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Il commissario di quartiere risolse la situazione identificandomi e telefonando in ambasciata, poi mi comunicò che sarei stato espulso.
Poiché non ricoprivo alcun incarico ufficiale avrei dovuto lasciare Beirut nell’arco di ventiquattr’ore, pena l’accompagnamento in aeroporto sotto scorta armata. La mia denuncia d’aggressione non fu nemmeno verbalizzata e il tonfa che avevo recuperato, forse perché abbastanza simile a quello che pendeva dalla cintura degli agenti, sparì dalla circolazione, insieme alle impronte digitali sul manico. Era una procedura normale in una città che contava almeno una decina di morti ogni giorno in azioni di guerra e guerriglia, tralasciando gli omicidi imputabili ai clan mafiosi collegati al traffico di droga o affiliati alle famiglie che detenevano il potere politico.
Il commissario mi fece comprendere che la Skorpion non mi aveva sparato perché qualcuno aveva soltanto voluto impartirmi una lezione su come andavano le cose in quei pochi chilometri del diavolo. La prossima volta le armi avrebbero fatto fuoco per uccidere. Così, per evitare che qualche inerme cittadino ci andasse di mezzo, la mia pistola fu sequestrata.
Erano ormai le due del pomeriggio quando l’ordine d’espulsione, convalidato dal ministero degli Esteri libanese, mi veniva spiattellato sotto il naso: anche nei paesi dove la lentezza burocratica è una prassi ordinaria, l’impossibile può diventare una realtà.
7
Evitai di riprendere contatto col personale dell’ambasciata, soprattutto perché ignoravo quanto potesse essere coinvolto. E poi Vlora mi avrebbe bloccato fra quelle mura fino al momento d’impacchettarmi e spedirmi via su un aereo, visto che lui stesso mi aveva ordinato di sospendere ogni attività operativa.
Ero solo, maledettamente solo, ma per me non era una novità.
Mi accertai di non avere nessuno alle calcagna, m’infilai in un taxi fra i meno malconci in circolazione, obbligai l’autista a compiere giri viziosi per seminare i tipi curiosi e infine gli ordinai di puntare sulla cittadina di Khalde.
Dalle parti della capitale erano ripresi i tiri delle artiglierie e contro il cielo si levavano grigie colonne di fumo. Erano ripartite le operazioni contro le concentrazioni qaediste nei campi profughi palestinesi e nelle prossime ore la tensione sarebbe salita ancora. Lungo l’autostrada avevamo incrociato colonne di cingolati e d’autocarri carichi di truppe regolari. Lo spazio aereo era pattugliato da elicotteri.
A Khalde, la paura aveva mantenuto le strade vuote. Allo sbocco della rotabile non rilevai nemmeno l’autoradio della gendarmeria. Mi feci lasciare a una certa distanza dal suk e procedetti a piedi fino a Place Sultan Yakoubi in un’atmosfera di cupa attesa, le viuzze deserte, le saracinesche abbassate, le finestre sprangate. Il cielo del tramonto fregiava di pennellate purpuree le terrazze e i muri bianchi delle abitazioni, e una brezza rovente cavava una sinfonia sinistra dai cavi volanti della luce. Nuvole di polvere rotolavano basse, spingendo ovunque foglie secche e spazzatura.
Non entrai nella piazza, vi girai attorno imboccando un vicolo: una fognatura a cielo aperto, i liquami che vi scorrevano al centro. Raggiunsi la parte posteriore dell’officina. Oltre un basso muro di mattoni s’allargava un cortile disseminato di parti di ricambio ammonticchiate, motorini arrugginiti, rottami metallici inclassificabili. C’erano anche due Mercedes senza ruote, i mozzi appoggiati su una pila di pietre.
Il luogo era deserto, la porta sul retro chiusa, ma la finestrina con i vetri sudici mostrava uno spiraglio. Superai lo spiazzo che odorava d’olio bruciato e di benzina, fra pile di radiatori forati e vecchi carburatori. Mi avvicinai all’imposta socchiusa. Allargai lo spiraglio e rividi il locale che aveva ospitato il Wrangler. Era immerso nel silenzio. Una tetra luce al neon sfarfallava su un banco da lavoro disseminato di cacciaviti e chiavi inglesi. Mi guardai attorno, aprii la finestra e superai il davanzale. Facendo attenzione a dove mettevo i piedi compii un cauto giro del locale. Forzai la serratura di una porta metallica: immetteva in un vano quasi tutto occupato da due larghe cappe munite di potenti aspiratori. Sotto erano collocati un paio di crogioli appoggiati al centro d’una batteria concentrica d’ugelli.
Il tutto appariva primitivo e pericoloso: i recipienti si piegavano alla trazione di leve d’acciaio e il sistema riscaldante era collegato da semplici tubi di gomma a grosse bombole di gas fissate alle pareti. Il rischio d’incendio o di esplosione era fortissimo, ma tutto ciò non doveva preoccupare chi trafficava attorno alle cappe.
I crogioli dovevano contenere una decina di litri ciascuno e all’interno apparivano perfettamente levigati. L’altra apparecchiatura presente nella stanza era una grossa macchina con tracce brunastre sulle flange il cui elemento più interessante era un minuscolo cartellino: la qualificava come un filtro a pressione di fabbricazione svizzera. Su un ripiano erano appoggiati contenitori d’acciaio, altri più piccoli giacevano sul fondo di un capiente lavello. Un odore pungente aveva sostituito quello dei combustibili, un lezzo addirittura aggressivo vicino al filtro a pressione.
Non mi azzardai ad aprire la bocca d’alimentazione, ma rilevai che l’ugello d’uscita mostrava tracce di corrosione. Incuriosito, tornai ai recipienti d’acciaio nel lavello. Facendo scorrere un polpastrello sul fondo di tutti, recuperai i residui di un impalpabile pulviscolo nerastro che lo sfregamento non riuscì a cancellare. L’odore, molto blando, era quello che aleggiava nella stanza. Un chimico avrebbe immediatamente capito. Io mi limitai a trasferire sul fazzoletto le tracce scure rilevate nei recipienti.
Un lieve rumore proveniente dall’officina, un urto contro un oggetto metallico. Mi catapultai in un angolo dietro la porta, al riparo di alcuni fusti di plastica. Lessi l’etichetta: erano pieni d’idrato di potassio, sostanza capace di corrodere i metalli leggeri. Attesi che l’uscio si aprisse su quelle strane apparecchiature obsolete per la tecnologia occidentale, ma che in quella hell’s kitchen potevano rappresentare un pericolo non solo potenziale.
Il battente cigolò e lo spiraglio si allargò sul solito tipo minuto infagottato nella tuta sporca di grasso: il tubo al neon sfarfallò sul colorito bruno del viso rendendolo ancora più inquietante, quasi non bastasse l’ascia impugnata con la sinistra. Sulle dita rattrappite era ben visibile l’anello verdastro. Una fasciatura gli immobilizzava al collo il braccio destro.
Ruotò lo sguardo attorno, la tensione che accentuava l’aggressività dei lineamenti. Senza aspettare che girasse la testa gli lanciai addosso un fustino di potassa, e prima che potesse sollevare la scure ne afferrai un altro per il manico, lo mulinai a tutta forza e glielo sbattei in pieno viso. L’uomo perse l’equilibrio e ruzzolò contro il filtro a pressione. Tentò di fuggire cercando di superare l’ostacolo, ma inciampò in un tubo del gas e l’ascia gli cadde di mano. Non la recuperò: una sventola di ritorno col fustino lo appiattì contro il lavello, le labbra spaccate e insanguinate.
Gli strappai la fasciatura dal braccio, e una leva sulla spalla lussata lo gettò in ginocchio sul pavimento, all’altezza giusta perché una pinza da forgia gli imprigionasse il collo fin quasi a soffocarlo. Vidi il viso cianotico e allentai la pressione. L’anossia gli aveva intorpidito muscoli e nervi.
Il meccanico crollò a sedere per terra, gli occhi sbarrati e le labbra che inspiravano aria e sangue. Tossì prima di annuire e annunciare la sua resa.
— Conosci le regole del gioco, è inutile che mi dilunghi in chiacchiere. Sai benissimo che da qui non esci intero se non sei più che esplicito. Cerca di essere chiaro e conciso, perché di spiegazioni ne pretendo parecchie. Prova a imbrogliarmi e le ganasce della pinza non si allargano più.
— Ho fatto solo quello che mi hanno ordinato.
— E bravo soldatino! La disciplina te l’hanno insegnata nella Falange di Gemayel, vero? Ma con i siriani, gli Hezbollah e le milizie palestinesi in circolazione, le convinzioni politiche contano meno dei quattrini. In questo caos l’unico obiettivo è fare soldi e sopravvivere... ma tu l’hai mancato. Sai cosa penso? Qui dentro ci rimetti i polmoni ancora prima che qualcuno ti spedisca al diavolo con una pallottola. A che serve tutta questa potassa?
— È per i filtri delle cappe: vanno cambiati dopo ogni operazione.
— Dopo mi spiegherai quale, ora mi devi parlare del Wrangler. Era pulito quando mi sono messo alla guida: come ha potuto disintegrarsi?
— Non ne so niente! — balbettò livido. — Mi hanno solo detto di passarlo a lei assieme alle informazioni.
— Chi?
— Quello che me l’ha portato: il cuore d’oro del Soccorso internazionale con la sua amica biondina.
— Credevo se ne fosse occupato il dottor Vlora dell’ambasciata.
— So solo che col Wrangler sono arrivati quei due. Io l’ho revisionato e ho fatto il pieno. A me è parso pulito... come a lei, del resto.
— Però è saltato in aria. Dov’è l’inghippo?
— Non lo so, ma forse basta fare uno più uno.
— Non sei il primo a dirmelo. Dove ha sede il Soccorso internazionale qui a Khalde?
— A cinque chilometri, discendendo la statale. Palazzina bianca con l’insegna dell’Unione Europea.
— Come ti chiami?
— Hassim.
— E bravo Hassim! All’ambasciata sostengono che sei degno di fiducia perché li hai avvertiti dei trecento chili di esplosivo quando al Qaeda ha cercato di demolirla. Io credo che ancora una volta tu abbia giocato sporco. Non mi piace la tua fedeltà a tutte le bandiere! Amico dei siriani, dei falangisti, degli italiani, magari degli sciiti...
— Non so altro del fuoristrada.
— E di questa stamberga che mi racconti? Non ci fondi i pezzi di ricambio, vero? I vapori che generi corrodono gli anelli con lega ad alto contenuto di rame, come quello che porti. Non sono un chimico, ma so che soltanto il cloro riesce a farlo.
Non comprese, ma abbozzò.
— Qui trattiamo quello che ci mandano e non vogliamo saperne di più. I barilotti ceramicati, pieni del liquido che irrita la gola e brucia gli occhi, arrivano una o due volte al mese. Ci hanno spiegato di aggiungere il contenuto di una delle bottiglie verdi che ci hanno inviato. La soluzione puzzolente s’intorbida, poi genera una polvere scura che isoliamo nel filtro a pressione. Anche quella roba ha un lezzo che corrode il naso e fa tossire. La laviamo nei recipienti d’acciaio, ma puzza ancora quando la mettiamo nei crogioli a scaldare fin quasi a 1.500 gradi. Quelle pignatte vomitano fumi gialli e verdi e le cappe faticano a smaltirli. — E cosa ne colate?
Il meccanico scosse il capo e cercò di sorridere. — Lei che né dice?
— Mi hai parlato di bottiglie verdi: cosa contengono?
— Sull’etichetta c’è scritto acido ossalico, ma non so cosa sia.
— Chi te le ha fornite?
— Parlo del peccato, non del peccatore. Quello è più pericoloso delle pinze da forgia.
— Vuoi riprovare la cravatta di ferro?
— L’avrebbe già fatto se non fosse così curioso di sapere cosa ricavo dal liquido che mi spediscono dall’estero.
— Comincia a dirmi da dove.
— I barilotti ceramicati, cinque o sei alla volta, me li porta un marinaio greco. Alla dogana di Beirut li fa passare come concime liquido, ma là passano anche i lanciarazzi. Siccome lavora su un traghetto dice che i problemi può averli con la polizia di Cipro, perché è da lì che provengono.
— Da Cipro?
— Penultima destinazione, ma probabilmente arrivano da più lontano.
Sollevai la pinza e mi capì senza che aprissi le ganasce.
— Da quella brodaglia velenosa io colo tanti bei lingotti d’oro scintillante, e tutti per il suo amico Manlio Angeli.
8
I biglietti da venti dollari fanno miracoli con chi sbarca il lunario recuperando metalli dalla discarica e li ammonticchia su un furgone pavesato con le bandiere gialle e verdi di Hezbollah. Le ideologie e le fedi religiose non contano nulla in un paese dilaniato da odii ancestrali, dove per combattere il nemico spesso ci si serve del suo avversario.
È bravo chi capisce qualcosa delle faide fra Hamas e le frange qaediste, dei traffici fra gli agenti americani e i sunniti libanesi da impiegare come quinte colonne nella guerra irachena contro gli sciiti di al Sadr. E nemmeno gli israeliani stanno alla finestra, pronti a rinnovare le devastazioni dell’estate 2006, nonostante la presenza dei contingenti internazionali.
Me lo confermò un ragazzo che doveva tre dita d’una mano e un occhio all’efficacia d’una cluster di Gerusalemme, mentre a bordo del suo scalcinato furgone mi dava un passaggio sulla statale, diretto alla sede di Soccorso internazionale.
Mi trovai così a pochi passi da una palazzina bianca circondata da uno squallido giardinetto brullo, due ambulanze relegate poco lontano sotto una tettoia con la croce rossa. Nessuno in giro, qualche vettura che transitava frettolosa sulla strada, ululati di randagi provenienti dalle lontane discariche di macerie.
Avevo legato il meccanico col filo di ferro e speravo che impiegasse un po’ di tempo per liberarsi e contattare chi poteva nuocermi, magari il padrone della casa verso la quale mi stavo incamminando. Qualche spiegazione me la doveva, assieme alla sua giovane collaboratrice, e magari poteva anche dissolvere le zone d’ombra che aleggiavano attorno al dottor Vlora, collega del sismi a Beirut.
Il responsabile della sicurezza non mi voleva fra i piedi, nonostante fossi l’unico che potesse testimoniare direttamente l’eliminazione di Northaller. E si era voluto uccidere solo lui? Quel che accadeva nella fonderia di Hassim poteva aver attirato l’attenzione del commissario Abbas ibn Rabiah, facendone un candidato all’obitorio. E lì era finito assieme all’americano che, secondo Justine Nuri La Reine, era un giornalista con buon fiuto.
Sospirai. Il momento esigeva un po’ più di prudenza e rendeva necessario un giro di perlustrazione prima di suonare il campanello. Mi diressi alla tettoia che ricoverava le ambulanze, seguendo le tracce di un robusto fuoristrada che segnavano lo spiazzo di terra fra la rimessa e la strada. Le impronte erano molto diverse da quelle lasciate dai due mezzi di soccorso, ma se c’erano le tracce, mancava chi le aveva lasciate.
Le ombre mi avvolsero più cupe del silenzio. Il radiatore delle ambulanze era ancora tiepido e attorno aleggiava un leggero odore di disinfettante. Percepii qualcosa d’umano, di fisiologico, un tanfo che mi fece immediatamente rimpiangere d’essere disarmato. I miasmi della morte precedettero di un attimo la visione del piccolo corpo a terra fra le due vetture, il caschetto biondo che faceva macchia, lo sberleffo delle labbra contratte a scoprire i denti sul volto in penombra. Il raggio della minuscola torcia che mi accompagnava sempre illuminò il viso congestionato e la sottile striscia appena più chiara dove il laccio aveva soffocato la vita.
Chi aveva commesso l’omicidio era un dilettante: aveva impiegato un bastoncino per garrotare la vittima ed essere certo di vincerne la resistenza. Un dilettante fortunato che aveva contato sulla sorpresa. Non notai segni di colluttazione. La dottoressa aveva perso i sensi ed era morta prima ancora di capire che portava con sé i segreti della sua collaborazione nell’eliminazione dell’americano... o del commissario.
Già, chi dei due era arrivato più vicino al contrabbando dell’oro? Chi avevano voluto assassinare? E come?
Spensi la torcia. Se l’eliminazione dei complici era cominciata, significava che presto il traffico sarebbe cessato in attesa di tempi più opportuni, nel migliore stile mafioso.
Sì, se volevo scoprire il movente dovevo lasciare in fretta Beirut, se non altro per salvare la pelle. Chi aveva strangolato, o fatto strangolare, la dottoressa non poteva più lasciarmi in circolazione. Dovevo scappare, ma non prima di rivolgere un saluto di cortesia al dottor Vlora. A quel punto glielo dovevo. L’avrei incontrato l’indomani mattina, sicuro d’essere ricevuto!
9
Atterrai a Hania poco prima di mezzogiorno e telefonai immediatamente al dottor Valutti, viceconsole a Iraklion.
— Si rende conto che ci sono quaranta gradi all’ombra? — obiettò in falsetto.
— E lei si rende conto che se la vengo a trovare non faccio il viaggio per nulla? Si faccia i suoi centocinquanta chilometri e cerchi di contattare personalmente, e al più presto, il suo caro amico Mironides Heliartos, quello con più conoscenze nel Golfo che nelle cancellerie europee. Non ho incisioni di Dürer da vendergli, ma qualcosa da raccontargli che vale altrettanto.
Mi rilassai per tutto il pomeriggio sulla terrazza del Venezia in compagnia d’una birra. La luce del sole regalava emozioni a chi ammirava l’arco policromo delle abitazioni che si specchiavano nelle acque del porto. Il celeste, il giallo e il rosso delle facciate avevano raggiunto il massimo dell’intensità sotto il cielo del tramonto, quando la Rolls Phantom ricomparve sul molo per fermarsi a poppa del catamarano.
Le guardie del corpo spalancarono le portiere a un corpulento anziano che si appoggiava a un bastone bianco come il completo che indossava, incluso il panama. Era più basso degli uomini che lo circondavano, la pelle scura, i capelli bianchi che lambivano le spalle, il volto nascosto da occhiali che pesavano sugli zigomi pronunciati e sul profilo aggressivo del naso. Aveva passato la settantina, ma camminava spedito e in breve scomparve dietro il profilo dell’imbarcazione. Poco dopo lo vidi ricomparire sopra coperta, dietro la plancia, dov’era stato teso un ampio tendone rosso che riparava una fila di sdraio. Rimase qualche attimo appoggiato alla battagliola, la sigaretta fra le dita, poi si sedette a contemplare la veranda del Venezia.
Finii la terza birra e scesi sul molo, le mani in tasca. Quando raggiunsi la passerella, la Rolls aveva già fatto retromarcia e le due guardie del corpo si limitarono a squadrarmi. Una mi annunciò al laringofono, l’altra mi indicò di proseguire.
Salii a bordo nell’indifferenza della dozzina di persone sul ponte e in plancia, indaffarate a lustrare o a registrare gli strumenti di navigazione. Solo lo steward filippino mi degnò di un mezzo inchino quando mi fece accomodare fra le sdraio.
Heliartos mi dava le spalle, massicce e un po’ incurvate. Sorseggiava lentamente ouzo con ghiaccio. Nel portacenere abbondanti mozziconi di Marlboro.
— Un comune amico mi ha riferito che ha lasciato Beirut stamane. Una città che non regala simili spettacoli dorati al tramonto, vero?
— No, ma laggiù l’oro è molto più reale. Ne ho viste tracce in una fonderia di Khalde. Non ne aveva proprio l’aspetto, ma tale era e presto ne avrebbe riassunto le sembianze. Ho immaginato che lei potesse saperne qualcosa.
— Per quale motivo? I miei affari coprono attività molto differenti e...
— Non lo metto in dubbio — mentii con la massima tranquillità. — Tuttavia una persona che tratta quella polvere mi ha riferito che alla questione si sono già interessati individui per nulla benevoli come il sottoscritto. Ho pensato d’informarla, perché lei possa prendere provvedimenti. Signor Heliartos, non è mio interesse nuocerle e sono convinto che lei mi capisce... e anche molto bene! Le informazioni secondo cui ingenti quantità d’oro vengono contrabbandate in Libano sono ormai giunte sui tavoli dei principali servizi occidentali. Mi creda, io sono qui solamente per evitarle guai peggiori. Il tentativo di chiudere l’indagine assassinando un funzionario di polizia assieme al giornalista che aveva sospettato il traffico è fallito, ed è arrivato il momento di pagare le conseguenze. Signor Heliartos, so che lei ha molti interessi in Medio Oriente e non spetta a me indagare sui motivi che l’hanno portata a collaborare con un movimento terrorista come 23 Ottobre, ma nel contrabbando lei è coinvolto in prima persona. L’uomo che si occupa di acquistare oro in mezzo mondo, scioglierlo in acqua regia e farlo arrivare a Khalde perché venga precipitato, filtrato e rifuso è lei. Le ispezioni delle marine internazionali al largo delle coste libanesi sono un rischio, meglio quindi contrabbandare il materiale prezioso sotto forma di un liquido bruno insospettabile, magari classificato come concime. Nessuno mette il naso volentieri nei prodotti chimici, doganieri compresi. Quel che succede poi in Libano è semplice e i lingotti rifusi giungono facilmente a destinazione. Io le chiedo quale, signor Heliartos. Il gruppo sciita 23 Ottobre è autonomo rispetto all’Hezbollah e il mio sospetto è che sia legato direttamente al regime di Teheran. Con le portaerei americane sulla porta di casa, il fiato delle Nazioni Unite sul collo e l’inflazione che divora il potere economico, mi rendo conto che è difficile mantenere la credibilità finanziaria. Loro è sempre un ottimo bene rifugio nei momenti difficili, ma acquistarlo sul libero mercato, anche vendendo petrolio a cento dollari il barile, può dare nell’occhio. Meglio procurarselo di contrabbando, in silenzio, grazie a certi amici compiacenti come lei. Una politica seguita da tanti dittatori, Ceausescu e Idi Amin in testa, quella di racimolare per pochi soldi gli ori delle nonne in mezzo mondo e trasformarli in tanti bei lingotti da depositare nei forzieri delle banche di Stato. Non le chiedo in quanti siete implicati in questa operazione di... rastrellamento, ma immagino la imitino decine di farabutti sparsi in Europa, Asia e chissà dove. Solo... solo che lei è stato smascherato.
Le mie parole sembrarono palle di neve su un muro.
— Lei ha avuto molto coraggio a venire a trovarmi — disse alla fine. — Tuttavia temo di non poterle essere di aiuto perché...
— Signor Heliartos, le ho anticipato che non intendo essere causa della sua rovina, e nel nostro genere d’affari la rovina avviene sempre a causa di un inaspettato incidente. Questo stupendo catamarano potrebbe incappare in un residuato bellico entrando nel porto di Dubrovnik, o alla sua Rolls potrebbero guastarsi i freni mentre avanza sul molo. Inoltre il sapore dell’ouzo è ideale per nascondere quello di molti tossici e fra le belle ragazze che sono sue ospiti ne potrebbe capitare una con un’abilità particolare nel disarticolare le vertebre. So di un’affascinante massaggiatrice in forza al Mossad che conosce diciotto modi d’ammazzare senz’armi... Con gente del genere ho avuto uno scambio d’opinioni stamattina stessa, poco prima di decollare dal Libano. Gli israeliani sono attivi a Beirut, soprattutto da quando l’esercito libanese s’è impegnato a svuotare i quartieri palestinesi dai mercenari del Fatah al Islam. Non che collaborino, ma... osservano da vicino. E lei non dovrebbe ignorare il numero degli yassim qui a Creta, tranquilli ma con un occhio sempre vigile. Veda un po’ se le conviene essermi contro.
Questa volta un piccolo risultato l’ottenni: il greco vuotò il bicchiere oltre la battagliola e si degnò finalmente di voltare il capo e puntarmi contro le lenti fotocromatiche.
— Avere il Mossad alle costole non protegge le coronarie, signor Costa — sorrise mellifluo.
— Il mio interlocutore libanese s’è dimostrato disposto a dialogare; gli basta che lei la smetta di racimolare oro e si faccia da parte. Come molti ebrei è commerciante e uomo d’affari, quindi comprende quando non è il caso di stringere troppo il cappio. Se lei taglia i ponti col gruppo 23 Ottobre, il Mossad seppellisce il suo fascicolo, e fino alla sua prossima idiozia se lo dimentica sottoterra.
— Ho amici anche dall’altra parte.
— Quelli non li conosco e non rispondo dei loro atti. Sta a lei trovare la contropartita alle sue azioni. Magari invii latte ai bambini di Gaza, così si propone per il premio alla bontà! Non m’interessa affatto conoscere come convincerà i suoi amici iraniani, palestinesi, siriani o Hezbollah a non spedirla all’inferno.
Sollevò le lenti sulla fronte scavata da rughe profonde e mi fissò con le iridi slavate.
— E qual è il suo tornaconto, signor Costa? Il suo avvertimento mafioso non è gratuito, vero? Tutto è a pagamento per quelli che fanno il suo mestiere.
— Mi sono limitato a farle una proposta che non può rifiutare. Nel caso non l’accettasse le ho prospettato le conseguenze. Per poco non sono saltato in aria la notte che hanno liquidato Northaller, quindi vorrei vedere in faccia chi ha guadagnato da questa operazione. Non gli esecutori, ma il mandante al quale lei, Mironides Heliartos, fornisce direttamente l’oro.
— È una figura che potrebbe regalarle sorprese, signor Costa.
— Non vorrei sobbalzare troppo, ma gradirei che il nostro incontro risultasse professionale al massimo livello — sorrisi.
— Ovvio, visto che entrambi siete professionisti. Con ciò lei mi assicura che io chiudo con i servizi israeliani?
— Non ne sentirà più parlare: non capita tutti i giorni di poter tagliare una linea di credito a Teheran. Quando pensa di poter organizzare l’incontro?
— Non prima di domani pomeriggio; anch’io ho tempi tecnici da rispettare.
— Qui a Creta?
— Visto quel che succede in Libano è più sicuro per tutti e due.
— Due? Rimango perplesso sul numero, signor Heliartos! — conclusi enigmatico.
10
Il frinire delle cicale quasi stordiva chi si avventurava fra le torri e il bastione del vecchio forte turco affacciato sull’indaco della baia di Suda. Sotto di me, il sole calcinava le pietre squadrate della solitaria fortezza veneziana, gendarme del golfo.
La giacca slacciata e il cappello basso sulla fronte per riparare lo sguardo dalla lama di luce riflessa dalle acque, avanzai cauto fra i massi che digradavano verso il mare. Che ci fosse qualcuno nei paraggi l’avevo avvertito dalla scalcinata Citroën abbandonata sul bordo della statale. Ero atteso. Scendevo fra gli sterpi lungo un sentiero da capre cosparso di massi, lo sguardo vigile a valutare un movimento, l’orecchio teso a percepire qualunque brusio diverso dal verso delle cicale e dall’infrangersi delle onde contro la scogliera.
Buone intenzioni, ma non avvertii nulla e sobbalzai quando sentii i rovi spezzarsi alle mie spalle. Ebbi appena il tempo di voltarmi, che il silenziatore montato sulla Makarov mi si appoggiò fra gli occhi e premette forte.
— In ginocchio, signor Costa... e alzi le mani!
Era contro sole, le lame di luce mi abbagliavano, e non definii immediatamente i lineamenti dell’uomo che avevo di fronte. Corporatura esile, i muscoli tesi e scattanti di chi è ben addestrato e, col passare dei secondi, le silenziose Nike dei commando urbani, i jeans un po’ frusti, la giubba mimetica aperta sul torace glabro e sudato. Infine misi a fuoco il volto: mai visto!
Avvertii la pressione del silenziatore, ma non mi feci impressionare. Se quell’uomo avesse voluto eliminarmi mi avrebbe sparato subito. Mi aveva concesso una possibilità perché avevo interessato la sua curiosità criminale. Ne avrei tratto il massimo vantaggio.
— Lei mi ha chiamato per nome, però io non conosco il suo —dissi in inglese.
La pressione diminuì, ma l’indice si contrasse sul grilletto. Strizzai gli occhi.
— Potrei dirle semplicemente che è tornata la nemesi del gruppo 23 Ottobre — rispose l’altro nella stessa lingua. Nell’alone abbagliante mi sembrò di distinguere il volto scarno incorniciato da un’ispida barba che cominciava a ingrigire, il profilo d’un naso sottile e arcuato, le labbra tumide segnate dalla nicotina. Non vidi il colore e la forma degli occhi, ma mi colpirono la fronte rugosa sfregiata da una recente cicatrice violacea e la capigliatura scura, fermata sulla nuca da un nastrino.
— Credevo che Kaled Hamed Karame non fosse sfuggito ai missili israeliani dell’altra notte — confessai in parte sorpreso.
— È quello che pensano tutti. Invece mi trovo qui a Creta. Devo smantellare la struttura clandestina che lei ha portato alla luce e gravemente compromesso, prima che il Mossad possa incunearsi nella breccia aperta dalla sua curiosità. Speravo anche di godermi una meritata vacanza, dopo la brutta avventura corsa con gli elicotteri delle forre speciali sioniste, ma lei mi ha costretto a dissotterrare la pistola.
— Non mi racconti storie: lei ha lasciato Beirut poche ore fa. Heliartos l’ha contattata in fretta e furia ieri al tramonto e lei è volato qui per valutare la situazione.
— Come fa a esserne tanto sicuro?
La pressione fra gli occhi tornò a farsi energica.
— Due notti fa ho visto il cadavere strangolato della dottoressa del Soccorso internazionale: un lavoro da dilettanti, o meglio d’un dilettante del quale si fidava. Lei è un professionista dell’omicidio, non ha bisogno di garrotare una ragazza per eliminarla. Non è stata la nemesi del gruppo 23 Ottobre ad assassinarla. Almeno di questo crimine lei è innocente.
— L’uomo che l’ha uccisa ha esaurito il suo compito col delitto. Prima di venire qui ho provveduto a liquidarlo. Ormai era un’entità inutile. La carogna di Manlio Angeli sta alimentando i pesci alla base delle Pigeons Rocks: una strizzatina al collo... da professionista. Non si è nemmeno accorto di morire. Facile.
— Invece per quella poveretta è stato tremendo.
— Non doveva mettersi in un gioco così pericoloso. Per poter partecipare all’eliminazione del giornalista e del poliziotto aveva preteso centomila dollari. Troppi, per rifarsi il guardaroba, non le pare?
— Avevo perquisito il fuoristrada da cima a fondo, era pulito: la bomba l’ha messa lei.
— Nel cuscino che doveva sorreggere l’americano per farlo respirare meglio. E Angeli s’era impegnato a procurarla. Per lui è stato semplice: godeva di conoscenze in tutti gli ambienti.
— Karame, com’è sopravvissuto all’attacco degli Apache di Gerusalemme. Nemmeno un superprotetto come lo sceicco Yassim c’era riuscito.
— Ho sacrificato un kamikaze fedele ad Allah quanto alla causa. Sapevo che dopo la liberazione i satelliti americani mi avrebbero monitorato fino alla conclusione dello scambio, e non ho fatto nulla per impedirlo. Dei vostri me ne infischiavo. Sapevo che non sono linkati col Mossad, ma quelli dell’NSA erano un piccolo problema. La mia vettura sarebbe stata seguita da ventimila metri d’altezza, come da una finestra al piano superiore, e ho provveduto. Al momento opportuno, mi sono infilato sotto un viadotto della superstrada a quattro corsie che da Sidone conduce alla valle della Bekaa, quella appena riadattata dai vostri genieri dopo gli attacchi dei Kfir. Ho fermato il motore e subito un veicolo simile al mio, stesso colore e stessa targa, è uscito sotto l’occhio del satellite. Azione ben combinata, nessuno se ne è accorto. Quando il Wrangler è esploso ed è scattata la rappresaglia della Sayeret Golani, il missile dell’elicottero ha ucciso soltanto un insulso martire del Profeta che viaggiava con due fantocci pieni di paglia. E così per tutti i servizi sono diventato una foto sulla quale tracciare una croce.
Tenendomi sotto tiro ravvicinato, m’allargò le falde della giacca e mi perquisì con sufficienza, divertito d’avermi giocato come il peggiore degli sprovveduti.
— Ma lei è disarmato, non ha pensato di doversi misurare con un pericoloso terrorista. La CIA e il SIS britannico avevano posto sulla mia testa una taglia di due milioni di dollari, dead or alive!
— Il fatto è che io non ho mai pensato di doverla eliminare.
— Lei ha sottovalutato la mia pericolosità e ora si trova con una pistola puntata alla testa. Io piazzo bombe, signor Costa, ordigni come quelli che hanno dilaniato il primo ministro Hariri e altri funzionari del governo libanese. È il nome del movimento del quale sono responsabile a spiegarlo. Ricorda cos’è successo il 23 ottobre 1983? Un autocarro penetrò nella base dei marine presso l’aeroporto di Beirut ed esplose: 241 morti. Nello stesso istante, a Beirut Ovest, un altro camion bomba investi la base dei paracadutisti francesi della forza multinazionale: 58 morti. Giornata fondamentale per l’orgoglio arabo: io ero solo un ragazzino, ma in quelle ore ho preso coscienza del mio destino. Il 23 Ottobre sarebbe diventato un incubo per l’Occidente, peggio dell’11 Settembre. Ora, almeno ufficialmente, nessuno pensa a darmi la caccia, e io sono libero di agire come voglio. Allora, prima di andarsene all’altro mondo, ha altre curiosità da soddisfare? Non resta che lei fra me e il destino che mi sono scelto.
— Sicuro che non debba ringraziare qualcun altro?
Socchiuse un attimo gli occhi e cercò di sorridere. — A chi allude?
— Solo una persona poteva sapere che mi sarei recato al Moustapha per parlare con Justine La Reine, ed è la stessa che mi ha fatto seguire dal furgone con a bordo i due picchiatori. Alludo al dottor Vlora, l’addetto alla sicurezza dell’ambasciata. Non voleva ammazzarmi, ma solo levarmi la voglia di ficcare il naso nei suoi affari... e magari nei vostri! Si è scelto un alleato ben posizionato, Kaled Hamed Karame.
— Perché me ne parla?
— Perché nei suoi riguardi lei e io abbiamo agito da alleati: certo, lei lo avrebbe eliminato come ha ucciso Angeli, io invece, prima di tornare a Creta, ho provveduto a farlo sparire da Beirut. Si trova a Roma... e non tornerà più.
— Lei gli ha salvato la vita, ma non è riuscito a badare alla sua.
— Con l’informativa che ho già provveduto a spedire quell’uomo non se la caverà... così come ho bruciato l’erba sotto i suoi piedi, signor Karame! Ha capito che Mironides Heliartos ha saltato la barricata, vero? Ha cominciato a parlare con me, e continuerà a farlo con i miei colleghi e poi col Mossad e la CIA, se non vorrà vivere il suo ultimo istante nel modo peggiore. Anche se mi tiene la pistola alla testa, lei è il primo frutto della collaborazione fra me e quell’avventuriero della finanza. La prova è che è stato lui ad attirarla nella trappola.
— Nella mia carriera sono... rinato parecchie volte. Lei è soltanto un piccolo intralcio nel destino del 23 Ottobre. La scoperta della piccola fonderia di Khalde, poco più di settanta chili d’oro al mese, è soltanto un’inezia nel programma di finanziamenti occulti al regime degli ayatollah. Ce ne sono altre decine sparse in tutto il Medio Oriente. E quel cane d’un greco è una minuscola pedina nel mercato delle forniture.
— Aver portato alla luce il problema significa averlo risolto per metà. Da ieri la sua banda di assassini ha i servizi occidentali alle calcagna, Mossad e CIA in testa. Nemmeno il suo cambio di identità salverà il movimento dall’annientamento totale. Una previsione? Un mese di sopravvivenza, poi l’oblio completo.
Karame abbassò un attimo il silenziatore dalla mia fronte. — Davvero? E a me quanta sopravvivenza regala? Senza muovere il capo sbirciai le lancette del magnifico Jaeger Le Coultre.
— Meno d’un secondo — risposi allargando le braccia.
Corrugò la fronte nello stesso istante in cui lo schiocco soffocato risuonò alle mie spalle, poi il fiotto denso schizzò esattamente fra gli occhi, imbrattandomi di poltiglia sanguinosa. La mano s’irrigidì attorno al calcio della pistola, ma l’indice non premette il grilletto. Prima che il secondo colpo lo raggiungesse appena sotto il mento, impedendogli persino un’esclamazione di sorpresa o di dolore, la Makarov mi ruzzolò ai piedi. Con un tintinnio sinistro rimbalzò fra le rocce e finì in mare. Il corpo di Kaled Hamed Karame cadde contratto da uno spasmo catalettico, rotolò fra i rovi e le pietre aguzze del dirupo e s’arrestò contro il fusto di un ulivo.
Non mi mossi per andare a constatare il decesso, rimasi lì a detergermi il volto dal sangue, il fiato corto di chi l’ha appena scampata, il senso di vuoto e di disgusto che saliva dallo stomaco e m’impediva di voltarmi verso il rumore di passi nella sterpaglia alle mie spalle.
— Tutto bene, Costa? — chiese la voce asciutta di Vlora.
La mia risposta fu coperta dal frinire delle cicale, assordante nella torrida solitudine della baia. Un catamarano bianco incrociava lento sullo sfondo di un blu assoluto.
— Due colpi impossibili... considerato che li ha sparati da Roma! — riuscii infine a balbettare.
Il crampo all’addome si trasformò in un doloroso conato. Anche l’uomo del SISMI era livido. L’SPR color sabbia, il lungo soppressore e il mirino telescopico Leupold 8x36 ancora montati, gli pesava sulla spalla.
— L’avevo al centro del visore da cinque minuti: ho sparato quando lei ha allargato le braccia, come convenuto. Non è stato merito mio se gli è partita la testa prima che potesse premere il grilletto, ma della Black Hills con palla Sierra Metal King da 77 grani. Ho scelto un’arma che non gli lasciasse scampo a cinquecento passi di distanza!
Vlora si avvicinò al corpo immobile contro l’ulivo, con la pressione del piede lo disincastrò dalle radici gibbose e lo fece ruzzolare lungo le rocce, giù per il dirupo. Finì in mare con un tonfo. L’acqua era profonda.
— Sospettava che fosse ancora vivo? Li ha visionati i fotogrammi scattati dal cosmos 1?
— Né Roma né Akrotiri me li hanno ancora inviati e a questo punto penso che non lo faranno proprio.
— Ormai i giochi sono fatti. Ha già inviato il rapporto che le ho inoltrato ieri mattina?
— Certamente; manca solo la conclusione di un attimo fa. Mi tocca giustificare lo sparo di due proiettili e inviare i bossoli dove lei sa. Conosce le procedure, Costa: far sparire il fucile, eliminare i proiettili e possibilmente la vittima, recuperare i bossoli.
— Allora alleghi anche il tonfa con cui hanno cercato di colpirmi l’altro ieri, e i colpi sparati da una certa Skorpion, perché è sempre roba sua. Almeno questo è quanto mi ha confermato Karame un attimo prima che gli staccasse la testa dal collo.
Non rispose subito. Per un attimo temetti che abbassasse la volata del fucile contro di me, ma non lo fece e abbozzò l’enigmatica smorfia di sempre.
— Si confessa davvero tutto a chi sta per morire. Lui credeva di averla in pugno e non temeva che io fossi appostato dietro i merli del forte abbandonato.
— E lei cosa crede, dottor Vlora? Pensa che io non abbia compreso la sua complicità col terrorista che ha appena eliminato?
— Costa, lei era il suo prossimo obiettivo, e io ho soltanto agito d’anticipo. Il nostro è un mestiere infame un lavoro che non regala spazio alla morale corrente. È vero, sapevo dell’oro e della fonderia di Khalde e non volevo che lei lo scoprisse, ma non sapevo che Karame fosse scampato alle forze speciali israeliane. Anch’io ho ricevuto ordini: dovevo ignorare il contrabbando per privilegiare le relazioni col 23 Ottobre in funzione anti-Hezbollah. Come lei sa ci sono contrasti fra i due gruppi e un monitoraggio del terrorismo militante mi avrebbe permesso di comprendere meglio le intenzioni delle formazioni schierate lungo il fiume Litani. Ci sono 2.400 nostri soldati da quelle parti, tutti i giorni a rischio bomba. Già gli spagnoli hanno subito perdite gravi. Gli Hezbollah si sono detti estranei all’attentato, ma nessuno ha ancora chiarito chi l’abbia compiuto. Il gruppo 23 Ottobre era un’antenna sensibile e ho ritenuto di doverlo proteggere.
— Ha sbagliato cavallo, visto che il suo capo si preparava ad appiccare il fuoco alle polveri. Una volta libero di muoversi, e con una diversa identità, Karame si sarebbe fatto vivo con qualcosa di devastante. Non so se in Libano o altrove, ma il suo coinvolgimento in un’impresa che avrebbe lasciato il segno era scontato.
— Non lo sapevo, ma capivo che lei stava per arrivare al contrabbando. Non era il caso di creare problemi al gruppo 23 Ottobre, e l’ho attivato perché lei rinunciasse alle sue indagini. Ho chiesto che non le fosse fatto del male. Questo spiega gli sfollagente e i due colpi contro la vetrina. Ma lei ha insistito e ha scoperto la fonderia.
— Colpa dell’anello d’uno dei fonditori — spiegai. — La mia irruzione ha spaventato Karame che ha deciso di recidere tutti i collegamenti intermedi, come prima aveva provveduto a far uccidere Northaller e il commissario.
— Avevo partecipato all’organizzazione dello scambio fra il giornalista e il terrorista, ma non sapevo nulla dell’attentato al Wrangler. Angeli e la dottoressa hanno tradito anche me. La partita ci ha preso la mano, ma ora è conclusa. Quel bastardo è finito in fondo al mare, e senza la sua abilità criminale il movimento è soltanto un’accozzaglia di cani sciolti priva di capacità operativa. Tanto vale che la polizia libanese faccia piazza pulita. Eh sì, mi toccherà cercare un altro cavallo di Troia per monitorare le intenzioni di Hezbollah.
— Un compito che non le spetta, dottor Vlora — dissi a bassa voce. — Ora lei rientrerà a Roma per rispondere di quanto è successo. Ci sono troppe vittime di mezzo.
— Nessuna era innocente, nemmeno Abbas ibn Rabiah, che nelle ore libere dal servizio operava nelle squadre della morte del clan Gemayel. Ha sulla coscienza almeno sette esecuzioni. E anche Northaller era una penna spezzata; se lo pagavano per scrivere male del Padreterno, e la somma risultava conveniente, non se lo faceva ripetere due volte. Viviamo in un mondo perduto, Costa... e ne siamo i campioni! Neppure lei è immacolato. Per salvare la pelle mi ha costretto ad ammazzare Karame. Nel suo colloquio di ieri mattina, prima che partisse da Beirut, mi ha apertamente ricattato, come ha ricattato tutti in questa faccenda, a cominciare da Heliartos. La morte del terrorista contro lo stralcio della mia posizione. Cosa intende fare adesso? Sono io l’ultima tessera del domino e sono rimasto in piedi. Il mio operato può essere giudicato solo dal presidente del Consiglio e dal Comitato di vigilanza: il primo non ha alcun interesse a rendere pubblica una situazione che i vertici dei servizi avevano avallato, mentre il secondo ruota attorno a tante chiacchiere e controchiacchiere. E qui ci sono io, ci siamo noi, ci sono i contingenti internazionali alle prese con una realtà subdola ed evanescente, e, non lo dimentichi, c’è il terrorismo pronto a infiltrarsi, a giocare con le minime differenze d’opinione per trovare consensi. Ancora una volta le rammento cos’è capitato ai soldati spagnoli... e non è detto che non capiti anche ai nostri! Io credo sia solo questione di tempo, quando si spezzerà uno qualunque dei fragili equilibri che mantengono efficace la tregua. Ho usato il gruppo 23 Ottobre, e l’ho anche assecondato, ma quando si è reso necessario ne ho reciso la testa. Non si renderà più responsabile d’attentati, anche se il resto del mondo non se ne accorgerà nemmeno. Questa è la nostra guerra, Costa... e questa è la nostra vittoria, che le piaccia o no! Se non succede niente significa solo che abbiamo operato bene, che abbiamo fatto il nostro dovere, anche se abbiamo appena sparato a un uomo guardandolo in faccia attraverso un telemetro. Quel che resta lo lasciamo alla stampa, o ai movimenti d’opinione, se non li abbiamo ancora infiltrati, pagati o condizionati. E adesso provi a giudicarmi secondo questi criteri: per quanto mi riguarda ho appena assolto ai miei compiti d’istituto. Il nostro lavoro deve pur farlo qualcuno, no?
Mi gettò fra i piedi il fucile di precisione e mi voltò le spalle, incamminandosi lungo la salita.
Non lo raccolsi. Con un calcio lo spedii nel profondo del Mar di Creta.