Dili Overnight
Mercoledì
Prima ancora che il decrepito 737 andasse ad arrestarsi di fronte alla palazzina che serviva da terminal dell’aeroporto di Dili, i passeggeri avevano già cominciato ad alzarsi fra l’indifferenza delle assistenti di volo indonesiane. Il portello si aprì e un’ondata di aria torrida invase la cabina. Avevo trovato posto in coda e fui tra gli ultimi a lasciare l’aereo. Uscii sulla scaletta e mi trovai in un inferno bianco di polvere.
Il timbro delle Nazioni Unite che mi stampigliarono sul passaporto mi informava che sarei potuto restare nel più giovane paese del mondo per cinque giorni. Uscii dalla palazzina e mi feci strada fra pattuglie di soldati neozelandesi in tuta mimetica e nugoli di bambini che si offrivano di guidarmi al migliore e più economico albergo della città. Mi avvicinai a un sikh in turbante con la divisa di sergente dell’esercito di Singapore che teneva in mano un cartello con la scritta JOBERT.
— Signor Jobert? — disse. — Benvenuto a Timor Est. Sono il sergente Singh.
Ci stringemmo la mano e partimmo su una Nissan azzurra. Il traffico era inesistente se non per i convogli di Land Rover o pickup Toyota dipinti di bianco e appartenenti all’uno o all’altro dei vari contingenti che formavano la forza di pace multinazionale. Ai due lati della strada, sulla campagna arida coperta di polvere sottile come talco, grandi cartelli offrivano stanze ricavate dalla partizione di container a quaranta dollari americani per notte.
— Come sta il prigioniero? — chiesi.
— Non sembra che se la passi troppo male. Se non altro ha smesso di lamentarsi.
Restammo in silenzio mentre entravamo nella città ancora straziata dagli incendi appiccati dall’esercito indonesiano al momento di ritirarsi, dopo che la stragrande maggioranza della popolazione di Timor Est aveva votato a favore dell’indipendenza nel referendum imposto dalla comunità internazionale.
Il sergente Singh mi lasciò al Central Maritime Hotel assicurandomi che sarebbe tornato a prendermi nel giro di un’ora. L’albergo, ricavato dalla conversione di una nave da crociera, era l’unico alloggio di un certo conforto sopravvissuto alle violenze e ai saccheggi. Salii nella mia cabina, mi feci una doccia, indossai un paio di pantaloni beige, una camicia di cotone blu a maniche corte e mocassini marroni. Ordinai un gin tonic e mi sedetti vicino all’oblò a guardare i gabbiani volare bassi sul pelo delle onde e a fumare la prima della razione di tre Camel al giorno che da qualche tempo mi ero imposto.
Il comando dell’unità singaporeana di intervento a Timor era alloggiato all’interno di ciò che rimaneva di una scuola elementare. Il colonnello Robert Koh, comandante del contingente, mi stava aspettando in quello che doveva essere stato l’ufficio del direttore della scuola. Un’ampia scrivania coperta di carte, un laptop, una stampante laser, due telefoni. I nostri sguardi si incontrarono.
— Benvenuto a Timor Est, signor Jobert. — Aveva pronunciato il nome con marcata ironia e ne aveva tutti i diritti. Koh era stata una delle prime persone con cui avevo avuto una relazione sociale normale dopo i due anni trascorsi nel carcere di massima sicurezza di Jurong. Avevamo frequentato insieme il corso d’addestramento tenuto da istruttori israeliani che ogni componente operativo del JID è tenuto a superare e che mi aveva fruttato il diritto a indossare il berretto rosso da ranger.
— Accomodati, Oliver — aggiunse Koh dopo un attimo, decidendo di piantarla fin dall’inizio con la pagliacciata di fingere di credere alla mia copertura e usando il mio vero nome.
Mi sedetti di fronte alla scrivania. — Come va, Bob?
— Come vuoi che vada? Mantenere la pace fra le varie fazioni timoresi proteggendole allo stesso tempo dalle bande di guerriglieri pro Indonesia che ancora infestano le campagne, senza irritare il governo di Giacarta, è già un obiettivo delicato. Sentivo il bisogno di ulteriori complicazioni quanto di cavarmi un dente sano.
Non potevo dargli torto. L’incidente che mi aveva portato a Timor era la tipica situazione nata dal nulla e suscettibile di degenerare in una crisi diplomatica esplosiva; e Koh era un militare, impegnato nella più critica delle missioni a cui un militare può essere assegnato fuori dai confini nazionali: il peacekeeping. Che troppo spesso significa interporre i corpi dei propri soldati, vincolati da severe regole di ingaggio, fra due o più fazioni armate alle quali delle regole di ingaggio non gliene può fregare di meno e il cui odio reciproco è inferiore solo a quello che provano verso gli stranieri che hanno invaso il loro paese per impedirgli di continuare a trucidarsi l’un l’altro.
— Dove è il nostro uomo? — chiesi.
— Ancora nel contingente portoghese. Ha pestato pesantemente i calli a Lourenço da Silva e io non ho abbastanza uomini da garantire la sua sicurezza. Non so se mi spiego.
Si spiegava eccome. Nelle ultime ore avevo digerito abbastanza informazioni su Timor Est da sapere che Lourenço da Silva era un ex comandante del Fretilin, il Fronte timorese di liberazione nazionale, che godeva ancora di un vasto seguito nelle province, cosa che gli consentiva di controllare il mercato della droga, della prostituzione e del gioco d’azzardo su gran parte del territorio.
Tutto era cominciato un paio di settimane prima, quando una pattuglia della polizia militare portoghese era intervenuta per sedare una rissa in un bar, dove una mezza dozzina di timoresi ubriachi era intenta a massacrare a calci e pugni un presunto colombiano il quale, dal canto suo, stava facendo del proprio meglio per vendere cara la pelle. La rissa sembrava essere nata da una discussione fra il colombiano e un magnaccia locale sul compenso richiesto in cambio dei servizi di una matura puttana giavanese. Nel tentativo di dare maggior risalto alle sue parole, il sudamericano aveva letteralmente aperto la cassa toracica del magnaccia a mani nude, cosa che non era stata particolarmente apprezzata dai suoi compari. I portoghesi avevano efficacemente risolto la questione arrestando il colombiano, mossa che, per quanto non gradita dal diretto interessato, gli aveva se non altro salvato la pelle.
Il mattino successivo la questione aveva cominciato a complicarsi. In linea di principio, l’UNTAET, ovvero la United Nation Transitional Administration in East Timor, aveva il potere di incriminare e giudicare il prigioniero, sulla cui identità erano però sorti alcuni dubbi. Il suo passaporto colombiano si era rivelato falso. A quel punto l’uomo aveva cambiato la propria storia sostenendo di essere un argentino fuggito dal suo paese ai tempi della Guerra delle Falkland per evitare il servizio militare; ma anche questa versione si era incrinata quando un ufficiale portoghese sposato con un’italiana aveva creduto di cogliere una traccia di accento familiare nelle parole del prigioniero. Insospettito, ne aveva trasmesso fotografia e impronte digitali all’Interpol.
Nel giro di poche ore l’uomo era stato identificato come Giampiero Russo, cinquantatré anni, ex militante di un movimento rivoluzionario responsabile di alcuni attentati nei tardi anni Settanta. Già condannato in Italia per diversi atti di terrorismo, fra cui l’assassinio di un commissario di polizia a Firenze e l’incendio della sezione di un partito italiano di estrema destra in cui erano morti due bambini, Russo era evaso pochi mesi dopo la sentenza e fuggito prima in America latina, poi in Corea del Sud, dove aveva fatto perdere le sue tracce. La notizia che dopo un quarto di secolo il terrorista era finalmente stato catturato era stata salutata con entusiasmo dal governo italiano che ne aveva chiesta l’immediata estradizione.
Ma a complicare le cose, un professore di filosofia dell’Università di Genova aveva scritto un pamphlet sul maggiore quotidiano del paese dichiarando che il presunto terrorista, nonostante fosse stato riconosciuto colpevole in tre regolari processi nei quali era stato difeso da ottimi avvocati, era in realtà totalmente innocente, vittima di una nefanda congiura tessuta dalla CIA, dal Vaticano e dalle multinazionali.
Come voleva la tradizione, il paese si era subito spaccato in due fazioni contrapposte, entrambe graniticamente convinte delle proprie tesi. Al governo in carica, che al solo pensiero di venire accusato di debolezza nella lotta contro il terrorismo si faceva prendere dalle convulsioni, non era rimasta altra scelta che irrigidirsi nella richiesta che la “belva umana”, come certi media avevano ribattezzato il prigioniero, fosse immediatamente riportata sul suolo nazionale per scontare la sua condanna.
Nel frattempo, dall’altro lato del pianeta; il prigioniero aveva nuovamente cambiato versione, sostenendo ora di essere cittadino di Singapore. Il comandante del contingente singaporeano aveva fatto sapere che della faccenda la repubblica di Singapore se ne lavava bellamente le mani; ma nel giro di poche ore era stato smentito dal suo stesso ministro degli Esteri, il quale aveva dichiarato che il paese era pronto a prendere in consegna il prigioniero e a riportarlo a Singapore, dove sarebbe rimasto in custodia fino a quando dall’Italia non fosse arrivata la domanda d’espatrio. Dopo di che, se tutto fosse risultato in ordine, sarebbe stato consegnato alle autorità italiane.
E così Russo era rimasto in custodia del contingente portoghese, in attesa che da Singapore qualcuno venisse a prenderlo.
Nel frattempo ero stato convocato dal generale Tan, Director-General della sezione G2 del JID e mio diretto superiore, il quale mi aveva ufficialmente assegnato l’incarico di andare a Dili e prendere in consegna il prigioniero, impartendomi dettagliate istruzioni su tutti gli aspetti della missione. Quindi ero passato da casa, avevo riempito di fretta una valigia, ero andato all’aeroporto di Changi e mi ero imbarcato sul volo Singapore Airlines delle 17.25 per Bali, dove avevo trascorso la notte. Il mattino successivo, alle dodici, avevo preso il volo giornaliero della Merpati per Dili: per chi viene da ovest, l’unico modo di raggiungere Timor.
Guardai Koh.
— Mi dispiace, Bob, ma il mio capo non è più felice di te nel trovarsi tra le mani questa faccenda. E non lo sono nemmeno io. Scortare un prigioniero su un volo di linea non è esattamente quello che avevo in mente quando da ragazzo pensavo al mio futuro.
L’espressione di Koh si raddolcì un po’. — D’accordo, Oliver. Smettiamola di perdere tempo e vediamo di fare il nostro dovere nel migliore dei modi. I documenti sono in ordine?
Annuii, sfiorando la valigetta.
— Bene. Domattina andremo da de Mello a farci firmare l’autorizzazione al rilascio. Stasera sono occupato, ma prima della tua partenza dobbiamo assolutamente pranzare assieme. Vuoi che ti faccia riaccompagnare?
Tornai in albergo e andai direttamente al bar sul ponte, dove ordinai uno scotch, con acqua e ghiaccio a parte. Il sole era appena scomparso dietro le colline. Restai appoggiato al parapetto a guardare il mare nella luce che scemava rapidamente. Di lì a poco arrivò una donna sulla trentina, dal viso attraente, capelli scuri, abito nero con gonna al ginocchio e tacchi alti. Andò a sedersi al banco. Mormorò qualcosa al barista, che dopo aver armeggiato con le bottiglie e lo shaker le mise di fronte un bicchiere alto pieno di un liquido chiaro. La donna alzò il capo e per un attimo il suo sguardo si bloccò nel mio.
C’erano due cose di cui in quel momento non avevo nessuna voglia. La prima era di passare la sera da solo in quel frammento di terra disperso nel mar della Sonda. La seconda, di lasciarmi coinvolgere in una storia con una donna.
Il che era un’aperta contraddizione, se mai ne avevo vista una.
Suoni soffocati risuonavano nell’aria umida. Pipistrelli grossi come tacchini apparivano a tratti nel fascio di luce delle lampade per poi sparire nel buio. Rivolsi di nuovo gli occhi alla donna. Non mi stava guardando ma ero convinto che l’avesse fatto fino a un attimo prima. Si portò il bicchiere alle labbra e lo scolò con studiata indifferenza.
Feci cenno al barista che gliene preparasse un altro. Versò gin, succo di limone e ghiaccio in uno shaker, agitò e glielo servì.
Sembrò sorpresa. Il barista le sussurrò qualcosa. Lei voltò il capo verso di me e abbozzò un sorriso. Il vestito le lasciava le spalle scoperte. Al collo portava una collana di perle. La gonna le era scivolata a metà coscia scoprendole gambe affusolate. Mi staccai dal parapetto e andai a sedermi al suo fianco.
— Da sola a Dili? — chiesi.
Il sorriso svanì. Non era semplicemente attraente ma qualcosa di più. Pelle leggermente olivastra, naso affilato, occhi verdi circondati da rughe sottili e labbra carnose, tirate all’indietro in una smorfia di sfida verso il mondo intero.
— Perché vuole saperlo?
— Semplice curiosità. Lei, qui, non c’entra nulla. Questo non è il posto dove ci si aspetterebbe di trovare una bella donna, sola, in un bar, al tramonto.
Mi studiò a lungo, fissandomi con uno sguardo che voleva essere ironico ma in cui lampeggiavano scintille di furia repressa.
— Il mondo è cambiato — disse. — Una volta bastava dire “Cosa ci fa una ragazza come te in un posto come questo?”. Non sarebbe stato più semplice presentarsi?
Non riuscii a evitare di sogghignare, — Il mio nome è Oliver. Ollie per gli amici.
Non le offrii la mano. La sua restò fermamente stretta attorno al bicchiere.
— E il mio, Farida.
— Be’, Farida, qualsiasi cosa stia facendo qui, non ti si addice.
— Ah sì? E tu? Anche tu stai facendo qualcosa che non ti si addice?
Mi guardai attorno. A parte il barista non si vedeva nessuno sul ponte. In fondo al molo un camion avviò il motore, accese i fari e partì, scomparendo oltre i fabbricati del porto.
— No. Non credo proprio.
— Strano. Questo è l’ombelico del mondo e nessuna persona normale ha diritto di trovarcisi. Salvo missionari, contrabbandieri e puttane. E non mi sembra che tu appartenga a nessuna di queste categorie.
— Dimentichi i soldati e il personale dell’ONU.
Quella specie di collera repressa continuava a brillarle negli occhi e mi trovai a chiedermi sul serio cosa diavolo ci facesse in quel buco nero di paese, non ancora emerso del tutto da vent’anni di occupazione militare e guerriglia che avevano causato il massacro di un quarto della popolazione.
— Quei maledetti parassiti? Non li dimentico. Ma quelli restano chiusi nei loro ghetti, non li incontri in giro. — Mandò giù un altro sorso di gin tonic, accavallò le gambe e tornò a guardarmi. La gonna le risalì lungo la gamba di un altro paio di centimetri. — Da dove vieni?
— Singapore. Immagino che nemmeno tu lavori per le Nazioni Unite.
— No, sono solo in transito. Non ci sono molti voli che arrivano a Dili e non ce ne sono molti che se ne vanno. Per cui, se uno vuole semplicemente cambiare aereo e proseguire per un’altra destinazione, il più delle volte è obbligato a passarci almeno una notte. — Fece una smorfia di sprezzo. — Dili overnight: decisamente una prospettiva poco allettante.
— Dove sei diretta?
— A Darwin, che è il posto dove vivo ormai da vent’anni, anche se sono di origine siriana. Sono arrivata oggi da Bali, dove ero stata a trovare un’amica. Domani me ne torno a casa.
— Oh. Dovevamo essere sullo stesso aereo. Anch’io sono arrivato oggi da Bali.
— Lo so. Ti ho notato quando sei salito a bordo.
— Davvero? Non posso credere di non averti notata io.
— Il tuo tentativo di essere galante verrà tenuto nella dovuta considerazione.
Continuai a guardarla. Stavo ricevendo sensazioni diverse e contrastanti. La donna mi piaceva, ma un vago segnale d’allarme aveva preso a risuonarmi a tratti nella mente. Poi una traccia di malizia le brillò sul viso e tutti i miei pensieri vennero spinti via dal desiderio soffocante di prenderla fra le braccia e possederla. Lì, subito.
Doveva essersene accorta perché l’espressione le si fece guardinga. Mandò giù quello che rimaneva del suo drink in un lungo sorso e si alzò. Si passò il palmo della mano sulla gonna per cancellarne le pieghe, si spinse indietro i capelli e abbozzò un sorriso di sfida.
— Ora devo andarmene — disse.
— Sicura? Perché invece non ceniamo assieme?
Il sorriso le sparì dal volto. Scrollò il capo e si allontanò, facendo risuonare i tacchi sul ponte e ancheggiando leggermente. Il mio sguardo le restò incollato mentre si allontanava. Aveva spalle e fianchi larghi, ma una vita molto sottile.
Giovedì
Il mattino successivo passò a prendermi il sergente Singh e mi portò da Koh, che mi offrì un caffè. Restammo a chiacchierare amabilmente per una decina di minuti, poi Koh prese il telefono e disse al suo aiutante di far portare l’auto. Uscimmo. Pochi secondi più tardi una Toyota Corolla ci si materializzò di fronte. Koh congedò l’autista e si mise personalmente al volante.
Venti minuti dopo eravamo nell’edificio che aveva ospitato il governatore ai tempi in cui Timor Est si chiamava ancora Tim-Tim e formava la ventisettesima provincia dell’impero indonesiano, e dove ora l’amministratore capo dell’UNTAET, il brasiliano Sergio Vieira de Mello, aveva stabilito il suo quartier generale.
— La questione è alquanto irregolare, signor Jobert — disse de Mello scuotendo il capo e alzando gli occhi dai documenti che Koh gli aveva dato. — Ma la richiesta che il vostro governo ha presentato alla nostra sede a New York è stata approvata in tempi insolitamente brevi. Sembra che il vostro ex primo ministro abbia amici influenti a Washington DC.
Non feci commenti. Non era un mistero per nessuno che Lee Kwan Yew, padre fondatore di Singapore e premier per oltre trent’anni, nel corso della sua carriera aveva fatto abbastanza favori agli americani da accumulare un credito inestimabile.
De Mello sospirò e schiacciò un tasto dell’interfono.
— Signore? — gracchiò una voce femminile.
— Mi mandi Varijanti.
Un minuto più tardi entrò un indiano. De Mello spinse verso di lui i documenti e ritrasse di scatto la mano come fossero contaminati.
L’indiano gli diede appena un’occhiata. — Venite con me — disse.
Guardai de Mello, ma il capo supremo dell’UNTAET si era immerso nella lettura di un enorme fascicolo. Probabilmente qualche nuova procedura riguardante il generoso piano pensionistico dello staff ONU.
Seguimmo l’indiano che ci condusse nel suo ufficio, dove verificò il mio passaporto e la mia lettera di accredito, picchiettò a lungo sulla tastiera del suo PC, aspettò che i fogli venissero stampati e me li fece firmare.
— Il lasciapassare sarà pronto domani pomeriggio dopo le tre e mezzo. Le consiglio di essere puntuale perché i nostri uffici chiudono alle quattro in punto.
Scambiai un’occhiata con Koh, che annuì, poi ce ne andammo.
Koh mi lasciò al comando operativo del contingente portoghese forte di tremila unità. A differenza del nostro, era alloggiato in un grande palazzo a tre piani. Fui ricevuto dal comandante in capo, il generale Manoel Carvalho Da Ponte. Lesse le mie credenziali, disse qualche parola su come l’Occidente stava sfuggendo al suo destino manifesto in Asia e mi assegnò alle cure del suo aiutante di campo. Questi mi accompagnò in un edificio prefabbricato, dove mi chiese di aspettare in una stanza in cui non c’era altro che un tavolo di formica, un attaccapanni e quattro sedie.
Il condizionatore soffiava aria gelida. Ero seduto da meno di cinque minuti quando due MP condussero Russo nella stanza. Indossava pantaloni e maglietta grigi ed era ammanettato. I militari gli tolsero le manette e uscirono.
Era passato quasi un anno da quando avevo visto Russo l’ultima volta, e non era stata un’occasione che amavo ricordare. Mi fissò con uno sguardo insolente, un sorrisetto ironico sulle labbra.
— Guarda un po’ chi si rivede. Il mio angelo custode preferito: Oliver McKeown, detto Banshee. Come mai non sono sorpreso?
Non attese risposta e andò a sedersi a cavalcioni su una sedia. Aveva un brutto livido blu sotto l’occhio sinistro e dalla cautela con cui si era mosso era chiaro che il torace o la schiena gli dolevano.
— Ti hanno maltrattato?
— Chi, i portoghesi? Macché. Sono stati quei rotti in culo di timoresi al Flamboyant.
— Il Flamboyant?
— Il night club dove ho avuto quella piccola discussione. È un peccato che i portoghesi siano intervenuti proprio quando stavo vincendo.
— Da quello che ho sentito, sono arrivati giusto in tempo per salvarti la pelle.
— Non diciamo cazzate. Ne avevo già messi fuori combattimento due e stavo prendendomi cura degli altri tre con un discreto successo.
Non feci commenti.
— Hai una sigaretta? — mi chiese.
— Sto provando a smettere di fumare.
Fece roteare gli occhi al soffitto e sbuffò. — Paura di morire giovane, Banshee? Avresti dovuto scegliere un mestiere diverso.
— Anche tu.
— Ma io fumo ancora. Come sta il vecchio stronzo? Rompe ancora i coglioni?
Il generale Tan aveva fatto carriera sul campo, dove aveva sempre anteposto la sicurezza dei suoi uomini alla propria. Anch’io mi riferivo a lui in privato come al “vecchio”, ma sempre con un profondo senso di rispetto.
— Occhio a come parli, Russo. Il generale sta bene.
— Be’, salutamelo quando lo vedi. Allora, ti decidi a tirarmi fuori di qui o no?
— Stiamo aspettando che l’UNTAET ci prepari un documento provvisorio di viaggio.
— E quanto tempo ci mettono? Secoli?
— I burocrati hanno sempre le loro piccole cerimonie da compiere per far credere di non essere del tutto inutili e giustificare i loro pingui stipendi; le Nazioni Unite non fanno eccezione.
— E allora che cazzo ci fai seduto qui: vai da loro e cerca di mettergli un po’ di fretta, no? O devo passare il resto della mia vita in gabbia?
— La prossima volta vedi di non ficcarti nei guai. Nessuno ti ha chiesto di scatenare una rissa con i mafiosi locali, nessuno ti ha chiesto di entrare in quel night club e nessuno ti ha chiesto di venire a Timor Est. Innanzi tutto, cosa ci fai qui? Perché non sei rimasto a Giacarta?
— Mi stavo annoiando.
Aspettai senza dire nulla.
— D’accordo — sibilò dopo un po’. — Dovevo sbrigare un lavoro.
— Che tipo di lavoro?
— Non sono affari tuoi.
— E allora resta dove sei. Cosa vuoi che me ne freghi.
— Te ne frega, Banshee, te ne frega. Così come gliene frega al vecchio stronzo. Altrimenti non saresti qui. Sei pur sempre il mio case officer.
— Certo, sono il tuo case officer. Questo significa che ho bisogno di assicurarmi che quello che fai nel tuo tempo libero non sia in conflitto con gli incarichi che svolgi per noi. Per i quali sei profumatamente pagato. Perché sei venuto a Timor?
— Che cos’è questo, un debriefing?
— Chiamalo come ti pare. Però non tirare troppo la corda, Russo. Sarei rimasto molto più volentieri a Singapore, invece che venire qui, e la linea che mi separa dal chiamare un taxi, farmi portare all’aeroporto e lasciare per sempre questo paradiso terrestre è davvero sottile. Pensi di poter uscire da qui senza il mio aiuto?
— Razza di bastardo. Ho sbrigato i tuoi sporchi lavori per anni. Sei obbligato a tirarmi fuori.
— No, non lo sono. Saresti dovuto restare a Giacarta in attesa che ti contattassimo. Nel caso che te lo sia scordato, ti paghiamo un ricco stipendio solo per tenerti in standby a fare nulla. Invece hai deciso di venire a Dili per i fatti tuoi. Perché? E non dirmi che sei qui per turismo.
— Non sei molto realista, Banshee. Dovresti capire che non puoi sempre dirigere le danze. Se non mi libereranno, tutte le cosucce che ho fatto per conto tuo, del generale Tan e del governo di Singapore diventeranno di pubblico dominio. Non potete permettervelo.
— Credo che sia tu a non essere realista. Non sei in stato d’arresto, ma semplicemente detenuto da un contingente militare allo scopo di garantire la tua sicurezza. E anche se fossi in arresto, dove ti trovi? Non in Europa, non a Singapore e nemmeno a Giacarta, ma su una sperduta isoletta nel bel mezzo del nulla. Un’isola che il novanta per cento della popolazione mondiale, ammesso che ne abbia sentito parlare, non saprebbe nemmeno localizzare su una mappa. Un’isola che è appena uscita da una guerra civile, dove per trent’anni i giornalisti non sono stati ammessi e una persona su quattro è stata uccisa o è scomparsa. Se le truppe dell’ONU partissero oggi, questo posto ritornerebbe a essere un campo di sterminio nel giro di poche ore. Ti rendi conto o no che potrebbero tenerti in cella per i prossimi duecento anni senza che a nessuno gliene freghi qualcosa, semplicemente perché nessuno lo verrebbe a sapere? Cosa pensi di fare, indire una conferenza stampa? A Dili? Continua su questo tono e io lascio la stanza nel giro di un minuto.
— Stai bluffando.
Aveva ragione. Stavo bluffando, e alla grande. Mi erano state date precise istruzioni e non avevo nessuna possibilità di andarmene da Dili senza trascinarmi dietro Russo. Ma questo lui non poteva saperlo.
— Vieni a vedere, se sei tanto sicuro che stia bluffando.
Mi fissò per trenta secondi buoni. Non fui io a battere le palpebre per primo, ma lui. Poi sospirò e distolse lo sguardo. — Lourenço da Silva sta cominciando a espandersi verso ovest. È già arrivato a Bali, con droga e prostituzione. E si sta preparando a sbarcare a Giava. A Giacarta c’è gente a cui la concorrenza non piace. Mi hanno pagato bene per venire qui ed eliminarlo. Quella notte al Flamboyant stavo solo facendo un giro di ricognizione. Volevo farmi un’idea. A lui non è piaciuto che nel locale ci fosse una faccia sconosciuta e ha mandato un paio dei suoi a tastarmi il polso. Ho reagito. Il resto lo conosci.
— Credo sia del tutto inutile ricordarti che il tuo contratto ti vieta esplicitamente di accettare incarichi da terzi senza il nostro preventivo consenso.
— Hai ragione. È inutile.
— Non mi stai rendendo le cose facili.
— Dovresti esserne contento. A te le cose facili non sono mai piaciute.
— Vaffanculo, Russo.
Mi alzai e bussai alla porta. Lo spioncino si aprì e un secondo dopo la porta si spalancò.
— Credo che andrò a pranzo, amico mio. Potrei tornare nel pomeriggio. Così come potrei non farlo.
Alzò il dito medio.
Uscii senza voltarmi.
Faceva caldo, per strada, molto più caldo che a Singapore, dove il caldo non scherza. L’asfalto era bianco di polvere, come tutto il resto. La popolazione era diversa da quella dell’Indonesia occidentale, una sorta di miscela fra papua e malesi, dai capelli ricci, quasi crespi, e la pelle più scura.
Tornai in taxi al mio albergo e mi feci servire un club sandwich e una San Miguel ghiacciata. Non vidi Farida. Doveva essere già partita per Darwin.
Telefonai in ufficio a Singapore e parlai con Theresa Moon, la responsabile del Field Staff Support. Ingaggiò con me il solito scambio di battute taglienti prima di dirmi che non c’erano stati sviluppi, il che significava che la missione non era stata abortita. Non ancora, per lo meno.
— Se non ce altro, divertiti a Timor — disse.
— È difficile capire come un normale essere umano possa trovare qualcosa di divertente da fare su quest’isola — ribattei. Le dissi che la data prevista per il mio ritorno era immutata e riappesi. Chiamai Sergio Biancardi, uno dei miei agenti che viveva a Bali. Italiano anche lui, come Russo. Gli affidai un paio di commissioni da sbrigare e lo salutai.
Tornai sul ponte e me ne restai seduto per una ventina di minuti a guardare il mare e il profilo giallo dell’isola a pochi chilometri dalla costa, infine decisi che anche ascoltare i deliri di Russo era meglio che restarmene lì a fare nulla.
Russo non aveva perso i suoi modi spavaldi, ma non mi sfuggì il sollievo che provò nel rivedermi. Restare in una cella di isolamento, senza aria condizionata, con la luce accesa giorno e notte, senza nulla da fare, senza nulla da leggere, senza contatti con il mondo esterno e solo un’ora d’aria passata a camminare su e giù per un cortile di dieci metri quadri, non fa molto bene allo spirito. È la forma più semplice e comune di tortura psicologica; pochi giorni sono in genere sufficienti a far crollare chiunque. Salvo chi, come Russo, era stato specificamente addestrato a resistere.
— Mangiato bene? — gli chiesi senza curarmi di celare lo scherno nella voce.
— Ottimamente. Dovresti provare la cucina portoghese uno di questi giorni. E tu?
— Ho preso solo un club sandwich. Ora piantiamola di menare il can per l’aia. Cos’hanno gli italiani contro di te?
Lo sapevo già, naturalmente: prima di partire mi ero riletto tutto il suo file. Ma spingerlo a parlare degli aspetti meno brillanti del suo futuro non guastava. Gli avrebbe tolto un po’ della sua baldanza.
— Solo montature. Dicono che ho ucciso un commissario di polizia a Firenze.
— Perché l’hai fatto?
— E che ne so? Chiedilo a loro.
— Non è solo qualcosa che dicono, Russo — lo ammonii. — Sei stato giudicato e condannato in tutti e tre i gradi di giudizio. E sei stato assistito dai migliori avvocati sulla piazza. Non ho molta familiarità con il sistema giuridico italiano, ma non penso che sia peggio della media dei paesi occidentali. Non è l’Iran. O la Cina.
— Stronzate. Visto che parli dei paesi occidentali come fossero modelli di democrazia, lo sapevi che il bel paese in cui sono nato è l’unico dell’Unione Europea in cui non c’è separazione fra pubblico ministero e giudice? Con l’ovvio risultato che il processo è pesantemente squilibrato a favore dell’accusa e a danno dell’imputato? Mi hanno incastrato, amico mio, e a farlo sono state le stesse persone che avrebbero dovuto garantirmi un processo equo.
— D’accordo, ti hanno incastrato. E cosa mi dici dei testimoni?
— Bei testimoni. Erano dei pentiti, tutta gente che ha accettato di incolparmi in cambio di pesanti sconti di pena. E tu cosa stai cercando di fare, processarmi un’altra volta?
— Sto solo cercando di stabilire quante sono le possibilità che riescano a estradarti in Italia. Non ci fa piacere che i nostri operatori finiscano sotto processo in un altro paese. Se non ti interessa il nostro aiuto, non hai che da dirlo. Allora, l’hai ucciso tu?
Imprecò sottovoce, poi si lasciò sfuggire un sospiro e annui. — Va bene, l’ho ucciso io — disse. — Ti basta?
— Fidati di me, Russo, sono qui per aiutarti. — Guardai dalla finestra un plotone di soldati marciare nel cortile. — Non appena i documenti saranno pronti, ti tiro fuori di qui.
Mi rivolse uno sguardo di scherno. — Ho passato la vita a diffidare di chi si offriva d’aiutarmi. Non vedo perché dovrei cambiare abitudini proprio ora.
— Perché non hai altra scelta, ecco perché. Se tutto va bene, domani sera partiamo per Bali, ci passiamo la notte e la mattina dopo proseguiamo per Singapore.
— E gli italiani?
— Cosa?
— Mi consegnerete a loro?
— Troveremo un modo di evitarlo, non ti preoccupare.
— E invece mi preoccupo. È in gioco la mia vita, non la tua. C’è un trattato di estradizione fra Singapore e l’Italia?
— In linea di principio ci sarebbe un accordo bilaterale del 1873 fra Londra e Roma, rinnovato nel 1948, che era applicabile anche alle colonie e ai possedimenti stranieri delle due parti contraenti. Ma tre anni fa il governo singaporeano ha dichiarato di non sentirsi obbligato dai trattati stipulati in suo nome dalla Gran Bretagna. Per cui di fatto non ci sono grossi problemi...
— Dacci un taglio, Banshee. Sai meglio di me che se un governo vuole deportare un cittadino straniero e consegnarlo alle autorità del suo paese di origine non ha bisogno di nessun trattato.
— Hai detto bene: “Se un governo vuole”. Se non vuole, non è soggetto ad alcun obbligo. Se Singapore è stata pronta a sfidare l’Indonesia, un paese confinante di duecento milioni di abitanti, pur di non consegnare dozzine di cittadini indonesiani ricercati, non vedo come possa prendere in considerazione la richiesta di una nazione così al di fuori della sua sfera di interessi come l’Italia.
In realtà il paragone non era del tutto appropriato e la situazione di Russo non era così rosea come gliela stavo dipingendo. Innanzi tutto gli indonesiani rifugiatisi a Singapore erano profughi di etnia cinese che scappavano dalle persecuzioni razziali, argomento a cui l’opinione pubblica del paese, formata prevalentemente da cinesi, era particolarmente sensibile. In secondo luogo, si trattava di miliardari che avevano depositato gran parte dei loro patrimoni personali nelle banche della città-stato. Infine, era gente accusata per lo più di corruzione o frodi fiscali, reati che, agli occhi di una popolazione di mercanti e uomini d’affari, apparivano alla stregua di innocue marachelle: Russo non era ricco, il che era già un pessimo inizio, non era cinese ed era stato condannato per crimini particolarmente abietti. Il governo di Singapore poteva benissimo rifiutarsi di consegnare un assassino a un partner commerciale come l’Italia, ma avrebbe avuto qualche problema a motivare la decisione a un elettorato che trovava perfettamente normale ridurre in gelatina a colpi di verga le chiappe di un ragazzo colpevole di avere imbrattato con una bomboletta spray la facciata di un palazzo; o appendere per il collo un turista straniero trovato in possesso di una modica quantità di hashish.
Eppure non avevo mentito a Russo: la giustizia italiana era l’ultima cosa di cui doveva preoccuparsi. Solo che non potevo spiegargli perché.
Tornai in albergo al tramonto, dopo aver rifiutato l’invito a cena di Koh. Ero sfinito. Non mi ero mai trovato a mio agio a trattare con Russo, fin da quando era entrato nella mia squadra, due anni prima. In precedenza lo aveva gestito Terry Munindra. Sotto di lui, Russo era stato coinvolto in operazioni clandestine, alcune delle quali avevano avuto come obiettivo l’eliminazione di personaggi scomodi in vari paesi del Sudest asiatico. Da quando, dopo la morte di Terry, era passato sotto il mio controllo, avevo avuto occasione di impiegarlo in due sole operazioni: la prima riguardava la disseminazione di indizi incriminanti contro un senatore filippino che si opponeva alla costruzione di una grossa diga da parte di un consorzio singaporeano; la seconda, l’assassinio a Papua di un generale dell’esercito indonesiano che aveva fatto uccidere tre ingegneri singaporeani dopo che la società per cui lavoravano si era rifiutata di pagare la tangente per la protezione del personale.
Mi feci una lunga doccia, come per lavarmi di dosso qualsiasi contaminazione mi si fosse infiltrata sotto la pelle, poi salii al bar sul ponte per un aperitivo.
Farida era seduta sullo stesso sgabello che aveva occupato la sera prima. Stava parlando con un uomo biondo che sembrava avere le lettere UN marchiate a fuoco in fronte. Mi vide entrare. Le rivolsi un cenno di saluto e andai a sedermi a un tavolo.
Ordinai un gin tonic e mi misi a leggere l’“Herald Tribune”. Pochi minuti dopo sentii una presenza al mio fianco. Alzai lo sguardo. Il biondo era sparito. Farida era in piedi di fronte a me.
— Ti spiace? — disse accennando alla sedia libera accanto.
Scossi il capo e lei si sedette.
— Pensavo che fossi già partita.
— Non ho avuto questa fortuna. Il mio volo è stato cancellato. Spero di riuscire a partire domattina, ma non me lo hanno assicurato. Tutti i voli per Darwin sono pieni.
— Non posso dire che la cosa mi dispiaccia.
I nostri sguardi si agganciarono a mezz’aria. Il suo era decisamente ambiguo, per nulla amichevole, ma nemmeno ostile. Nessuna traccia di sorriso sulle labbra.
— Il mio invito a cena di ieri sera è ancora valido — dissi. Scosse il capo, senza smettere di fissarmi, senza dire una parola.
— Beviamo almeno qualcosa?
Scosse ancora il capo, sempre in silenzio, labbra dischiuse. Il bagliore nei suoi occhi pulsava di promesse e minacce. Avevo la bocca arida e la testa mi girava, sempre più rapida.
— La mia stanza o la tua? — mi trovai a sussurrare.
Non disse nulla. Sollevò appena il mento, come a indicarmi.
Misi cinque dollari sul tavolo, mi alzai, le presi la mano e la tirai leggermente verso di me. Si alzò e si lasciò trascinare via, senza fare resistenza. Scendemmo le scale fino alla mia cabina.
Richiusi la porta alle mie spalle e lei mi venne fra le braccia. Le abbassai la cerniera dietro la schiena e il vestito si afflosciò sulla moquette. La afferrai per i capelli, sulla nuca, e mi sdraiai sul letto, tirandomela addosso. Mi montò sopra a cavalcioni, stringendomi fra le cosce, imprigionandomi i polsi, ma era lei a contorcersi come un animale selvaggio preso in una tagliola. Cominciò a sfilarmi i vestiti. La lasciai fare. Si chinò su di me, con i seni che oscillavano e i capezzoli che mi sfioravano il petto, e prese a baciarmi sul collo, sussurrando frasi a voce roca in una lingua sconosciuta. Per un attimo mi sentii come se mi stessero traghettando verso l’inferno. Scacciai il pensiero, la rovesciai sulla schiena e le montai sopra. Lei sollevò le gambe, stringendomele attorno ai fianchi, rovesciò il capo all’indietro e si abbandonò a un singhiozzo sommesso. Il suo corpo si tese, per poi vibrare in una serie di sussulti ritmati. Si lasciò sfuggire un grido, prima di distendersi al mio fianco, respirandomi contro e tenendomi stretto.
— Chi sei? — chiese.
— Un uomo, credo.
— Un uomo — ripeté, con una nota di scorno nella voce. Restò per un attimo in silenzio, tracciandomi linee sul petto con le unghie, poi alzò il capo e mi scrutò. In fondo ai suoi occhi verdi brillava una luce intermittente, come se qualcuno o qualcosa stesse tentando di inviarmi un messaggio in Morse. — Un uomo o un demonio?
Rabbrividii e non risposi. Era la stessa domanda che mi tormentava da quarantott’ore.
Venerdì
— Visto che abbiamo tempo, spiegami un po’ perché hai ucciso quel commissario a Firenze. È stata un’idea tua o qualcun altro ti ha dato l’imbeccata?
Russo alzò di scatto il capo e mi staffilò con un’occhiata risentita. — Io non sono mai stato il burattino di nessuno, amico. Nessuno mi ha mai detto cosa fare. Caso mai ero io a dare ordini ad altri. Ero uscito da un’organizzazione più grande chiamata Potere operaio e avevo formato il mio gruppo. Eravamo pochi ma buoni. Ho scelto e addestrato personalmente ognuno dei miei compagni.
— Quindi uccidere il poliziotto è stata un’idea tua?
— Perché me lo chiedi?
Eravamo nella stessa stanza spoglia. Lui seduto, io in piedi presso la finestra a guardare i soldati portoghesi che marciavano.
— Perché mi interessa. Secondo molti analisti, la violenza politica degli anni Settanta in Italia aveva collegamenti internazionali.
— Sì, la vecchia ipotesi del complotto. I giornali ai miei tempi la chiamavano “strategia della tensione”. L’idea era che il conflitto non fosse, come molti credevano, una continuazione della guerra civile che aveva insanguinato il paese dall’armistizio del 1943 fino alla fine della Seconda guerra mondiale, ma che fosse orchestrato da poteri che avevano tutto da guadagnare da uno stato di protratta instabilità politica.
— E non era vero? Ci deve essere pur stato qualcuno che vi aiutava, vi forniva armi, soldi e copertura politica.
— Quando dici “qualcuno” ti riferisci al KGB?
— Non ci vedrei nulla di strano. Né, tanto meno, di scandaloso. L’Unione Sovietica aveva un interesse strategico a destabilizzare un paese NATO che ospitava le più importanti basi americane in Europa.
— I russi finanziavano tutti, giornalisti, preti, uomini politici di ogni partito, ma per quanto ne so, l’unico gruppo di cui si fidavano fino in fondo erano le Brigate Rosse, che infatti ricevevano supporto operativo dal KGB tramite la Cecoslovacchia. Ma una cosa è ricevere un sostegno parziale, un’altra è essere completamente gestiti. Tu gestisci una rete di agenti, per cui sai benissimo di cosa parlo. La maggior parte di quelli che la stampa definiva attentati terroristici, e che noi chiamavano guerra contro lo Stato borghese, non si inserivano in una strategia ben definita ma erano operazioni frammentate e spontanee, e questo era ancora più vero per i PARC.
— PARC?
— Così si chiamava il mio gruppo. Proletari armati per la rivoluzione comunista.
— Capisco. Eri un idealista.
— Tu non capisci un cazzo, Banshee. Noi stavamo spianando la strada alla rivoluzione. Eravamo delle avanguardie.
— No, voi eravate dei poveri illusi. Hai creduto davvero alla favola che i lavoratori nell’Europa occidentale degli anni Settanta volessero la rivoluzione? Be’, è ora che tu apra gli occhi. In quegli anni non aspiravano ad altro che a una automobile più grande, una seconda casa in campagna e più soldi in tasca, per mandare i figli all’università o per andare a donne, a seconda dei gusti. Ed erano seriamente convinti di poterli ottenere in breve tempo. Allora la gente credeva ancora in un futuro migliore.
— Be’, noi non ci facevamo così tante domande. Tutti davamo per scontato che alla fine ci sarebbe stata una rivoluzione, stavamo semplicemente cercando di anticipare i tempi. Si preferiva agire piuttosto che pensare. A me piaceva quello che facevo.
— Se è per quello, ti piace ancora adesso.
— Certo. Come piace a te. Siamo fatti della stessa pasta.
Non risposi, assorto in un turbine di pensieri.
Alla fine scrollai le spalle e li spinsi via. — Il commissario — lo sollecitai.
— Cosa vuoi sapere?
— Perché l’hai ucciso?
— Perché un soldato uccide un altro soldato in guerra? Perché è il nemico, ecco perché.
— Nulla di personale contro di lui?
— Oh, sì, c’era molto di personale. Aveva ucciso un mio amico.
— Davvero? E come?
— Gli ha solo suonato alla porta e quando lui ha aperto gli ha sparato. Poi gli ha messo una pistola in mano e ha sostenuto che era stata legittima difesa.
— E come ha fatto? Gli altri agenti della squadra non lo hanno smentito?
— Ma di che squadra parli? Era andato da solo, in cerca di gloria.
— Be’, se non altro aveva coraggio. Ci vuole un bel fegato per entrare da soli in un covo di terroristi armati.
— Ma quale covo, quel giorno a casa c’era solo Luca, il mio amico, e quel maledetto sbirro lo sapeva benissimo. Era diverso tempo che teneva d’occhio l’appartamento in attesa del momento buono. Appena è stato sicuro che Luca fosse da solo si è fatto avanti. Capisci? Voleva fare l’eroe, stava cercando una promozione sul campo. L’ha ammazzato e ha raccontato la sua versione dei fatti, che nessuno si è sognato di mettere in discussione.
— È andata proprio così? Solo loro due, il tuo amico Luca e il commissario?
— Quante volte devo ripetertelo, sei sordo? Solo loro due.
— E allora come fai a essere sicuro che il commissario abbia mentito?
— E tu come fai a sapere che abbia detto la verità?
— Non lo so. Ma non lo sai nemmeno tu.
— Conoscevo Luca. Non era tipo da sparare per primo.
— Davvero? Per quello che ne so io il tuo amico, un certo Luca Guarnieri, correggimi se sbaglio, era ricercato per l’omicidio di un giornalista. Gli ha sparato alla schiena in mezzo a una strada. Poi, una volta a terra, un altro colpo. Alla nuca.
— Non è mai stato provato, ma se anche fosse? Ti sembra una buona ragione per ucciderlo a sangue freddo?
— No. Ma anche tu hai ucciso il commissario a sangue freddo. Tu una buona ragione ce l’avevi?
— Sì. Eravamo in guerra contro lo Stato.
— Cercati un prete se hai voglia di parlare di ideologia, Russo, io non credo né in Dio né in Marx. Il punto che mi interessa è che tu non sai che cosa è davvero successo. Non lo sa nessuno. Può darsi che il commissario abbia detto la verità, può darsi che abbia mentito. Ma tu hai scelto di credere alla versione che ti faceva più comodo perché ti dava una giustificazione per fare quello che ti è sempre piaciuto fare. Uccidere... Perché non mi parli dei due bambini morti nell’incendio?
— Quello è stato un errore, lo sanno tutti. Abbiamo bruciato la casa di un deputato del partito neofascista. Come potevamo sapere che dentro c’erano i suoi figli?
— Ti sorprenderà, ma non è tanto strano che in una casa ci siano delle persone. E spesso, fra quelle persone, anche dei bambini.
— Be’, non ci avevamo pensato. E poi, cosa c’è da scandalizzarsi? Migliaia di bambini continuano a essere uccisi nei bombardamenti, in una guerra o nell’altra, eppure nessuno dice nulla.
— Certo, Russo, certo. E la donna che hai torturato e ucciso a Brescia nel 1977? Un altro errore?
— Ancora con quella storia? Era un’infame, ci aveva venduti alla polizia. Ha fatto arrestare tre compagni. E un altro lo hanno buttato dalla finestra di casa sua.
— Per quanto mi risulta, è caduto mentre cercava di scappare dal tetto. Comunque parlami della donna. Come si chiamava, Maria?
— Norma.
— Ah, sì, Norma. Hai ammazzato Norma perché ti ha tradito. Ma perché l’hai torturata?
— Perché? Perché non sono un mostro. Prima di giustiziarla volevo essere certo della sua colpevolezza.
— Vuoi dire che non ne eri sicuro?
— Sì che ne ero sicuro. Voglio dire, me lo sentivo che era stata lei. Ma volevo che confessasse.
— E lo ha fatto?
— Cosa?
— Ha confessato?
— Confessato? Sì, certo, ovvio che ha confessato.
— Non ti è mai passato per la testa che dopo ore di tortura uno è disposto a confessare qualsiasi cosa? È così che gli accusati finivano per dichiararsi eretici ai processi dell’Inquisizione. O che le donne ammettevano di avere avuto rapporti sessuali con Satana durante la caccia alle streghe. Dimmi una cosa, Russo, sei davvero convinto che il fatto che Norma, dopo essere stata la tua amante per anni, si fosse messa con un altro, non abbia influito sulle tue motivazioni?
— Dove cazzo stai cercando di arrivare, Banshee? Sei qui per fregarmi o per aiutarmi? Non avevi tutti questi scrupoli quando mi hai mandato a uccidere quel generale a Papua, o sbaglio? Ti è tornato comodo, quella volta, che qualcuno facesse ciò che tu non avevi le palle per fare.
— Lascia perdere, Russo. Pensa alle tue di palle, che io penso alle mie.
Non rispose. Per un po’ non aggiunsi altro, poi mi alzai.
— Ti ho già detto che sono venuto ad aiutarti a uscire da questo paese. Fra poche ore ce ne andiamo. Ma siccome mi hai costretto a venire in questo letamaio a levarti dai guai, il minimo che mi aspetto è che tu soddisfi la mia curiosità. Non mi sembra un prezzo troppo oneroso da pagare in cambio della libertà. Fatti trovare pronto per le quattro.
Presi un taxi e raggiunsi Koh al comando singaporeano. Mi portò a pranzo in un ristorante cinese di fronte al porto, poi mi accompagnò in albergo. Chiesi al portiere se Farida c’era ancora.
— La signora è partita un’ora fa — disse.
— Non ha lasciato nessun messaggio?
— No, signore.
Andai nella mia stanza, mi feci una doccia, ficcai le mie cose nella valigia e tornai nella lobby. Pagai il conto, ordinai un caffè e mi sedetti in poltrona a leggere il giornale e ad aspettare.
Il sergente Singh venne a prendermi alle quattro e mezzo con il lasciapassare dell’ONU firmato e mi riportò alla base portoghese. Il comandante controllò i documenti, me ne fece firmare di nuovi e mi disse di aspettare. Meno di dieci minuti dopo, accompagnato da due MP, arrivò Russo, sbarbato, pulito e in abiti civili. Salimmo sulla nostra Nissan azzurra e partimmo alla volta dell’aeroporto.
Avevamo lasciato da poco Dili quando Singh mi disse: — Credo che ci stiano seguendo, signore. — Teneva lo sguardo incollato allo specchietto.
Mi voltai. Eravamo fuori dalla città, su un lungo rettilineo. A sinistra si alzava una parete di roccia, a destra, fra la strada e il mare, si stendeva una piana arida costellata da bassi cespugli. Dietro di noi c’era solo un Kijang blu dai vetri oscurati.
— È dal centro che ci sta incollato al paraurti — aggiunse Singh. — Ogni volta che accelero, accelera anche lui. Quando rallento, rallenta, senza superarmi.
Mi rivolsi a Russo. — Sono amici tuoi? Perché se cercano di liberarti, il primo a morire sei tu.
La sorpresa sul volto di Russo sembrò genuina. Non durò a lungo.
— Se davvero ce l’hanno con noi, possono solo essere uomini di da Silva — sibilò. — Vogliono me. Dammi una pistola.
— Non ce l’ho una pistola, Russo. Non mi aspettavo di averne bisogno e per venire qui sono dovuto passare da Bali. Non c’è verso che uno straniero possa entrare in Indonesia armato.
Il sergente Singh schiacciò a fondo l’acceleratore e l’auto balzò avanti. Dopo un attimo il Kijang ridusse di nuovo la distanza che ci separava.
— Direi che non restano molti dubbi — osservai. — Quanto ci vuole prima di arrivare in un’area abitata?
— Meno di dieci minuti, signore. In fondo al rettilineo, superata la curva, c’è un villaggio, e subito dopo l’aeroporto. Non si preoccupi, non riusciranno a fermarci.
Continuò a guidare veloce con mano sicura, senza mostrare traccia di ansia. Il pensiero che altri uomini di da Silva potessero venirci incontro dalla direzione opposta fece appena in tempo a passarmi per la mente che vidi un’auto sbucare da un cespuglio poche centinaia di metri più avanti e fermarsi di traverso in mezzo alla strada. L’autista saltò giù e corse via, sparendo fra la vegetazione.
Singh frenò e scalò, passando direttamente dalla quinta alla seconda. Il motore urlò, l’auto sbandò per un attimo, poi si raddrizzò. Evitammo l’urto ma uscimmo di strada, volando sopra i cespugli. Atterrammo in una nuvola di polvere, sbandammo di nuovo, urtammo un tronco con la ruota anteriore destra. La Nissan si rovesciò e rotolò più volte su se stessa, senza accennare a fermarsi. Sentii, più che vedere, i vetri andare in frantumi attorno a me. L’airbag si gonfiò, schiacciandomi contro lo schienale. L’auto terminò la sua corsa, capovolta, oscillò un’ultima volta, infine s’arrestò. Gli airbag si sgonfiarono. Il sergente Singh era appeso a testa in giù e privo di sensi, trattenuto dalla cintura di sicurezza. Russo sembrava illeso.
Sganciai la cintura, uscii dal finestrino, strisciai vicino al sergente Singh e gli sfilai dalla fondina la Sig P226 da 9 millimetri di ordinanza. Quattro o cinque uomini stavano correndo verso di noi da due lati opposti. Uno di loro, tarchiato, con una barbetta sottile, impugnava un M16. Gli altri, delle pistole.
Mirai all’uomo con l’M16 e premetti il grilletto tre volte. Lasciò cadere il fucile e andò giù, scalciò e restò immobile. Gli altri si buttarono a terra e spararono una dozzina di colpi.
Brutta situazione. Che prometteva di deteriorarsi rapidamente. Non c’era traffico, eravamo lontani dalla strada e coperti dalla vegetazione. L’auto ci offriva una discreta protezione, ma avevamo solo una pistola. Controllai il caricatore. Undici proiettili più uno in canna.
Russo si era liberato dalla cintura e si era avvicinato al sergente.
— Controlla se è ancora vivo — dissi.
Gli appoggiò un dito sul collo. — Respira ancora, ma il polso è bassissimo.
— Guarda se ci sono altre armi. O munizioni.
— Già fatto. Negativo.
— Hai un cellulare?
— No. E anche se lo avessi, sarebbe del tutto inutile. Da quando gli indonesiani se ne sono andati, non c’è servizio sull’isola.
Ripresero a sparare e una grandinata di proiettili investì l’auto. Mentre restavamo incollati al suolo, uno dei timoresi scattò e andò a prendere posizione sulla nostra destra, dietro un piccolo dosso. Un attimo dopo eravamo sotto un fuoco incrociato. Proiettili perforarono le lamiere, colpirono il terreno sollevando piccole nubi di polvere, ci sibilarono di poco sopra il capo. Quando cessarono il fuoco, sentii del liquido sgocciolare. Eravamo incolumi, ma il sergente Singh si era beccato almeno un proiettile.
— Siamo fortunati — disse Russo.
— Sono felice che te ne sia accorto anche tu. Non mi piace essere fortunato da solo.
— Voglio dire, poteva andare peggio.
— Davvero? E quanto peggio?
— Bruciare vivi ti sembra abbastanza peggio? Questo è un diesel. Fosse stato a benzina saremmo già in cenere.
— Bella consolazione, Russo, grazie davvero. — Uno dei balordi mostrò per un attimo la testa. Sparai d’istinto, ma ormai si era abbassato. — Già che ci sei, non avresti anche qualche suggerimento su come andarcene vivi da qui, visto che non è con noi che quelli ce l’hanno, ma con te?
— Mi dispiace, ho un vuoto di idee. Ma se ti può consolare, posso dirti cosa faranno molto presto. Avranno già notato che non rispondiamo al fuoco per cui sanno che non abbiamo molte munizioni. Faranno fuoco di copertura e piazzeranno un uomo in un altro punto. — Indicò l’unico albero visibile, un salice, un centinaio di passi alla nostra sinistra. — Probabilmente là. Poi continueranno a sparare, obbligandoti a rispondere al fuoco. Quando saranno sicuri che non abbiamo più proiettili, verranno a prenderci. Diciamo che, se non hanno fretta, potrebbero metterci altri venti minuti. Più o meno il tempo che ci resta da vivere.
— Ora stai cominciando a eccedere in ottimismo. Dacci un taglio.
Sogghignò. — Se solo avessimo un’altra pistola potremmo cercare di anticiparli.
— Già. E se arrivasse la cavalleria ci andrebbe ancora meglio.
Per un po’ restammo in silenzio. Qualche minuto più tardi gli uomini di da Silva ripresero a sparare, senza fretta. Non potemmo fare altro che restarcene a faccia in giù contro la sabbia mentre i proiettili ci fischiavano sopra. Poi, improvvisamente, i colpi aumentarono di intensità: come Russo aveva previsto, uno di loro si alzò e corse verso il salice.
Sparai un colpo, mancandolo. Si tuffò tra i rovi. Un attimo dopo eravamo sotto tiro da tre diverse posizioni.
— Non la vedo bene — disse Russo. — Di’ un po’, non è che hai in mente di uccidermi e poi arrenderti sperando che ti lascino andare?
— Non credere che non ci abbia pensato. Ma non mi sembrano tipi da lasciare testimoni vivi.
— Non me la sento di darti torto.
L’uomo dietro il salice si alzò prendendo la mira. Sparai. Si buttò faccia a terra.
Continuarono a sparare a ritmo sostenuto per altri cinque minuti. Non erano certo a corto di munizioni.
Poi mi sembrò di sentire dei motori avvicinarsi. Il suono si fece più distinto. I nostri avversari si alzarono e cercarono di correre via. Sparai tre colpi in rapida sequenza e ne beccai uno a una gamba. Crollò, si rialzò, andò avanti zoppicando, poi cadde in ginocchio e sollevò le mani. Gli altri due lo imitarono. Dai cespugli di fronte a loro era emerso un camion bianco. Un gruppo di soldati in tuta mimetica saltò giù con i fucili spianati e si aprì a ventaglio.
Strisciammo fuori dall’auto rovesciata e ci alzammo in piedi.
Un sergente del I° battaglione della Royal New Zealand Infantry ci venne incontro.
— Salve gente. Credo proprio che mi siate debitori di una mezza dozzina di birre belle fredde.
Un paio di paramedici kiwi corsero a prendersi cura di Singh. Era vivo e ancora privo di sensi. Pochi minuti dopo arrivò un elicottero e se lo portò via.
Ci accompagnarono all’aeroporto con una Land Rover. Ci trasferirono su un pickup con una scaletta fissata sul cassone e ci accompagnarono fino al 737 della Merpati Nusantara che ci aspettava in fondo alla pista con i motori accesi. Salimmo a bordo sotto gli sguardi dei passeggeri inferociti per il ritardo. Pochi minuti dopo eravamo in volo. Sotto di noi la distesa bianca di polvere di Timor Est si allontanò e svanì.
Atterrammo a Bali poco dopo le sette. La coda all’immigrazione fu particolarmente lunga e quando uscimmo dal terminal erano quasi le otto e mezzo. Noleggiai una macchina e andammo al Bali Beach Hotel a Sanur. Salii nella mia stanza. Trovai un pacchetto sul letto. L’aprii. Dentro c’erano una lettera e una busta imbottita. Lessi la lettera poi lacerai la busta. Conteneva una Ruger P89 da 9 millimetri. Feci una doccia, mi cambiai d’abito e scesi nella lobby.
Russo mi stava aspettando. Mangiammo al ristorante dell’albergo. Ordinai aragosta per Russo, gamberoni alla griglia per me e una bottiglia di Müller Thurgau sudafricano. Non parlammo molto in attesa del cibo. Sull’aereo avevamo detto tutto quello che c’era da dire sul tempestivo intervento dei soldati: stando a quanto eravamo riusciti ad appurare, era stato causato da una telefonata anonima al comando singaporeano, il quale aveva a sua volta avvertito il presidio dell’aeroporto. Avrebbe provveduto l’UNTAET ad accertare i fatti. Io avevo altro a cui pensare.
Il cameriere servì le nostre portate. Russo si buttò sull’aragosta mentre io lasciavo i gamberoni quasi intatti.
— Non sono buoni? — chiese Russo indicando il mio piatto.
— Non ho molta fame.
— Non è che sei ancora scosso dal contatto ravvicinato con la morte che abbiamo avuto questo pomeriggio?
— Può darsi.
Scrollò le spalle. — Fai come me. Queste cose servono solo a farmi apprezzare ancora di più la vita.
Alla fine del pasto ordinammo caffè per tutti e due.
Russo mi fissò. — Lasciami andare, Banshee. A Singapore non vi servirei a nulla.
Mi guardai intorno, a disagio. — Troppa gente qui — dissi. — Andiamo a parlare da un’altra parte.
Pagai il conto, salimmo in macchina e prendemmo il Jalan Bypass in direzione sud. Prima di arrivare a Benoa svoltai a sinistra, superai il ponte che collega Bali con l’isolotto di Serangan e imboccai una strada sterrata che procedeva a zigzag fra la vegetazione. Mi fermai a un centinaio di metri dal mare, spensi il motore e scesi. Russo fece altrettanto.
Dal villaggio vicino veniva un vociare di televisori, schiamazzi di bimbi, ronzio di motorette. In sottofondo, si udiva il suono ritmico delle onde.
Russo mi guardò. — Allora? — disse. — Che cosa intendi fare?
— Ne abbiamo già parlato, Russo. Non ti consegnerò agli italiani. Hai la mia parola. — Era la verità. Nessuno a Singapore aveva la minima intenzione di consegnare Russo al governo italiano.
— Forse non ora. Ma puoi garantirmi che in futuro potrò lasciare Singapore quando e come vorrò?
Non dissi nulla.
— Lo vedi? — riprese Russo dopo un po’. — Se vengo a Singapore, il mio destino è segnato. Dovrò restarci per il resto della mia vita. E se un giorno ci fosse un nuovo governo, con nuovi orientamenti politici? Mi dispiace, Banshee, ma non sono disposto a correre il rischio. Ho una casa a Giacarta, ho amici potenti. Ho dei soldi. E in questo paese, se hai abbastanza soldi e gli amici giusti, puoi fare quello che vuoi. Perché mai dovrei venire con te? Per passare il resto dei miei anni in un bilocale dell’HDB a Jurong o a Tampines, sempre con la spada di Damocle di un’estradizione sul capo? No, grazie, Banshee. Che tu lo voglia o no, le nostre strade si dividono qui. Prova a fermarmi se ci riesci. Sei disarmato.
— Be’, questo non è del tutto esatto — dissi, tirando fuori di tasca la Ruger.
Sembrò sorpreso, anche se non particolarmente preoccupato. — E quella da dove salta fuori? Mi avevi detto di non avere armi.
— Quando te l’ho detto era vero, ma eravamo a Timor. Questa è Bali.
Restò zitto per un po’, poi le sue labbra si incresparono in un ghigno. — D’accordo — disse. — Hai una pistola. Ma sei davvero convinto di poterla usare?
Non stava più guardando me. Stava guardando un punto alle mie spalle. Sentii una presenza.
— Non ti voltare — disse una voce femminile dietro di me. Non avevo bisogno di vederla in faccia per sapere chi era.
— Sei tu, Farida?
Venne nel mio campo visivo. Aveva un paio di jeans e una maglietta nera. E una Beretta in mano, puntata verso il mio stomaco. L’odio nei suoi occhi brillava come una fiamma.
— Molla la pistola, sbirro.
Aprii la mano e lasciai cadere la Ruger sulla sabbia.
— Tu invita una bella ragazza nella tua stanza, e guarda quella come se la prende. Giuro che se avessi saputo che ti offendevi così, non ti avrei nemmeno offerto da bere.
— Brutto sbirro bastardo, pensi di poter possedere tutto e tutti? Non farti illusioni, quello che è successo la notte scorsa aveva un unico scopo: tenerti d’occhio.
— Non perdere tempo con le stronzate, Farida — urlò Russo. — Uccidi quel figlio di puttana e leviamoci dai coglioni in fretta.
Farida non lo guardò nemmeno. Russo urlò ancora più forte.
— Uccidilo, Farida. Adesso! Se no, dammi la pistola che lo ammazzo io.
Farida si scosse. Cominciò lentamente ad alzare la Beretta. Per un attimo la morsa del dubbio mi strinse lo stomaco. Gocce di sudore presero a scorrermi lungo la schiena.
— Sei davvero sicura di quello che fai? — sussurrai.
La canna era ormai livellata con la mia gola.
Le guance di Farida brillavano pallide sotto i raggi della luna. Fece per dire qualcosa ma non ne ebbe il tempo. Sussultò, come se qualcuno l’avesse strattonata. Il viso le andò in pezzi. Cadde a terra senza fare rumore. Quasi non registrai lo sparo attutito dal silenziatore.
Lo shock cominciò a disegnarsi sul volto di Russo. Poi arrivò l’orrore. E la rabbia. Infine, la paura. Il corpo di Farida ebbe un ultimo spasmo e restò immobile.
— Che diavolo... — cominciò Russo.
Una figura uscì dall’oscurità, un filo di fumo che ancora aleggiava attorno alla canna silenziata della sua Heckler & Koch.
— Ciao, Russo. Era tanto che non ci si vedeva.
Ci mise un paio di secondi a riconoscerlo. D’altro canto, da quando avevano iniziato la loro collaborazione con il JID, si erano incontrati solo un paio di volte. E nonostante parlassero la stessa lingua e avessero più o meno la stessa età, non si erano mai trovati reciprocamente simpatici. Forse perché a suo tempo erano stati sui lati opposti della barricata.
— Sergio Biancardi. Lurido, schifoso figlio di troia. — Poi guardò me. — Era tutto preparato, fin dall’inizio?
Annuii.
— Razza di bastardo — mi sibilò contro. — Avrei dovuto aspettarmelo. Hai usato il tuo boia preferito.
Mi strinsi nelle spalle. — Ho solo preso le mie contromisure. Tu hai usato Farida, io Sergio. Siamo pari. A proposito, è stata lei ad avvisare i singaporeani oggi pomeriggio, non è vero? Come faceva a saperlo, ci stava venendo dietro?
Non rispose. Raccolsi la Ruger da terra. Russo cercò senza riuscirci di cancellare l’apprensione dal viso.
— E adesso cosa avete intenzione di fare?
Non dissi nulla. Il suo sguardo livido passò dalla mia pistola a quella di Sergio poi ancora alla mia.
— Ok, Banshee, hai vinto — biascicò rassegnato. — Verrò con te a Singapore. Non ti darò problemi, te lo giuro.
— Mi dispiace, Russo. C’è stato troppo chiasso attorno al tuo nome. Pensi che possiamo permetterti di andare a raccontare a tutti quello che hai fatto per noi?
— Non dirò nulla, fidati.
— Tu al posto nostro ti fideresti?
— E allora chiudetemi in una casa. Mettetemi agli arresti domiciliari. Non siete obbligati a darmi in pasto agli italiani, l’hai detto tu stesso che non lo avresti fatto.
— Mi dispiace, Russo. Ho mentito. Singapore non ti considera così importante da scatenare una crisi diplomatica. Se ci rifiutassimo di consegnarti, la nostra immagine sarebbe irrimediabilmente compromessa e rischieremmo ritorsioni dall’intera Unione Europea. Ma se ti consegnassimo, le ripercussioni sarebbero altrettanto gravi, se non peggio. Come vedi non abbiamo molta scelta.
Mi guardò. La paura gli aveva alterato il volto, dandogli tratti grotteschi.
— E allora lasciami andare. Sparirò, te lo prometto. Ho amici potenti in Indonesia, mi aiuteranno.
— Ti sei fatto prendere una volta. Potrebbe succedere ancora.
Ci fu un lungo silenzio. Alla fine fu Sergio a romperlo.
— Lascia che lo faccia io, Banshee. È una cosa tra noi, veniamo dallo stesso paese. Con lui ho un conto in sospeso da anni.
— Sta’ zitto, Sergio — dissi senza voltarmi. Guardai Russo negli occhi. Non è facile guardare negli occhi un uomo quando stai per ucciderlo, ma tutto sommato è un atto dovuto.
— Vedi, Russo, fino a poco tempo fa credevo che io e te fossimo diversi. D’accordo, come a te, anche a me piace il rischio. Piace l’odore della polvere da sparo. Lo sballo dell’adrenalina. Ma ero pure convinto che a me non piacesse l’odore della morte. E che non mi piacesse uccidere, soprattutto a sangue freddo.
— E allora?
— Ho scoperto che non è vero, che in fondo non siamo così diversi. Perché nel giro dei prossimi sessanta secondi ti ucciderò. E la cosa, tutto sommato, non mi dà grossi problemi.
— Piantala di fare lo stronzo, Banshee, ho una proposta da far...
Sollevai la Ruger. — Sorry, Russo.
— No! Aspetta...
— Time over.
Premetti il grilletto senza mirare. Ero abbastanza vicino per un tiro istintivo. Lo centrai al petto. Cadde all’indietro. Una macchia scura gli si allargò sulla camicia. Rantolò, fra gli spasmi, infine restò immobile.
Sergio accese una sigaretta, fece due passi avanti e gli tastò il corpo con la punta della scarpa.
— Ora è un problema degli indonesiani — disse. — Giampiero Russo è entrato in Indonesia, pare accompagnato da tale monsieur Didier Jobert, cittadino belga, ed è scomparso. Si sospetta che c’entri la malavita organizzata locale. Mi sembra che abbiamo fatto un discreto lavoro. Anche se continuo a pensare che avresti dovuto lasciarlo a me.
— Perché non provi un po’ a farti i cazzi tuoi?
Allungai la mano, gli strappai la sigaretta dalle labbra e aspirai a fondo. Mi guardò come incuriosito, si strinse nelle spalle, tirò fuori un’altra sigaretta e l’accese. Poi sparì fra la vegetazione, lasciandomi da solo in compagnia di due cadaveri.
Un minuto più tardi sentii un motore avvicinarsi. Un pickup Colt Mitsubishi si fece avanti a luci spente e si fermò. Ne scese Sergio.
— Aiutami — disse.
Sollevammo i due corpi ancora caldi e li caricammo sul pickup. Sergio li coprì con un telone.
— Li farò sparire. Ti serve altro?
— Una donna, forse. O, meglio ancora, una bottiglia di whisky.
— La donna costa meno.
— Ma la bottiglia non parla.
— Mi spiace, Banshee, ma non sono pronto ad affrontare temi così profondi. Invece, per passare a cose pratiche, quando vedi il vecchio potresti dirgli che vorrei discutere del mio compenso? È rimasto lo stesso di quattro anni fa, mentre il costo della vita in Indonesia è quasi raddoppiato.
— Vedrò cosa posso fare:
— Ci conto. — Accennò col capo ai corpi sul pickup. — Come facevi a sapere che ci sarebbe stata anche la donna?
— Non ne ero certo.
— Ma te lo aspettavi.
— Be’, sì. Quell’incontro a Dili era troppo casuale per essere vero. Bella donna, sola nell’anticamera dell’inferno, guarda caso bloccata a Dili proprio quando ci arrivo io, guarda caso proprio nel mio stesso albergo, guarda caso disposta a farsi portare a letto dopo aver scambiato appena quattro parole... Tu ci avresti creduto?
Mi fissò incuriosito.
— Ah, avevo avuto la sensazione che fra voi ci fosse stato qualcosa. Ne è valsa la pena?
— Fatti i cazzi tuoi.
— Me l’hai già detto. Questo è il ringraziamento per averti salvato la pelle. Ci si vede, Banshee. Fai buon viaggio, domani.
Raccolse la Beretta da terra, mi prese la Ruger di mano, poi mi diede una pacca sulla spalla, salì sul pickup e se ne andò.
Restai per un po’ a guardare la luna sorgere sopra lo stretto di Lombok. Era piena, grande e striata di sangue. Uno spettacolo da far avvampare di passione gli amanti e intenerire il cuore agli sposini che si fiondano a Bali in luna di miele.
Caddi sulle ginocchia, mi piegai in avanti e vomitai sulla sabbia.