secondo di più.
Ruslan spostò il peso del corpo da un piede all’altro, guardandosi attorno, un gregario per nulla avvezzo a prendere decisioni.
— Ok, va’ alla macchina e restaci — si decise. — Entro a dare un’occhiata, poi ti porto dal signor Globokar.
Ruslan corse verso il fumo nero che veniva risucchiato fuori dalla rampa.
Margot raggiunse lo Hummer parcheggiato lì di fronte. Il vento soffiava più freddo. L’aria puzzava di bruciato. Si chiuse dentro. Erano solo le cinque del pomeriggio. Una giornata che sembrava non dovesse finire mai.
Prese il satellitare e contattò l’Agenzia. Richiesta di identificazione biometrica, impronta vocale scansionata e riconosciuta.
— Margot, cos’è questa storia che il nostro uomo sarebbe saltato in aria? — Ariel la assalì senza preamboli. — I notiziari locali...
— Ho solo due minuti per aggiornarla, signore — lo interruppe Margot. — Mi ascolti attentamente.
Ricostruì gli avvenimenti. Il messaggio dei rapitori, l’azzardo di allearsi con Globokar, il blitz nel covo, gli ultimi istanti di Stark.
— Non ti avevo detto di tenermi informato? — reagì Ariel. — E mi sembrava di essere stato chiaro sul fatto che salvare Stark non era una nostra priorità.
— Infatti mi sono limitata a sfruttare la situazione per i nostri scopi — mentì Margot.
— In che modo? Mi piacerebbe proprio saperlo.
— Allo stato attuale, lo Zar risulta ufficialmente morto in un attentato. Tra i membri della sua organizzazione, pochissimi erano al corrente del trucco. Alcuni di loro sono già usciti di scena. Devo continuare?
Ariel tacque per qualche istante. — Inoltre, a questo punto è in debito e si fida di te — riprese poi, placato. — Moderatamente, per uno come lui, ma si fida.
— Proprio così. Abbiamo un’occasione irripetibile per prelevare comunque il nostro uomo. Nessuno si chiederà dove sia finito, se tutti lo credono morto.
— Metto in preallarme il pilota dell’elicottero e gli uomini della Argo. Punto di estrazione, la Besarabia Stal.
Con la coda dell’occhio, Margot scorse Ruslan uscire dal magazzino con un fazzoletto sul viso. Fumo sempre più denso avvolgeva l’edificio. Tempo scaduto. — Pongo due condizioni.
— Condizioni? — ripeté Ariel, incredulo. — Tu poni condizioni alla Quantum?
— Chiedo la disponibilità del materiale su Globokar che ho avuto dagli agenti moldovi.
— Non ci interessa, fanne quello che vuoi. La seconda?
Margot annuì inconsciamente. Prima di presentarsi al secondo incontro con Globokar aveva salvato su un hard drive online copia di tutto il materiale scottante.
— La seconda condizione — insistette Ariel.
— Sono l’unica in grado di portare a termine l’incarico. Se riuscirò, voglio essere io a consegnare il pacco al destinatario.
— Sai bene che agli agenti sul campo non è permesso conoscere l’identità del committente. Motivo della richiesta?
— Sapere cosa succederà a Globokar. E non si tratta di una richiesta. Ho detto condizione.
— Ti avverto, de Weers. I superiori non apprezzeranno questo tuo atteggiamento ricattatorio.
— Si impone una risposta, signore. Tra pochi secondi sarò costretta a chiudere. Force majeure.
Un attimo di silenzio. — Accordato. E adesso finisci il lavoro.
M14 Est. Da Tiraspol, Transnistria, verso Odessa, Ucraina. Lo Hummer superava distese di campi imbiancati, villaggi isolati. Margot sedeva immobile. Ruslan guidava in silenzio. Aveva paura. Informato per telefono di com’erano andate le cose, Globokar lo aveva coperto di insulti. Ora li stava aspettando.
Svoltarono in una strada privata. Un cartello di divieto d’accesso delimitava la proprietà della Besarabia Stal. Il complesso dell’acciaieria era un vecchio mastodonte di cemento e tubature accasciato in una piana tra le colline. Il cielo annerito, ammorbato dalle decennali esalazioni delle ciminiere, la desolazione intorno. Sembrava impossibile che quel luogo senza vita si popolasse di operai e impiegati nei normali giorni lavorativi.
Una recinzione di sicurezza correva lungo l’intero perimetro, due guardie armate al cancello principale. Bastò solo un cenno di Ruslan per passare senza controlli. Superarono una lunga fila di camion. Gli stessi su cui venivano caricate le armi sfornate dalla catena di produzione “parallela” dello Zar. Accanto al corpo centrale dello stabilimento sorgeva una palazzina di uffici a quattro piani. Ruslan parcheggiò nell’area riservata alla dirigenza. Salutò altri tre uomini all’ingresso e raggiunse un ascensore. Come Margot aveva sperato, nessuno si curava più di perquisirla. Salirono all’ultimo piano. Un corridoio, l’ufficio di Globokar piantonato dall’ennesimo gorilla armato. Margot ne aveva contati sei. Non dovevano essercene altri; lo Zar ne aveva portati con sé il minimo indispensabile alla sua protezione. Sei rimanevano comunque troppi.
Ruslan e Margot entrarono.
— Voglio la verità! — Globokar era in maniche di camicia, sudato. In piedi davanti alla scrivania, stava ammucchiando faldoni di documenti che prelevava da una cassaforte aperta, ormai mezza vuota. Oltre la vetrata alle sue spalle, aveva cominciato a nevicare. — Mi rifiuto di credere che Sasha si sia fatto fregare così!
— Quel che so gliel’ho già detto al telefono, signor Globokar — si giustificò Ruslan. — Io ero rimasto in macchina.
— Allora spiegamelo tu, Margot. Eri presente, no?
Margot raccontò la sua versione dei fatti.
— Quei bastardi del SIS! — Globokar si lasciò cadere su una poltrona girevole. — Se sono tutti morti, non c’è modo di arrivare a chi ha in mano tutta quella merda su di me. Ma una soddisfazione me la sono tolta. Dà un’occhiata.
Fece ruotare verso Margot un monitor acceso, privo di audio. Le immagini di un notiziario. Lo studio dello Zar letteralmente fuso dall’esplosione termobarica, i pompieri impegnati a domare l’incendio. Le inevitabili scritte scorrevano in sovrimpressione: IL CITTADINO ARKADIE GLOBOKAR ASSASSINATO A TIRASPOL. I SERVIZI SEGRETI MOLDOVI DIETRO IL VILE ATTENTATO.
— Ho fatto in modo che la stampa venisse informata della pista moldova — riprese Globokar compiaciuto. — Ci saranno ripercussioni.
— Può darsi, ma questo non cambierà le cose per te — osservò Margot. — Il dossier che ti riguarda verrà presto diffuso. Col tuo business hai chiuso comunque.
— Ho chiuso qui, adesso. Ma di certo non per sempre! — Globokar batté una manata su una pila di carte. — Ora tutti mi credono morto. Ho una montagna di soldi al sicuro in Europa. Potrò ricominciare da un’altra parte, con una nuova identità, una nuova faccia. È una prospettiva realistica, non ti pare? — Alzò gli occhi, focalizzando alle spalle di Margot. — A sapere che sono vivo, rimane una sola persona...
Margot si girò di scatto. Troppo tardi.
Ruslan le attorcigliò un laccio stretto intorno alla gola.
Lei provò a svincolarsi, dandogli una gomitata nel fianco, scalciò, annaspò. Inutile. Ruslan non era un dilettante.
Margot ebbe i polmoni in fiamme, la vista cominciò ad andare a nero. Con la forza della disperazione, la sua mano corse dentro il giaccone aperto. Estrasse la USP, mandò la canna silenziata a scivolare sotto l’ascella sinistra. Fece fuoco. Due colpi al torace di Ruslan, due soffi quasi impercettibili. Il laccio si allentò. Margot fece un passo di lato. Ruslan crollò vomitando sangue.
— Una sola parola e sei morto. — Margot spostò la bocca da fuoco sul pietrificato Globokar. — Girati.
Globokar obbedì lentamente. Margot gli sferrò un colpo alla nuca con il calcio della pistola, non così forte da fargli perdere i sensi. Lo Zar si accasciò sopra la scrivania. Margot nascose l’arma sotto il maglione, prese di tasca le PlastiCuffs e gli bloccò i polsi dietro la schiena.
— Adesso chiamo il tipo che è qui fuori. Se cerchi di dare l’allarme, il primo a crepare sei tu.
Chino sui mucchi di documenti, Globokar annuì.
Margot spalancò la porta. — Vieni, presto! — disse in tono concitato all’uomo di guardia. — Il signor Globokar si sente male!
Il gorilla gettò via la sigaretta e si precipitò dentro. Vide il suo capo riverso sulla scrivania, ammanettato, il corpo di Ruslan a terra. Non ebbe il tempo di vedere altro. Margot gli fece saltare le cervella da trenta centimetri. Dal foro d’uscita del proiettile, una pozza di sangue si allargò sul pavimento.
Richiuse la porta con un calcio. Dal cadavere di Ruslan prelevò le chiavi dello Hummer. Nel caso non fosse riuscita a raggiungere l’elicottero.
— Quanto ti pagano per questa porcata? — chiese Globokar all’improvviso, riprendendosi. — Ti do dieci volte di più.
Margot lo ignorò. Socchiuse la porta e sbirciò nel corridoio. Via libera.
— Cos’hai in mente? — insistette Globokar. — Le uscite sono sorvegliate. Non andrai da nessuna parte.
— Vuoi scommettere? Come si arriva sul tetto?
— Il tetto? — Globokar strinse gli occhi.
Margot lo ignorò per la seconda volta e si mise in contatto con la QA. Squadra Argo in azione immediata.
Globokar sbiancò.
Margot estrasse la USP e lo spinse verso la porta. — Muoviti.
Uscirono nel corridoio. Sulla destra, all’estremità opposta rispetto all’ascensore, c’erano delle scale.
Globokar fece resistenza. — Perché non mi spari subito e la facciamo finita?
— Tu non vali un mio proiettile, Arkadie.
— Fottiti! — Lo Zar si mise a urlare come un animale al macello per richiamare l’attenzione dei suoi.
Margot lo pestò con il calcio della pistola all’altezza del gomito piegato.
Globokar urlò ancora, di dolore questa volta. — Mi hai spezzato il braccio, puttana...
— Ti resta quell’altro. Per ora.
Arrivarono alle scale. Margot tese l’orecchio. Rumore di passi in corsa dai piani inferiori. Lo stronzo era riuscito a dare l’allarme.
Si precipitarono su per i gradini. Globokar arrancò curvo per due rampe. Una porta metallica. Chiusa. Margot sparò alla serratura. Furono sul tetto. La neve cadeva a grossi fiocchi. Il paesaggio svaniva in un nulla livido. Dall’elicottero non sarebbe stato facile individuarli.
Margot guidò Globokar tra grovigli di tubature rugginose, ghiacciate. Copertura, dovevano prendere copertura...
Dalla porta delle scale spuntarono due uomini armati di MP5. Margot sparò a braccio teso. Ferì uno dei due al braccio. Si ritirarono senza rispondere al fuoco, troppo rischio di colpire il loro boss.
Un rombo in avvicinamento. L’elicottero. Margot mandò lo sguardo a frugare il cielo. Scorse una sagoma grigio piombo. Sembrava quella di un MI-8, a bassa quota dal confine ucraino. Provò ad agitare una mano per farsi vedere. Una pallottola le fischiò vicino. Tornò al riparo dietro una conduttura. Globokar, con addosso la sola camicia, batteva i denti, terreo per il dolore al braccio.
L’elicottero era ormai sopra la struttura. Margot si strappò la sciarpa per sventolarla, attirare l’attenzione del pilota senza rischiare la pelle. Nel giro di pochi secondi, non ebbe più importanza.
Qualcosa sibilò tracciando una scia di fiamme nella nevicata.
SA-7 Strela, proiettile razzo. Lanciato da una finestra sottostante della palazzina. Investì il bersaglio in pieno. Esplosione primaria, tra rotore e cabina. L’elicottero s’impennò come un cavallo impazzito. Esplosione secondaria. E terminale. Il velivolo si trasformò in una palla di fuoco. I resti incendiati andarono a schiantarsi contro una ciminiera primordiale. Frammenti metallici roventi e mattoni disintegrati piovvero da tutte le parti.
La sua via di fuga non esisteva più. L’intera squadra Argo che si trovava a bordo era stata annientata. Adesso era davvero nella merda.
— Sei fottuta, signora giornalista — mormorò Globokar, quasi le avesse letto nel pensiero.
— Tu prima di me, stronzo. — Margot gli premette la bocca da fuoco contro la gola. — La vuoi subito, la pallottola con il tuo nome?
— Non puoi uccidermi.
— Sbagliato — bluffò Margot. — Se la tua cattura dovesse rivelarsi impraticabile, ho l’ordine di eliminarti. — Guardò oltre le condotte. Vide la piattaforma di una scaletta esterna di sicurezza. — Adesso tu muoverai il tuo culo, Zar delle fognature, e scenderai con me. Non ci torni a vendere armi, pezzo di stronzo. Neanche in capo al mondo, neanche con una faccia nuova o gli occhi a mandorla. — Allungò il braccio fuori dalla copertura e sparò un paio di colpi verso la porta. Schegge volarono. — Vai! Adesso! O queste sono le ultime parole che sentirai.
Imprecando, lo Zar si diresse goffamente verso il bordo del tetto. Margot si coprì la ritirata con altri due colpi e lo seguì. Scesero lentamente i gradini metallici, incrostati di ghiaccio. Globokar procedeva impacciato dalle mani bloccate dietro la schiena. Svoltando tra una rampa e l’altra, finì con tutto il suo peso contro la ringhiera di protezione. Margot lo trascinò indietro dal vuoto.
Arrivarono in fondo. Margot alzò lo sguardo: due uomini in cima alla scaletta. La fuga era stata scoperta. Ma non erano in tre? Dovevano essersi divisi.
Di corsa, trascinò Globokar per il braccio sano oltre l’angolo dell’edificio. Lo Hummer era parcheggiato a una ventina di metri. Lo raggiunsero. Margot spalancò la portiera posteriore, fece stendere lo Zar bocconi sul sedile. Aprì davanti.
Dall’ingresso della palazzina emerse correndo il terzo uomo. Partì una raffica di fucile d’assalto.
Margot si ritirò tra finestrini che scoppiavano. Riuscì ad aprire il bagagliaio. Ficcò una mano nel borsone delle armi. Tirò fuori un fucile a pompa come quello di Sasha.
L’uomo sbucò di fianco a lei urlando qualcosa. Margot fece fuoco, pressoché point-blank. Due crateri sanguinosi eruttarono dal petto del gorilla. L’impatto dei pallettoni lo scaraventò di schiena nella neve piena di relitti bruciati.
Un proiettile strisciò sulle lamiere dello Hummer, mancandola di poco. Sparavano dalla scaletta di sicurezza. Margot saltò a bordo tirandosi dietro il borsone. Lo gettò sul sedile accanto. Chiavi nel cruscotto, in moto. Un altro proiettile tranciò lo specchietto laterale. Via a tutta velocità, verso il cancello d’ingresso.
Dalla guardiola i due sorveglianti, già in posizione, aprirono il fuoco. Piombo picchiò duramente contro il muso del veicolo. Margot si abbassò, andando a tavoletta. I due si scansarono all’ultimo momento. Lo Hummer travolse il cancello arrugginito e schizzò sulla strada privata.
Margot accelerò ancora. Azionò i tergicristalli contro la neve che flagellava il parabrezza. Gettò un rapido sguardo allo specchietto interno. Due gipponi oltrepassarono il cancello divelto e si lanciarono all’inseguimento. Aveva un mezzo chilometro di vantaggio. Le gomme aderivano bene al terreno, ma governare il veicolo sui tratti ghiacciati era un’impresa. Alto, altissimo rischio di sbandare.
All’incrocio con la superstrada, deviò verso l’Ucraina. Chiamò la QA con il satellitare, vivavoce attivato.
— Ho perso il contatto con la squadra Argo — ringhiò Ariel.
— Niente più squadra Argo, elicottero cancellato da un RPG.
Ariel bofonchiò qualcosa di inintelligibile. Margot fu certa fosse la parola “merda”, in almeno due lingue diverse.
— Ho Globokar — riprese. — Dirigo al confine a bordo di uno Hummer nero. I suoi uomini non mollano.
— C’è una seconda squadra Argo dislocata al confine. Ma non può intervenire in territorio transnistriano. Ingaggiare uno scontro con la polizia frontaliera è fuori discussione. Devi uscire dal paese, Margot. A qualsiasi costo.
Margot chiuse il contatto.
— Arrenditi — biascicò Globokar, faccia in giù sul sedile. — Sarà meglio per tutti.
Un’occhiata nel retrovisore. Erano più vicini. Il primo gippone a duecento metri.
Margot pestò bruscamente il pedale del freno. Lo Hummer sbandò. Lei controllò in controsterzo, si fermò con una lunga derapata. Scelse il fucile di precisione che Ruslan aveva recuperato dal cortile del magazzino. Tirò giù il finestrino. Appoggiò il gomito sinistro sullo spessore della portiera. Dito sul grilletto, occhio nel mirino telescopico: il guidatore del gippone al centro del reticolo. Scarsa visibilità, molto vento, troppa neve. Margot trattenne il respiro. Fece fuoco. La testa del guidatore scattò all’indietro come una molla. Il parabrezza del gippone divenne un affresco rosso. Il veicolo scartò e si rovesciò. Il secondo gippone frenò bruscamente. Un’arma spuntò dal finestrino. Lampi radiali dal parafiamma, raffiche in full-automatic.
Margot non attese gli impatti del piombo. Gettò il fucile sul sedile a lato e ripartì di slancio. La squadra superstite di Globokar riprese a sua volta la caccia.
Le auto ringhiarono nella tormenta. Altre raffiche, altro piombo.
Un cartello incrostato di ghiaccio segnalò l’approssimarsi del confine.
Margot scorse il posto di polizia, la sbarra calata. Rallentò, per poi aumentare improvvisamente la velocità quando fu a una cinquantina di metri.
Agitazione dilagò tra i funzionari. Mani si alzarono a intimarle l’alt. Margot puntò dritta contro la sbarra che ostruiva la strada. Le stesse mani corsero alle fondine. Partirono i primi colpi. Buchi raggiati nel parabrezza. Margot tenne dritto il volante e prese copertura sotto la plancia. Gli ultimi finestrini rimasti andarono in pezzi. Margot sentì l’urto con la sbarra. Vide pezzi verniciati di bianco e rosso volare nel vento. Rialzando la testa, trovò la strada libera davanti a sé. Altro sguardo nello specchietto.
Nemmeno il gippone si era arrestato al confine. Il guidatore si sporse, ricominciò a sparare. Pistola di grosso calibro. Un proiettile centrò la gomma posteriore sinistra. Lo Hummer sbandò paurosamente. Margot cercò di mantenerne il controllo. Non ci riuscì. Slittò sul ghiaccio e cappottò. L’impatto al suolo parve strapparle la colonna vertebrale. Senza cintura allacciata, sbatté duramente la testa. Sentì in bocca il sapore metallico del sangue.
Chiuse gli occhi per un attimo. Li riaprì. Il gippone galoppava verso lo Hummer come un ariete di sfondamento. Doveva tirarsi fuori di lì. Cercò a tastoni un’arma. Non la trovò...
Il gippone inchiodò, slittando sul fondo ghiacciato.
Due auto in arrivo dalla direzione opposta. Superarono lo Hummer ribaltato, si schierarono a protezione. Le auto vomitarono sette, otto uomini in abiti civili, tutti armati di fucili d’assalto Steyr. La seconda squadra Argo. Aprirono duro fuoco di copertura. Il gippone fece dietro-front e tornò verso il confine.
Margot rimase compressa contro la spalliera. Neve vorticava nell’abitacolo rovesciato. Il vento sapeva di cordite.
— Maggiore Jeffries, comandante della squadra. — Una faccia scavata si chinò sul finestrino distrutto. — Tutto a posto, agente de Weers?
Margot sputò una boccata di sangue. — A parte il fatto che ci stiamo parlando alla rovescia?
— Adesso la tiriamo fuori.
Margot accennò al sedile posteriore. — Globokar è dietro. Date un’occhiata, fate presto.
I commando della Argo erano precisi, essenziali. Con cautela, li estrassero entrambi dall’abitacolo accartocciato. Margot era tutta intera, a parte qualche contusione. Lo Zar era privo di sensi, ma vivo. Lo trasferirono su una delle auto. Margot e Jeffries salirono sull’altra.
— Destinazione? — Margot accettò un impacco analgesico.
— Una delle tante piste clandestine usate dai contrabbandieri — rispose Jeffries. — C’è un aereo che ci aspetta. Deve consegnare il suo prigioniero personalmente, se non sbaglio.
Il learjet Falcon-20 scivolava morbido sul tappeto di nubi, nelle prime luci dell’alba.
Margot si alzò dal suo posto e si avviò verso un sedile di coda dell’aereo. Globokar era assicurato dalla cintura, polsi ammanettati in grembo. Aveva una benda sugli occhi. Di fronte a lui, Jeffries non lo perdeva di vista.
— Solo un minuto, maggiore. La ringrazio.
Jeffries si spostò dall’altro lato del corridoio.
— Come va il braccio? — Margot sedette di fronte a Globokar.
— Margot. — Lui alzò la testa. — È il tuo vero nome?
— Niente domande personali.
Lo Zar annuì, come se non si aspettasse una risposta diversa. — Dove mi portate? — Nella sua voce trapelava la rassegnazione.
— Non l’hanno detto neanche a me.
— Chi ti ha mandato, solo questo voglio sapere — insistette lui. — Gli americani?
Margot rimase in silenzio.
— Deve trattarsi degli americani. Non può avermi tradito qualcuno a Mosca. — Globokar attese qualche istante, tendendo il collo verso di lei. — A meno che non ti abbiano ingaggiato quelli della Brigata Solncevo...
— Ti riferisci all’attentato in cui morì uno dei loro? Tu eri stato indicato da tutti come il mandante.
— Senza prove, le accuse sono solo chiacchiere. Mi sembrava di avertelo già spiegato. Allora, lavori per il clan?
— Avevi troppi nemici, Arkadie. Fattene una ragione.
— Chiunque sia stato, se ne pentirà. — Globokar si lasciò andare a una risata nervosa. — I documenti che ho messo al sicuro salteranno fuori, cadranno un bel po’ di teste. Hanno fatto male a sottovalutarmi.
— Magari non gliene frega niente — osservò Margot. — Non ti sei chiesto perché dovevi essere preso vivo? A quelli che hai nominato bastava farti secco, per toglierti di mezzo.
Globokar inclinò il capo da una parte, pensando. — Anche il SIS è da escludere... — disse, proseguendo il suo ragionamento.
— Be’, questo posso confermartelo. I moldovi sono subentrati per puro caso. Hanno cercato di sfruttare la mia presenza per arrivare a te. Potevano mandare a monte la missione, e invece l’hanno agevolata. In questo momento, tutto il mondo crede che tu sia saltato in aria a Tiraspol per un regolamento di conti. Se non fosse costata la vita al mio collega, potrei definire la loro comparsa sulla scena una vera manna dal cielo. Per noi.
— Voi chi?
— La mia organizzazione è solo un intermediario. Un concetto che dovresti capire facilmente, Arkadie. L’acquirente finale che ha pagato per averti tutto intero non tarderà ad apparire.
Atterrarono su una pista che si allungava in mezzo a un vasto territorio desertico. Scendendo la scaletta insieme al maggiore Jeffries e al prigioniero, Margot si ritrovò sotto un sole già infuocato a quell’ora del mattino. Qualche edificio, la torre di controllo. All’orizzonte, il profilo biancheggiante di un centro abitato. Nordafrica? Penisola arabica? Non avrebbe saputo dirlo.
Quattro berline dai vetri oscurati erano in attesa. Ne emerse un nugolo di uomini in completo nero. Scortarono fino alla pista un anziano arabo avvolto in una tunica bianca, la sua kefiah ondeggiava al vento caldo. Vennero a fermarsi davanti a Margot.
— Rimuovete la benda — disse uno degli uomini in nero, in ottimo inglese.
Margot si limitò ad annuire. Jeffries eseguì.
Globokar recuperò la vista un po’ alla volta nella polvere e nel sole accecante. Rimase impietrito, senza parole, come se gli fosse apparso un fantasma.
— Prendiamo in consegna il prigioniero. — Il medesimo uomo in nero si avvicinò a Margot. — Sua Eccellenza le esprime il massimo apprezzamento per il suo lavoro.
Margot chinò leggermente la testa, rivolta all’uomo in bianco. Globokar venne accompagnato a una delle macchine e caricato a bordo senza la minima protesta da parte sua.
— Che sarà di lui? — chiese Margot.
L’uomo cercò con lo sguardo il consenso del suo capo, il quale assentì. — Verrà sottoposto al giudizio di un tribunale privato e quindi condannato a morte per l’attentato al volo Aeroflot del marzo 2006. Su quell’aereo c’era anche la figlia di Sua Eccellenza.
Margot annuì lentamente. Ricordò i resoconti dell’epoca raccolti nel dossier QA. Un dettaglio al quale non aveva dato il giusto peso. L’uomo in bianco la fissò con intensità. Guardandolo meglio, lo trovò molto meno anziano di quanto le fosse sembrato a una prima occhiata. Era il dolore ad averlo consumato.
Sua Eccellenza si voltò e l’intero gruppo tornò verso le auto. Margot rimase a osservarle mentre ripartivano in una nuvola di polvere.
Il satellitare squillò. Una chiamata dall’Agenzia.
— Lieta di sentire la sua voce, signore.
— Il piacere è tutto mio, Margot — disse Ariel. — Felicitazioni per la consegna del pacco. E considera dimenticate le nostre occasionali divergenze.
— La ringrazio.
— Hai saputo quello che volevi? — le chiese Ariel.
— Sì, l’ho saputo. Non immaginavo che la risposta andasse cercata così lontano.
— Sua Eccellenza aveva un desiderio, noi glielo abbiamo esaudito. È la legge del mercato.
— Diciamo così.
— A proposito — aggiunse Ariel. — Il tuo compenso è già stato versato sul conto. Mi sono permesso di cumularlo con quello di Stark. Dopo tutto, hai rischiato la vita per tentare di salvarlo.
— Signore, vorrei...
— A lui non servirà. Ho trattenuto solo parte della somma. Stark aveva una moglie, per quanto ex, e soprattutto un figlio.
Margot rimase colpita. — Chi l’avrebbe detto...
— Già, non era il tipo del padre di famiglia. Come da contratto, faremo in modo che quei soldi vadano a loro. Ora devo lasciarti. Il pilota ti riporterà in uno scalo europeo a tua scelta. Buon volo, e chissà che non capiti di lavorare un’altra volta insieme. Se saremo ancora vivi, naturalmente.
Margot chiuse la connessione.
Il sole era ormai alto nel cielo. In distanza, la colonna di auto vibrava distorta dalla calura che incendiava il deserto pietroso. Lo Zar si avviava al giudizio finale. La sua partita si era conclusa. Quanto a lei, per prima cosa avrebbe ceduto al network lo scottante materiale su Globokar, con l’obbligo di proteggere l’anonimato della fonte. Almeno avrebbero avuto il loro scoop in cambio della mancata intervista. Poi, nel tempo, forse una nuova missione Quantum. O forse no, nel caso la sua coscienza da troppo tempo in letargo si fosse risvegliata all’improvviso.
Margot de Weers risalì la scaletta del jet.
Se saremo ancora vivi.