Rifiutato dal mare

 

 

 

25 febbraio 1933

 

La luce chiara e opalina riflessa dai vetri degli antichi edifici, le bandiere con la svastica che si gonfiano al vento teso, il tepore precoce che fa fiorire le primule nei giardini sembrano rispecchiare lo stato d’animo con cui Lipsia accoglie la rivoluzione nazionalsocialista.

La città somiglia a una ragazzotta che con euforia trattenuta si prepara alle sue nozze: tutti sanno che ha perduto la testa, ma sorridono con indulgenza. Lunghi cortei percorrono le strade del centro e della periferia, cortei silenziosi, di gente sorridente che risponde ai sorrisi dei cittadini assiepati nei viali. Una tranquilla e borghese primavera nazista, la prima di un Reich che si annuncia millenario. 

Il taxi deve risalire uno di questi fiumi umani in movimento, camicie brune mescolate a gai colori di ragazze. Seduta sul sedile posteriore, Kira von Durcheim, diva del cinema e spia segreta di Rudolf Hess, nome di battaglia Walkiria Nera, osserva assorta le donne e i bambini che applaudono e festeggiano. Donne e bambini sono sempre la parte di popolazione più pronta ad aderire ai cambiamenti, ad accogliere positivamente le svolte storiche. O almeno così le pare, in quel giorno. Ha appena concluso con successo la sua prima missione come agente dell’Abwehr. Il Führer in persona le ha fatto l’onore di riceverla, riconoscendo che anche grazie al suo lavoro è stato possibile creare una nuova Germania. 

Il tassista impreca e bestemmia: non simpatizza per l’NSDAP, è fin troppo evidente. Kira evita di polemizzare, limitandosi a chiacchiere di circostanza sul percorso e sul tempo. Si è svegliata di un umore limpido e ottimista, come la città. Guarda l’orologio. Aveva calcolato il ritardo eventuale partendo un’ora prima dal suo albergo, e sa che arriverà puntuale. Dopo tutto, checché ne dicano i ritardatari nati, la puntualità è sempre possibile. 

L’auto si ferma con due minuti di anticipo davanti all’istituto di Fisica.

 

— Si accomodi, la prego, Fräulein von Durcheim.

Il professor Werner Karl Heisenberg la riceve nel suo studio, un caldo ambiente in legno di noce, alte finestre dalle quali entra quella luce straordinaria che annuncia la bella stagione.

Kira si era aspettata un accademico presuntuoso, ma Heisenberg ha l’aspetto di un ragazzo spensierato. Non dimostra più di vent’anni, anche se ne ha trentadue. Appena l’anno prima, per i lavori sulla meccanica quantistica compiuti a Copenaghen con il collega Niels Bohr, è stato insignito del premio Nobel per la Fisica. Lavora in maniche di camicia sui suoi appunti, e non porta la cravatta. Tutto in lui è gentilezza, distacco e lievità. Nulla in lui fa pesare il suo ingegno, la sua posizione, la sua fama. 

Kira gli va incontro rischiarandosi come il cielo di Lipsia. Indossa un paio di pantaloni azzurri, un pullover girocollo bianco e una giacca di pelle, e ha i lunghi capelli sciolti e ribelli. Si stringono la mano. Un attimo irreale, sospeso nel tempo. Due ragazzi del futuro, due ragazzi che appartengono a diversi decenni a venire. Kira pensa che il professor Heisenberg sia una persona straordinariamente tollerante e civile, che non giudica nessuno, e sente un’immediata corrente di simpatia scorrere verso di lui. 

Il professore la percepisce e ne è imbarazzato e lusingato. Arrossisce.

— Si accomodi — ripete a voce più bassa, indicandole la poltrona a schienale alto di fronte al suo tavolo.

— È un onore conoscerla, professore. — Kira si siede.

— L’onore è mio. Purtroppo non l’ho mai vista sugli schermi... non vado al cinema. 

Certo, un uomo come lui è assorbito totalmente nei suoi studi e non va al cinema.

— Oh, ma i miei amici che l’hanno vista mi assicurano che lei è eccezionale — si affretta a continuare il professore. — Ora che la vedo di persona, ci credo.

Adesso è Kira ad arrossire: la goffaggine e la sincerità del complimento la toccano nel profondo.

— Fräulein...

— Professore...

Hanno parlato insieme, ridono.

— Dunque — riprende Heisenberg. — Ieri sera ho avuto una conversazione telefonica con il Reichsleiter Rudolf Hess. A quanto pare è necessario... o almeno opportuno, che lei incontri lo scienziato italiano... 

— ... Ettore Majorana.

— ... Ettore Majorana, sì. Naturalmente l’ho assicurato che farò quanto è in mio potere per favorirvi. L’istituto ha organizzato per domani sera una cena ufficiale in onore di Majorana. Lei è invitata, avrà modo di avvicinarlo. Per quanto... avvicinarlo non è la parola esatta. Credo che per certi aspetti sia inavvicinabile.

— Perché?

— Non ha soltanto uno straordinario talento, ha qualcosa di unico e spaventoso... qualcosa che avevano forse solo un Galileo o un Leonardo da Vinci... ed è appunto qualcosa che lo separa dal resto dell’umanità. Credo che non sia possibile raggiungerlo nella sua intimità. Le sole cose che può condividere con altri riguardano il suo lavoro. Io gli sono amico e l’ho convinto a pubblicare un suo scritto. Ne sono particolarmente orgoglioso, nessuno era mai riuscito in una cosa simile, neppure il suo maestro Enrico Fermi... Guardi, un articolo di Majorana in anteprima su un giornale tedesco. 

Heisenberg spinge verso Kira, attraverso un disordine di altre carte e volumi, la rivista scientifica “Zeitschrift für Physik”. Il pezzo, a firma Ettore Majorana, s’intitola Über die Kerntheorie. 

— Forza nucleare. — Kira scorre le pagine, annuendo.

— Esatto — approva il professore, stupito ma non poi molto dalle conoscenze di Kira. — La teoria dei nuclei. Pensi, il testo contiene perfino alcune correzioni alle mie opere.

— E lei ne è stato felice? — chiede Kira, senza ironia.

— Certo — risponde Heisenberg. — Voglio essere superato, e poi superare ancora chi mi supera. È per questo che si lavora, no?

— Sì, è per questo.

Un entusiasmo e una passione che non sono simulati. A Kira, Heisenberg piace sempre di più.

— Posso chiederle, professore, qual è la sua opinione su Ettore Majorana come persona?

— È un uomo chiuso, triste, cortese, che a volte sa essere estremamente divertente. Ma è anche un uomo ferito. — Heisenberg risponde con sicurezza e improvvisa serietà. — Io non conosco l’origine della sua ferita, e non so che cosa il nuovo governo, attraverso di lei, abbia intenzione di offrirgli. Mi auguro solo che possa risolversi in un bene per lui. 

 

Su Ettore Majorana, Kira possiede un dossier abbastanza completo ed esauriente, raccolto da agenti tedeschi in Italia.

L’illustre fisico è nato a Catania il 5 agosto 1906, sotto il segno zodiacale del Leone: dominato dal sole, in un’isola avvolta dal sole. Nella sua famiglia, nessuno è meno che eccezionale: sia il padre Fabio che il nonno Salvatore si sono laureati a diciannove anni in Ingegneria e successivamente in Scienze fisiche e matematiche. Fra gli zii paterni ci sono stati giuristi, statisti, deputati e docenti universitari. Anche i fratelli di Ettore sono molto dotati: Luciano è ingegnere aeronautico e Maria è diplomata al Conservatorio di Santa Cecilia. 

Ettore, precocissimo, già a cinque anni era in grado di risolvere complicati calcoli matematici a memoria. Dal 1921, anno in cui la sua famiglia si è trasferita a Roma, ha frequentato il collegio Massimiliano Massimo dei gesuiti. Ha conseguito la maturità classica due anni dopo, nel 1923, e si è iscritto, forse per tradizione di famiglia, alla facoltà di Ingegneria. Ma nel 1927 il compagno Emilio Segrè lo ha convinto a passare a Fisica. Enrico Fermi, ventiseienne, era appena stato nominato professore ordinario di Fisica teorica, e iniziava i suoi studi sull’atomo.

Circola un aneddoto interessante sulla prima visita di Ettore all’istituto di via Panisperna. In quell’occasione Fermi, dopo aver illustrato le sue ricerche, avrebbe mostrato a Majorana la tabella in cui erano raccolti i valori numerici del cosiddetto “potenziale universale di Fermi”. Il giorno dopo Ettore torna allo studio di Fermi, gli chiede di poter esaminare nuovamente la tabella, e la confronta con una sua calcolata durante la notte. Verificata l’uguaglianza delle due tabelle e l’esattezza di quella di Fermi, Ettore passa a Fisica: è l’allievo ad avere sottoposto il docente a un esame, non il contrario. 

Ettore si laurea il 6 luglio 1929, a pieni voti, con una tesi sulla meccanica dei nuclei radioattivi. Ha eseguito studi che spaziano dalla fisica terrestre all’ingegneria elettrica, dalla termodinamica allo studio di alcune reazioni nucleari. Attualmente è in Germania grazie a una sovvenzione del Consiglio nazionale delle ricerche. 

Questo per quanto riguarda gli eventi storici della vita di Ettore Majorana: gli eventi intimi, la storia della sua anima, in una parola la ferita che si porta dentro, nessuna spia e nessun poliziotto è in grado di indagarla. 

Per questo Rudolf Hess non gli ha mandato un emissario qualsiasi, un burocrate o un altro scienziato, ma una donna piena di talento e sensibilità, una strega con il dono della veggenza, e nello stesso tempo un medico che potrebbe curarlo con metodi non convenzionali: Kira von Durcheim.

 

Ettore Majorana è sicuramente un malinconico: Kira lo percepisce con l’istinto infallibile di chi ha conosciuto la sofferenza e la solitudine. 

Piccolo, magro, esile, cammina mantenendosi vicino ai muri. Ha un’andatura circospetta, quasi goffa per la troppa attenzione che mette nel non scontrarsi con le cose. Tutto in lui è controllato, misurato, compattato. Ha la carnagione molto scura. Più che un figlio del Sole, potrebbe essere nato sotto il segno di Saturno: oscuro e freddo, duro e saggio. Se non fosse che il pianeta notturno non è che il rovescio del sole, e a suo modo Ettore ha la stessa leggerezza distaccata del solare Heisenberg. 

In questo momento se ne sta in disparte, nel salone da ricevimento della villa dell’industriale Oskar Schneider, patrono e finanziatore dell’istituto di Fisica, fervente nazionalsocialista. Nessuno indovinerebbe che la cena è stata organizzata in suo onore: Majorana passa del tutto inosservato. È come se un’aura di materiale isolante lo separasse dal resto del mondo, una sensazione che a Kira sembra quasi palpabile. 

Curvo, un ciuffo di capelli arruffati sulla fronte, esegue calcoli su un pacchetto di sigarette. Intanto fuma, aspirando boccate regolari, automatiche. La sua concentrazione è assoluta, arcana. Non un uomo da interrompere per un futile motivo, chiedendogli per esempio una coppa di champagne. 

Quindi Kira non si avvicina. Lo studia dall’altra parte della sala. Solo quando viene annunciato che la cena è servita, Werner Heisenberg va a recuperarlo e lo conduce da lei. 

— Kira von Durcheim è sola a Lipsia, come te. Ho pensato che potreste farvi compagnia. 

— Sarà un piacere. — Ettore esegue un inchino di grande eleganza, in netto contrasto con i suoi modi non socievoli. 

La sua voce non è fioca, ma sembra arrivare da lontano. Gli occhi, nerissimi come i capelli, sono invece vicini e curiosi, scintillanti. Kira comprende perché Heisenberg ha detto che può essere divertente. Non fatica a immaginarlo, in famiglia, far giocare i bambini come uno zio fantasioso e adorato.

— L’ho vista al cinema. — Majorana offre il braccio a Kira. — Sullo schermo sembra un astro. Una stella cadente.

Non è un complimento frivolo, né piaggeria. La frase è stata detta con molta serietà. La parola “cadente” non manca di inquietare Kira, infatti sarà selezionata, entrerà nel suo bagaglio mnemonico. 

— Per cui hai trovato il tempo di andare al cinema — scherza Werner. — Allora qualche volta alzi la testa dai tuoi calcoli. Io invece sono in difetto verso Kira, e mi riprometto di andare presto a vedere un suo film. Ma perché sarebbe una stella cadente? 

— Le stelle, quando cadono, danno più luce.

 

Durante la cena, Majorana rimane per quasi tutto il tempo in silenzio, se non per rispondere ad alcune domande di circostanza che gli vengono poste dagli altri commensali sull’Italia e sulle bellezze italiche, sia panorami che femmine. 

Nemmeno Kira parla molto. È colpita dall’immensa pazienza con cui il fisico italiano subisce la civetteria della padrona di casa e delle sue due figlie, che si sono messe in testa di ammaliarlo: forse sfidate dal fatto che lui ha fama di essere una conquista difficile. Queste donne, come spesso accade, ignorano Kira e ostentano indifferenza non solo verso il suo fascino, che sarebbe comprensibile, ma verso il suo lavoro e i suoi successi cinematografici. 

Quando il rettore dell’Università, appassionato cinefilo, loda l’interpretazione di Kira nel suo ultimo film, una delle ragazze interviene con un sorriso di scherno. — Come fa a lodare la sua interpretazione, professore? Veniva travolta da una valanga in alta montagna, la si vedeva appena.

— Ha ragione — concorda serenamente Kira, rivolta alla ragazza. — Mi si vedeva appena.

— Bene, mi è piaciuto il modo in cui si faceva travolgere — grida il rettore. — Meraviglioso. 

Tutti ridono. Kira segna un punto a suo vantaggio. Il breve scambio di battute le vale un’occhiata di simpatia da parte di Ettore Majorana.

L’atmosfera si fa più tesa quando, tralasciando le schermaglie fra e sulle donne, il padrone di casa passa a chiedere direttamente all’ospite italiano che cosa pensa della rivoluzione nazionalsocialista.

— Mi sembra che il paese la stia accogliendo più che bene — risponde ambiguamente Majorana. 

— Sì, ma la sua opinione personale, professore?

— Il nazionalismo tedesco consiste in gran parte nell’orgoglio di razza, ma mi pare evidente che il vostro programma vada ben oltre questo. So che un terzo degli ebrei impiegati nelle amministrazioni pubbliche e private sono stati espulsi dalla città, e che negli ambienti universitari, in particolare, l’epurazione sarà completata entro il mese di ottobre. Questo significa che molti membri della maggioranza ariana troveranno un posto di lavoro, e spiega la popolarità della persecuzione antisemita e l’entusiasmo che suscita. Se fossi, mettiamo, un giovane e geniale tedesco in corsa per una cattedra, e mi trovassi l’accesso sbarrato da un vecchio docente ebreo parruccone, potrei rallegrarmi enormemente di questo stato di cose e andare in birreria a ubriacarmi con gli amici. Nel complesso l’opera del governo risponde a una necessità storica: far posto alla nuova generazione che rischia di essere strangolata dalla crisi economica e privata di un avvenire. Il resto è demagogia... la teoria della razza è stupida. 

Ettore ha parlato con calma, come una persona libera o del tutto ignara della complessa rete di trame politiche che la circonda. Oppure consapevole, ma incurante delle conseguenze del suo libero pensiero. L’ironia appena percettibile è rivolta a se stesso e a ogni cosa, e in definitiva le sue parole potrebbero essere lo specchio di un pensiero nazionalsocialista quanto di ogni altro tipo di pensiero. 

— La teoria della razza è stupida — ripete. — Lo sapete anche voi. Comunque... sono molto colpito dalla vostra organizzazione. E anche dalla vostra fede nella vita.

Dopo cena Oskar Schneider trova il modo di appartarsi con Kira, con la scusa di mostrarle la sua collezione di quadri, o “investimenti in campo artistico”, come li chiama: è sua moglie a intendersene di arte, di cose che richiedono sensibilità, eccetera. 

— Allora hanno mandato lei. Una donna. Sì, forse è giusto. Quell’uomo è pazzo, e quando un uomo è pazzo non c’è che una donna per farlo rinsavire.

— Perché dice che è pazzo?

Oskar Schneider esplode in una sonora risata. Il suo volto bianco e roseo, lucido per il vino e il compiacimento di sé, somiglia a una maschera da carnevale. Un volto falso, che si deforma come cartone bagnato in una smorfia sprezzante.

— Perché, mi chiede? Ma lo ha visto, lo ha sentito? È un pazzo, però dobbiamo assolutamente averlo dalla nostra parte. Si rende conto delle potenzialità dell’energia nucleare e di quello che comporterebbe per la conquista del nostro spazio vitale? 

Kira annuisce, una luce tagliente nello sguardo. — Che lei ci creda o no, me ne rendo conto.

Si rende conto anche, naturalmente, dell’enorme ricchezza che lui, Schneider, ha fiutato nello sfruttamento da parte delle sue industrie della nuova, potente forma di energia.

— Majorana è nelle mani di una cricca di ebrei — continua Schneider. — La moglie di Enrico Fermi, e il suo amico Emilio Segrè. Non possiamo permettere che siano gli ebrei a sfruttare il suo genio, i risultati dei suoi studi. Lei gli piace, me ne sono accorto. Pensavo che fosse refrattario alle donne, e anche agli uomini. Cominciavo a credere che fosse una specie di prete, ma lei gli piace. Lo convinca a rimanere in Germania e a lavorare per noi. 

— Naturalmente — dice freddamente Kira. — Farò tutto quanto posso per il bene del mio paese... come sempre, del resto. Ho molto ammirato il suo Van Gogh. Vado a fare a sua moglie i miei complimenti per il suo gusto e la sua sensibilità.

 

L’albergo è in periferia, per nulla lussuoso ma un po’ pretenzioso. Poco più di una pensione per studenti e viaggiatori di commercio.

Lo gestisce un’anziana vedova svelta e attiva, che si occupa anche della cucina, e comanda a bacchetta il personale di servizio. Il portiere di giorno è troppo vecchio per essere un ragazzo e troppo giovane per essere un uomo maturo. Smilzo, nervoso, pallido, con lunghe mani molli e sudaticce che vorrebbe allungare su Kira, almeno a giudicare dagli occhi, altrettanto bavosi.

— Ah, sì. Lo scienziato italiano. Ultimo piano, la stanza in fondo al corridoio. Ma che ci va a fare una bella ragazza come lei da uno che passa tutto il tempo a fare calcoli? 

— Il professor Majorana mi ha invitata personalmente a venirlo a trovare.

È la verità. Dopo la cena da Schneider, Ettore le ha rivolto l’invito, con diretta semplicità, come si farebbe con un compagno di studi, non con una donna da corteggiare. 

— Stia attenta. Quel tipo è un po’ matto.

E questo è il secondo in Germania a giudicare Ettore Majorana matto. Il terzo: in fondo, “ferito”, la parola raffinata usata da Heisenberg, potrebbe essere una variante di “pazzo”.

— E perché sarebbe matto?

— Lavora sempre. Non fa che fumare e riempire fogli di numeri. Può passare un’intera settimana chiuso in camera, con le finestre sprangate anche di giorno. Bisogna lasciargli i pasti e la corrispondenza fuori dalla porta, non apre a nessuno, non vuole vedere in faccia nessuno. Ma a parte questo, non si è mai portato in camera una donna. Lei sarebbe la prima ma... mi scusi, sotto certi aspetti non credo che potrà darle molta soddisfazione... se capisce cosa intendo. 

L’allusione è fin troppo chiara, come è chiaro dal suo sogghigno che il portiere le offrirebbe volentieri lui quel tipo di soddisfazione.

— Questo non la riguarda — dice soavemente Kira.

— In ogni modo quello è matto — continua l’uomo sottovoce. — Riceve solo le lettere dei parenti e scrive solo alla madre e ai fratelli. Rimanda indietro tutto il resto della posta. Niente di strano, d’accordo, ne ha il diritto, ma solo un pazzo respingerebbe le lettere in questo modo. 

Il portiere armeggia sotto il bancone, apre un cassetto. Kira vede due pile di lettere e biglietti: la prima su carta giallo ocra, con gli indirizzi scritti nella minuta grafia di Majorana, che Kira riconosce per aver visto i suoi appunti sul pacchetto di sigarette. Una busta non è stata chiusa bene, forse per distrazione dello scienziato.

Il portiere prende l’altro mucchio, sparpagliando davanti a Kira la posta da rimandare al mittente. Potrebbero essere missive di studenti interessati a un confronto con il fisico italiano, di ammiratori. Inviti da signore del bel mondo, o a convegni, seminari. 

— Legga.

Su ogni busta è stata tracciata, sempre di pugno di Majorana, una frase sghemba.

«Respinta per morte del destinatario.»

 

La stanza è piena di fumo, i fogli sul largo scrittoio al centro pieni di numeri. Complesse equazioni, a quanto sembra. Minuscole e fitte stringhe di calcoli nel cono di luce della lampada da tavolo, isolate nel buio circostante, come se i numeri fossero la sola realtà.

Ettore Majorana si è perduto in mezzo al fumo e ai suoi calcoli. Ha i capelli sempre più lunghi e una barba di tre giorni. Un aspetto spettrale, malgrado i suoi colori mediterranei. 

— È stata gentile a venire. Non ha paura di annoiarsi con uno studioso di poche parole?

— E lei, non ha paura di annoiarsi con un’attricetta da pubblicità di un dentifricio?

— Sono sicuro che lei è molto di più.

Kira si chiede se lui abbia sospettato chi l’ha inviata lì e per quale scopo: la verità, dietro la maschera dell’attrice. Forse no: spesso, le persone molto intelligenti sono affette da una patologica ingenuità. 

Ettore apre le finestre per far entrare aria. Le offre una sedia, del caffè.

Kira si accomoda sulla sedia scricchiolante. Ettore si affaccenda intorno a un fornelletto a spirito, con una caffettiera napoletana. Il letto è in disordine, con le lenzuola sporche e arrotolate, coperto di fogli dalla fitta grafia, libri, cenere di sigaretta. 

— Sullo schermo — dice Ettore — lei manifesta una grande forza. Una sana gioia di vivere.

— Mi ha paragonata a una stella cadente.

— La stella cadente brucia, e se ha un’anima certamente è felice anche mentre cade. Al contrario di me. 

— Lei non è felice?

Sorseggiano il caffè. Caldo, aromatico, molto buono. Ettore fissa i propri occhi scurissimi, dall’iride quasi nera, in quelli chiari di lei. Non risponde alla domanda né con un sì né con un no.

— Da bambino, a Catania, sono cresciuto vicino al mare. Un mare blu come i suoi occhi, scintillante, violento. Immenso come la vita. Ne avevo paura, e nello stesso tempo provavo un desiderio morboso di affondarvi, annegarmi, annullarmi. Riesce a capirmi?

— Sì.

— Eppure, dentro di me avevo la consapevolezza di non appartenere al mare. Il mare mi respingeva. Il mare è il mondo dei vivi, con il suo movimento incessante... la storia, gli amori, i commerci, le passioni umane. La continuità della vita umana. La vita mi respinge. Sono al di fuori della vita.

— Per questo crede di essere morto?

Si sorridono. Un contatto, una vibrazione interiore, quasi tenerezza.

— Il portiere le ha mostrato le lettere — dice Ettore.

— Non ho potuto evitarlo. Mi scusi.

Ettore fa un gesto, come a dire: non è nulla. Kira evita di chiedergli scioccamente il motivo della sua infelicità. Non c’è un motivo, se non nell’infelicità stessa.

— È strano — dice — come siano le persone la cui esistenza ha più giustificazione a non trovare un senso alla vita. Lei ha moltissimo da dare al mondo.

— Anche se potessi dare di più, sarebbe sempre nulla.

Come entrare nella caverna dell’infelicità di quell’uomo? Come trovare la chiave di accesso a quello stato di morte, e convertirlo in vita?

— A che cosa sta lavorando attualmente?

— Antimateria.

— Che cos’è l’antimateria? — chiede Kira.

— Le interessa davvero?

— Terribilmente.

— L’antimateria è un mistero. Il primo fisico a sospettarne l’esistenza è stato Paul Dirac, tre anni fa. Secondo Dirac, il positrone sarebbe l’antiparticella dell’elettrone. Un anno fa, Carl Anderson ha fornito la scoperta sperimentale della sua esistenza. In parole semplici: in me, in lei, nelle stelle, in ogni cosa, esistono antiparticelle corrispondenti alle particelle che costituiscono la materia percepita dai nostri sensi. 

— Qual è la funzione dell’antimateria?

— Non si sa. Dai miei recenti studi sui conduttori magnetici mi pare di indovinare che quando la materia e l’antimateria entrano in contatto si annichiliscono emettendo radiazione elettromagnetica.

— Radiazione elettromagnetica significa... energia?

— Esattamente.

— Un’energia più potente di quella della combustione del petrolio?

— Milioni di volte più potente.

Più potente anche dell’energia nucleare, dunque. Una fonte di energia che un governo illuminato potrebbe utilizzare per creare la felicità sulla terra, e non solo sulla terra. 

— Con un’energia simile — chiede Kira — si potrebbero raggiungere anche le stelle più lontane?

— Raggiungere le stelle, o svuotare il mare.

— Mi perdoni la semplicità della domanda, ma l’antimateria si può estrarre da qualche parte o fabbricare in un laboratorio?

— In un laboratorio? Forse, un giorno... ma sarebbe estremamente difficile e dispendioso. In quanto a estrarla, non ci sono fonti di antimateria in natura. La logica indurrebbe ad aspettarsi quantità uguali e proporzionali di materia e antimateria, e la logica sbaglierebbe. Infatti, se così fosse, ci sarebbe stata un’annichilazione totale. Cioè lei, io, l’Italia, la Germania, e tutto il resto, non saremmo mai esistiti. L’assenza. dell’antimateria ha permesso la formazione dell’universo in cui viviamo. Ma anche questa assenza non è totale, c’è una piccola parte di antimateria, cioè di annichilimento, da qualche parte, come dice lei. A quale scopo, se occorreva soprattutto mantenere in essere l’universo e la continuità della vita? Questo è il mistero. 

 

Quando non lavora ai suoi misteriosi calcoli, Ettore Majorana esce solo per andare al cinema. Gli agenti dell’Abwehr che lo tengono d’occhio a Lipsia hanno riferito a Kira che non ha gusti particolari: vede tutto, ogni genere di film. Musicali, epico-storici, di propaganda politica, fantastici, d’amore. Muti e sonori. Intelligenti e idioti.

Kira lo segue un pomeriggio. Lo vede entrare in una sala in cui proiettano Der blaue Engel, L’angelo azzurro. Kira sa perché a Ettore piace ogni genere di pellicola. Il cinema è finzione ma raggiunge le corde segrete della vita. È come un grande mare che sommerge lo spettatore con la sua luce e le sue onde nel buio di una sala. Lo scienziato nato vicino al mare ne è affascinato e orripilato insieme. 

Kira attraversa la piazza. Nella veranda di un caffè è seduto Otto Dorsch, uno degli uomini incaricati di spiare Majorana. Questa sorveglianza non è giustificata tanto da attività anomale del fisico, quanto dalla possibilità che russi e americani o altri governi siano interessati al suo lavoro come lo sono i vertici dell’NSDAP, benché sia estremamente difficile che agenti stranieri possano cercare di contattarlo proprio sul territorio tedesco. Dorsch guarda l’ingresso del cinema, con occhio vacuo e annoiato. 

Kira scambia con lui un breve cenno d’intesa.

Raggiunge la cassa e compra un biglietto. Ettore non l’ha più cercata, ma la passione comune per il cinema è il pretesto ideale e fin troppo comprensibile per creare la casualità di un secondo incontro. 

Un rumore di tendaggi smossi: Ettore esce a precipizio dalla platea dopo neppure quindici minuti di proiezione. Nascosta dietro una colonna dell’atrio, Kira lo vede passare, a passi rapidi e scattanti. Ettore appare turbato, non si accorge della sua presenza. 

Forse il film gli ha procurato qualche emozione intollerabile. Ci sono momenti, per esempio la canzone di Marlene Dietrich o la follia del professor Unrat, che hanno sconvolto persone meno sensibili di lui. Un film può fare paura, a volte.

Come il mare.

Fuori, nella strada, l’istinto avverte Kira: minaccia immanente. Non è solo la sorpresa, la lieve sensazione di straniamento dovuta al comportamento di Ettore. Qualcosa non va. 

Ettore si sta allontanando verso una via laterale. La sua camminata si è fatta più lunga e ondeggiante. Non bada assolutamente a nulla intorno a sé: sembra l’incarnazione dell’espressione “avere la testa fra le nuvole”. Ma qualcuno non ha la testa fra le nuvole. Al contrario, ce l’ha ben concentrata sulla situazione presente.

Ettore è seguito.

Da qualcuno che Kira non conosce.

 

L’uomo che segue lo scienziato non appartiene ai servizi tedeschi, ma è sicuramente un professionista. Alto e dinoccolato, vestito di grigio, capelli color sabbia, si muove come un ragno. Del pedinamento conosce tutte le astuzie: l’anonimato dell’aspetto, la capacità di essere chiunque, di mimetizzarsi fra i passanti, di sfruttare tutti gli angoli, i vicoli, gli anfratti. 

Kira lancia un’occhiata verso la veranda del caffè: Otto Dorsch non è più al suo posto, che diavolo sta facendo? Imprecando, Kira si lancia sulle orme del cane da caccia alle costole di Ettore.

Il fisico italiano percorre un’arteria cittadina molto affollata. Sta calando il buio, si accendono i primi lampioni. La gente si affretta verso casa. Operai e impiegati tornano dal lavoro, signore eleganti dalle loro visite, balie dai parchi pubblici trascinandosi dietro bambini scontenti. Frotte di ragazze con i loro pacchetti degli acquisti: si ricomincia a comprare, nell’euforia del ritrovato benessere economico annunciato dal nuovo governo. Ragazzi che puntano ragazze: si ricomincia ad amoreggiare, per formare famiglie e dare figli alla grande Germania. Scie di profumi, grida, risatine, animazione festosa. 

Kira è ammirata dal modo che ha Ettore di esserci e nello stesso tempo non esserci. Probabilmente non vede nulla di quanto lo circonda. Testa bassa, ha estratto dalla tasca l’inseparabile pacchetto di sigarette e sta scarabocchiando i consueti calcoli. La sua concentrazione è totale, emana dalla sua persona in modo quasi palpabile: eppure una specie di radar interno lo avverte quando è il momento di scendere un gradino, schivare un passante, aggirare un ostacolo. Sembra un pipistrello, o un sonnambulo. 

Sicuramente, però, è del tutto ignaro dell’individuo che lo segue.

Kira continua a pedinare Ettore e il suo pedinatore, il quale appare e scompare con movimenti agili e nervosi. Per strade sempre più deserte, con passanti sempre più radi. 

Ettore si sta avviando a piedi verso la periferia, verso la zona in cui si trova il suo albergo. Esce dal suo stato di dormiveglia a occhi aperti solo quando giunge a un terrapieno dal quale si vede la distesa dei tetti della zona a nord della città. Si indovina in lontananza il suo movimento raddrizza la schiena, e prende un profondo respiro, lasciando vagare lo sguardo fino all’orizzonte costellato di una fila di luci. 

Kira non vede più l’inseguitore, confuso nelle ombre del piazzale.

Ettore comincia a scendere una scalinata. Il suo albergo non è molto lontano. Deve superare una fila di binari che conducono verso un vasto deposito coperto di tram. Un attraversamento pericoloso, a causa dei radi lampioni stradali.

Kira percorre velocemente il piazzale e si affaccia al basso muro che cinge il terrapieno. 

Sotto di lei, Ettore si sta inoltrando sui binari, attento al sopraggiungere di un tram dal fondo della strada, a un baluginare di fari, a un rumore di rotaia.

Ma ecco l’inseguitore alle sue spalle. Da dove è passato? C’è una ripida scala a chiocciola di servizio all’esterno del deposito. Dev’essere sceso da lì.

Kira non ha il tempo di gridare un avvertimento, l’inseguitore ha colpito Ettore alla testa.

L’aggressore lo sorregge come un fantoccio, lo trascina in avanti, lo stende sui binari. 

Fugge.

 

Uno stridere di ruote in frenata, uno scampanellio. Da una via laterale, in curva, sbuca all’improvviso un tram lanciato a forte velocità. Il conducente sta iniziando a decelerare, ma non potrà evitare di passare addosso all’uomo disteso sui binari.

Questione di poche decine di secondi.

Sarebbe impossibile per chiunque salvare Ettore, ma Kira è un’acrobata da circo, e una scalatrice d’alta montagna.

Con un balzo scavalca il muro lanciandosi nel vuoto; esegue una capriola nell’aria per ammortizzare la caduta. Atterra lontano dai binari, troppo lontano. Un’altra capriola, e rotola sul terreno smosso. Una buca le provoca una fitta di dolore a una spalla. 

Il rumore sferragliante si fa più vicino, sempre più vicino. Ormai le ruote sembrano inevitabilmente precipitarsi sul corpo di Ettore.

Impossibile forse anche per Kira salvarlo.

Ma c’è uno scambio, lì, a pochi passi da lei. Un attimo per studiare la figura geometrica formata dai binari: sì, se i suoi occhi e il buio non la ingannano, e comunque ormai può contare solo sulla fortuna. Si lancia e abbassa con tutto il suo peso la leva dello scambio. 

Un clangore metallico.

Binari che si saldano ad altri binari.

Appena in tempo.

Per pochi metri il tram non investe Ettore, e passa oltre.

Riacquista velocità sul terreno in leggera pendenza.

I fanali illuminano una sagoma alta e magra in corsa: l’assassino in fuga.

Un urlo, un urto dal suono ripugnante, come di un frutto schiacciato.

 

Finalmente il tram si ferma, con un rumore distorto, simile a un’agonia umana.

Kira è a terra, abbarbicata alla leva dello scambio. Vi ha picchiato contro la bocca, sente un gusto di ruggine, quasi salato, e d’olio per ingranaggi.

Ettore si sta rialzando, capelli e abiti in disordine per lo spostamento d’aria. È in piedi, ma si china nuovamente. Cerca qualcosa. Certo: il pacchetto di sigarette che teneva nella mano, sfuggito durante l’aggressione. Solamente i suoi calcoli per lui sono importanti.

La sua attenzione è attratta da grida e imprecazioni.

Il conducente del tram corre e salta intorno ai binari dietro la vettura, guarda qualcosa di indistinguibile che giace a terra. 

Luci si sono accese nelle case intorno. Gente sta uscendo in strada per vedere che cosa è successo.

Ettore si avvicina al conducente del tram. Dalla sua posizione, Kira lo osserva. Il fisico rimane per lunghi attimi immobile, a fissare i binari. Una gamba del suo aggressore è visibile, in una posizione innaturale, come se fosse stata troncata e scaraventata più indietro. Ettore si passa una mano sui capelli, sul volto. È come se stesse ragionando su un problema. 

Poi, quando arrivano i curiosi, affamati di sangue e di raccapriccio, si dilegua.

Kira si mescola abilmente a loro; abilmente raccoglie quello che nessuno ha notato: il portafogli di Ettore. L’aggressore lo aveva preso, probabilmente per simulare una rapina. Uno straniero viene aggredito e derubato; sciaguratamente cade sui binari, è travolto da un tram di ritorno al deposito. Ben congegnato. Forse preparato da tempo, attuato quel giorno per un concorso di circostanze favorevoli. 

Sporgendosi oltre le teste dei curiosi, Kira vede l’assassino di Ettore. Solo la gamba troncata e la faccia sono interi. Un volto grigio, cadente, acido, dal naso lungo, la bocca larga. Somiglia a un prete. Il resto è una poltiglia di sangue, stracci, grumi di sostanza biancastra oppure polposa, come carne trita. Il fetore è insopportabile. 

Il conducente del tram piange e si autocompatisce, ripetendo che non sa come è successo, e non è colpa sua.

Le donne uggiolano, orripilate e deliziate.

Qualcuno parla di chiamare la polizia.

Kira volta le spalle e ritorna sui suoi passi.

 

Sul terrapieno incontra Otto Dorsch, impaurito come un cane da guardia che non ha fatto il suo dovere e teme le botte.

— Tutto bene — lo rassicura Kira. — Hanno tentato di uccidere Majorana, ma il colpo è fallito. Purtroppo l’attentatore è morto, non possiamo farlo parlare. Si può sapere dov’era lei? 

— Io ero... Mi sono distratto un attimo... Non pensavo che lui uscisse dal cinema... Mi sono allarmato solo quando l’ho vista che correva in fondo alla piazza. Non lo dica ai superiori, per favore. Mi sono solo... distratto un attimo. 

Ha paura di essere spedito in provincia, magari in qualche sperduto posto di frontiera. 

Dorsch è un uomo alto e ben piantato, ma con il ventre leggermente prominente. Sa picchiare duro, se occorre, ma nel tempo libero fa il giardiniere. Grande onestà e affidabilità, però gli piacciono troppo i dolci.

— Strudel di mele. — Kira raccoglie dal bavero della sua giacca una briciola soffice, leggermente appiccicosa. — L’umanità ha rischiato di perdere un genio perché lei aveva voglia di mangiare una pasta. 

— Non lo dica, la supplico.

 

Kira ordina a Otto di seguirla. Con la macchina di lui raggiungono l’albergo di Ettore, in tempo per vedere il fisico rientrare sano e salvo. 

Otto tira un sospiro di sollievo. — Non lo dica ai superiori, Fräulein von Durcheim. Non mi era mai successo. Non lo farò mai più. 

— Vedremo. Adesso venga con me.

Si appostano nel vicolo dove si trova l’uscita di servizio dell’albergo. Poco dopo vedono uscire il portiere di giorno, che ha finito il suo turno di lavoro.

Mentre Otto rimane in ombra, Kira gli si para davanti, con un sorriso minaccioso che l’uomo interpreta come un invito.

— Lo sapevo. Lo studioso non vale niente, ti ha delusa, e hai deciso di spassartela sul serio. Hai trovato il tipo giusto.

— Sì, ho trovato il tipo giusto.

Kira gli assesta due ceffoni secchi e tanto rapidi da non lasciargli neppure il modo di respirare. Poi, con uno sgambetto, lo fa crollare a terra. Lo colpisce con un calcio al mento, poi ai testicoli, e ancora in faccia.

A un suo cenno, Otto lo solleva come un sacco, reggendolo per le braccia.

— Tu aprivi le sue lettere — afferma Kira.

Ha ricordato la busta chiusa male di una delle missive di Ettore. Non per distrazione dello scienziato: era stata aperta, scollata col vapore, e poi richiusa. E il portiere era l’unico a ficcanasare nella sua posta in arrivo e in partenza. 

— Tu leggevi le sue lettere. Perché? Chi ti ha chiesto di farlo?

Il portiere ha gli incisivi superiori spezzati, un buco di sangue fra le labbra tumefatte. — Non... non lo so il perché — balbetta. 

— Non t’importava? Ti frega solo che ti paghino, vero? Ti hanno pagato bene? Chi ti ha pagato?

— Non lo so chi sono! Mi hanno pagato per spiarlo, leggere le sue lettere e riferire... Non lo so chi sono, mi faccio gli affari miei. Ma è da giorni che non si fanno più vivi. Mi devono ancora dei soldi. 

 

Kira concorda con Otto Dorsch i prossimi movimenti, grazie ai contatti efficienti e collaborativi fra la polizia e i servizi segreti dell’esercito.

Condurre il portiere in una caserma per interrogarlo più a fondo e cercare di sapere di più sulle persone che lo pagavano.

Scoprire l’identità dell’aggressore di Ettore Majorana, da dove veniva, per chi lavorava e perché. 

Fare in modo che la polizia faccia riavere a Ettore il portafogli: organizzazione tedesca. 

Lasciato un altro agente a sorvegliare l’albergo, Kira passa velocemente nei bagni di un vicino ristorante per ripulirsi delle tracce di terriccio, riordinare gli abiti e rifare il trucco.

Poi torna da Ettore, bussa alla sua porta.

— È aperto.

Lo scienziato non sembra per nulla stupito di vederla, come se si fossero dati un appuntamento senza parole. Come se fosse scontato che lei debba trovarsi lì in quel momento.

È sdraiato sul letto, alla luce di un piccolo abat-jour, gli occhi al soffitto. Comincia a parlare come se non si fossero mai separati dall’ultima volta.

— Mi hanno derubato e ho rischiato di morire. Un tale mi ha colpito alla testa e mi ha preso il portafogli. L’ho visto bene in faccia, prima di svenire. Quando mi sono ripreso, lui era stato investito da un tram. Mentre attraversavo la zona davanti al deposito i binari erano paralleli. Il tram avrebbe dovuto passarmi addosso... Qualcuno ha manovrato uno scambio, perché dopo il binario era in diagonale. Sono vivo per caso. Lei ci crede, nel caso? 

— No. Io credo che nulla avvenga per caso.

— Allora crede in una volontà superiore che manovra le cose, decidendo chi deve essere conservato e chi deve morire.

— Sì. Credo proprio in quello che ha detto lei. Qualcuno compie delle scelte.

— Allora, chi ha manovrato quello scambio lo ha fatto intenzionalmente, per salvarmi. Non mi riferisco a una persona, ma alla forza che dirige l’Universo, attraverso le cose e le persone. È strano. Sono vivo per il movimento di una leva. 

«E non solo per quello» pensa Kira. «Tu non puoi sospettare per quante e quali ragioni sei vivo. Per il fatto che oggi proiettavano L’angelo azzurro, e che io ero là. Altrimenti lo strudel di mele di Otto Dorsch avrebbe decretato la tua fine. Per l’emozione che ti ha fatto uscire in anticipo, altrimenti non avrei individuato il tuo attentatore, e quello avrebbe potuto colpire in un altro momento, quando io non sarei stata lì a proteggerti. Per non parlare di tutta la catena di avvenimenti che mi ha portato a diventare una spia e incrociare la tua strada. Per non parlare dell’intreccio dell’Universo, ma di quello dovresti capirne più di me, se i calcoli con cui cerchi di decifrarlo sono esatti.» 

 

Con la stessa naturalezza di lui, Kira si spoglia e lo spoglia. Non perché sia suo dovere sedurlo: del resto quell’uomo, lei lo ha capito, è poco o nulla interessato al sesso.

Arrivata a quel punto, è lei che lo desidera.

Lui l’accoglie con una specie di partecipazione fraterna, di compassione. Sono divisi e forse intimamente irraggiungibili, ma quello è un modo di avvicinare di poco i lembi lacerati e sanguinanti delle rispettive ferite. 

Lei spegne la luce e per lunghe ore, senza stancarsi, lo lavora come il mare farebbe con un ciottolo, fino a dargli e darsi piacere.

Dopo, riposano abbracciati. Nessuno dei due ha voglia di sciogliersi, di alzarsi.

— Resta in Germania — dice Kira.

— Mi piacerebbe restare con te più di ogni altra cosa al mondo, credimi. Ma tu hai una immensa fede nella vita, e la vita non è per me. Finiresti per odiarmi.

Kira gli parla sottovoce, dolcemente, all’orecchio. Il fiato sul suo collo.

— Ascolta. Non puoi dire che la vita non è per te. La vita ti prende anche se non lo vuoi, ci prende tutti. Sei costretto a vivere, nonostante tutto. Io, nel fondo della mia anima, sono come te, perciò ti conosco. L’unica cura, l’unica salvezza per le persone come te è il lavoro. Immergiti nei tuoi studi. Vai fin dove puoi arrivare.

— E dove posso arrivare?

— Se resti in Germania, ti verrà dato tutto quanto desideri per sviluppare il tuo genio e compiere le tue ricerche. Denaro, laboratori attrezzati, strumenti scientifici all’avanguardia. 

È la prima volta che Kira allude velatamente al proprio ruolo e a una proposta concreta da parte del suo governo. 

— Qui hai trovato persone che ti comprendono e ti sono amiche. A parte me e il professor Heisenberg, molti altri. Non immagini quanti, in Germania, conoscono il tuo valore e ti ammirano.

— Sì — sospira Ettore. — È vero. Mi avete accolto con molto... slancio.

— Allora, ti lascerai aiutare?

— Non è questo il problema.

Ettore si sottrae finalmente all’abbraccio, si volta e affonda la faccia nel cuscino.

— Certo, voi potreste mettermi a disposizione mezzi e risorse che in Italia non avrò mai. Potrei procedere più rapidamente nei miei studi... Ma voi mi offrite solo la materia. Volete fare grande la Germania, dominare la terra e forse volare sulle stelle... ma tutto questo a me non interessa. È solamente illusione. E neppure tu puoi attirarmi dentro la vita, perché un giorno sarai tradita, come tutti, nelle tue illusioni. 

— No, Ettore, ti sbagli.

Kira si incolla rabbiosamente alla sua schiena. Sa che non potrà dire niente per convincerlo, ma non rinuncia a esprimere quello che sente.

— Come te, ne nascono pochi in un secolo, forse in un millennio. Le persone come te hanno il potere di fare che le illusioni non vengano tradite, di realizzare i sogni dell’umanità. Invece rinunciate... e rinunciare, quando si hanno i tuoi doni, è un delitto. 

— Tu parli di potere... Ma noi non abbiamo nessun potere. Il tuo governo, i governi del mondo... non hanno nessun potere. Tutto contiene questo piccolo vortice di nulla, l’antimateria. Il contrario della materia, dell’universo in cui ci agitiamo. Questa sera sono quasi morto davvero. Non mi è mai importato niente di vivere o morire, ma stasera ne ho avuto il sentimento definitivo, quando ho visto quell’uomo maciullato sui binari. Ho pensato che avrei potuto essere al suo posto, e che in fondo sarebbe stato lo stesso. Io appartengo all’antimateria. Ne sento il richiamo da sempre. Allora, se veramente ho dei doni straordinari, la mia missione è scoprire che cos’è. Scoprire il velo del mistero dell’universo sensibile, e di quello che non è l’universo. Con l’indagine scientifica e la ragione. Capisci? 

Sì, Kira capisce. Ettore sta parlando semplicemente di Dio.

 

Otto Dorsch a rapporto nella sala in cui proiettano L’angelo azzurro. Ha svolto un ottimo lavoro, dopo tutto. 

— L’uomo che ha tentato di uccidere Ettore Majorana si chiamava Arnold Krauss. Un tedesco, originario di Monaco. Era legato a un’organizzazione antinazista, un gruppo pericoloso e molto attivo qui a Lipsia. Bolscevichi. Avevamo smantellato tutta l’organizzazione negli scorsi mesi, gli ultimi membri li abbiamo arrestati e interrogati pochi giorni fa. Ora sono tutti rinchiusi in un campo di lavoro. Krauss, denunciato da uno dei compagni, era l’unico rimasto latitante. 

— Allora ha agito da solo, di sua iniziativa?

— Il suo gruppo spiava lo scienziato italiano; intercettavano e leggevano le sue lettere. Pare che il professore, scrivendo alla madre, a parenti e amici, avesse manifestato simpatie filonaziste. Erano convinti che avrebbe lavorato per il Reich, e avevano preso la risoluzione di eliminarlo piuttosto che permettere che le sue capacità venissero poste al nostro servizio. Quando Krauss si è trovato isolato ha pensato di portare a termine da solo l’ordine di esecuzione. Era un fanatico. 

Tedeschi antinazisti, logico. Agenti stranieri avrebbero piuttosto tentato di rapire Majorana, o allettarlo con offerte migliori, ma non avrebbero mai pensato di spedirlo nell’antimateria, distruggendo un talento così prezioso.

È una beffa divina che quel povero stupido di prete bolscevico, assassino mancato, sia morto per niente. Per quanto gli piaccia l’organizzazione tedesca, Majorana non lavorerà mai per il Reich.

Dopo essersi rivestita ed essere tornata al proprio albergo, all’alba di quell’unica notte passata con Ettore, Kira ha avuto una lunga conversazione telefonica con Rudolf Hess. Gli ha spiegato che il fisico italiano è perduto per la Germania, ma anche per il resto del mondo e per se stesso. Essendo un mistico, il suo campo di ricerca non condurrà mai a scoperte utili per gli scopi di nessun governo. La sola cosa da fare è rispettare le sue scelte e il suo destino, e lasciarlo andare. 

— Allora, non racconterà di quella storia dello strudel di mele? — domanda ansioso Otto. 

— No, non la racconterò. Ma lei si faccia assegnare a un incarico più tranquillo.

— Mi hanno offerto un posto in uno di quei campi di lavoro dove mandano i dissidenti e i comunisti. 

— Lo accetti.

In un campo di lavoro non potrà fare troppi danni, pensa Kira.

Brav’uomo, Otto Dorsch.

Sullo schermo, il professor Unrat si rende ridicolo correndo dietro a Marlene Dietrich. 

 

Cinque anni dopo, nella primavera del 1938, mentre Werner Karl Heisenberg è alla guida del programma nucleare tedesco sotto il regime nazista, e sta cercando di costruire la bomba atomica che deciderà delle sorti della guerra, Kira apprende che Ettore Majorana non è più di questo mondo. 

Non lo ha più rivisto, ma ha avuto sue notizie da lontano. Sa che al ritorno a Roma Ettore non ha più frequentato l’Istituto di Fisica di via Panisperna, che la sua depressione è peggiorata. Che non ha più voluto vedere i vecchi amici, trascorrendo settimane chiuso in casa al buio, spesso trascurando di lavarsi e mangiare, immerso in oscuri studi di cui nessuno è mai venuto a capo. Sa che nel 1937 è stato nominato professore di Fisica teorica all’Università di Napoli, ma non ha amato l’insegnamento né la burocrazia accademica. Era sempre più eccentrico e umorale, sempre più distaccato dalla vita. 

Il 25 marzo 1938 Ettore Majorana è partito da Napoli con un piroscafo della società Tirrenia per trascorrere una breve vacanza di due giorni a Palermo. Prima di partire ha scritto alcune lettere alla famiglia e agli amici per annunciare la sua imminente scomparsa. Da quel momento, di lui non si è saputo più nulla. 

Sulla scomparsa di Majorana si faranno ogni genere di congetture. Diranno che ha voluto suicidarsi in mare, ma le ricerche non hanno dato alcun esito. Diranno che è diventato un vagabondo straccione che girava per la Sicilia dando lezioni di fisica per strada. Diranno che, influenzato dall’educazione ricevuta dai gesuiti, ha voluto seguire la via monastica e ritirarsi in un convento. Che è tornato in Germania a lavorare con i nazisti per poi far perdere le sue tracce successivamente in Argentina. 

Kira ha un’altra idea. Un’idea che le si riaffaccerà alla mente quando, nel 1959, Emilio Segrè insieme a Owen Chamberlain scoprirà l’antiprotone, e riceverà il premio Nobel. E quando, nel 1965, un gruppo di ricerca condotto da Antonino Zichichi scoprirà il primo nucleo di antimateria. 

Forse Ettore ha avuto veramente intenzione di morire in mare, ma poi le cose devono essere andate diversamente. Con il suo genio anticipatore non si accontentava di scoprire l’antimateria. Lui voleva raggiungerla, ed è possibile che fra una stringa di calcoli e l’altra abbia veramente trovato l’accesso a quello che non è l’universo sensibile. 

Ettore avrebbe perciò visto il volto di Dio.

Un’esperienza da cui non si torna indietro.

Il mito più antico dell’umanità, la conoscenza del Grande Mistero attraverso gli strumenti dell’intelletto e della ragione.

Forse è andata così.

Forse.

L’unica certezza è che se Kira potesse leggere la lettera spedita da Ettore prima della sua scomparsa all’amico Antonio Carrelli, docente di Fisica sperimentale a Napoli, saprebbe interpretare il senso di un’enigmatica frase: «Il mare mi ha rifiutato».