7

 

Si sdraiò sul letto. La invitò a mettersi sopra, girata al contrario come per farsela sedere sulla faccia. Ammirò la sua fessura rasata, rosa chiaro, già dischiusa e imperlata di umori, che pendeva simile a un fico maturo. Inspirò a fondo il suo odore. Resistette all’impulso di affondarvi il viso dentro. Continuò ad annusare la fragranza dei suoi umori, gonfiandosi di eccitazione all’inverosimile. Si perse a osservare le gocce di rugiada appese alle grandi labbra e si scoprì ad allungare la lingua per suggerne la consistenza densa e muschiosa. 

Karin si chinò in avanti, fino a lambirgli il membro. Le sue labbra come ventose ne strinsero la punta, aspirando, provocando un delizioso rumore di risucchio. La sua saliva prese a scorrere lungo l’asta carnosa, colando sul pelo nero alla base dei testicoli. Aiutandosi con la mano, Karin scappucciava e leccava, muovendo la lingua, spingendone la punta contro l’apertura del meato come per cercare di infilarla. 

Marc prese ad ansimare. Strinse i denti sul clitoride e lo morse fino a strapparle un grido. Si aggrappò alle natiche morbide e bianche, immerse l’indice nella vagina per raccogliere la crema del suo umore poi cercò il retto, lo lubrificò con cura. Infilò il dito fino all’attaccatura della mano. Inarcò il bacino per infilarle il pene nella gola, i suoi addominali divennero nodi lucidi di sudore. Si girò, torcendo il busto per sollevarsi, uscendo dal suo retto. Si tirò su del tutto, restando accovacciato sui talloni come un karateka prima del saluto. Sorrise come sapeva fare lui, con gli occhi luminosi e verdi, le labbra crudeli e carnose. Le divaricò le cosce. La invitò ad aprirsi con le dita, a toccarsi. Il membro stretto nella mano destra, in attesa. 

Karin prese a masturbarsi e a gemere, i suoi seni erano molto grossi e i capezzoli sembravano punte di sigaro, turgidi e scuri. Marc si chinò per leccarli, prima l’uno e poi l’altro. Puntò il glande all’imbocco della vagina poi, con lentezza esasperante, contrasse i muscoli dei glutei e la penetrò fino in fondo.

Karin grugnì, affondando la testa all’indietro nel cuscino. Pochi colpi bastarono per farla venire una prima volta. I gemiti divennero grida incontrollate.

— Sssssssììì... — Gli graffiò le spalle muscolose. — Oh ssssì. — Gli occhi gonfi di lacrime per l’intensità dell’ebbrezza.

Le loro labbra s’incontrarono per scambiarsi boccate di saliva.

Marc si mosse sempre più forte e poi più lento, così tanto da far male.

Ancora e ancora.

 

 

8

 

Si abbandonarono ansimanti l’uno accanto all’altra.

— Sei stato magnifico...

Karin si allungò per baciarlo sulle labbra, il suo alito sapeva di sesso maschile.

— Mi hai persino fatto piangere.

Si mise a sedere, spense l’abat-jour. Si tolse la lente a contatto dall’occhio destro, la infilò in un piccolo contenitore apposito recuperato dal cassetto del comodino.

— Mi si è irritato l’occhio...

Emise un risolino e si sistemò contro Marc, sdraiato al suo fianco, senza preoccuparsi di richiudere il cassetto. 

Marc l’abbracciò da dietro. Attese che il sangue calmasse il suo pulsare nelle vene. Anche per lui l’orgasmo era stato intenso.

Nella penombra della stanza, vinse l’impulso di aprire e chiudere quella sua mano artificiale del cazzo e cercò di rilassarsi. Adesso l’odore di quella femmina non sembrava più così eccitante, adesso gli dava fastidio. E se avesse potuto, sarebbe andato in bagno per lavarsi. 

Invece rimase fermo, a pensare al nulla che gli popolava la mente, come una pellicola stesa sopra i ricordi che alimentavano la sua ossessione. 

Attese.

Fino a quando non sentì Karin abbandonarsi al sonno. Il suo respiro trasformato in un russare lieve.

Solo allora, cercando di non far rumore, scivolò fuori dal letto.

 

Si sedette al tavolo. Sollevò lo schermo del Macintosh, mosse il mouse per attivare il desktop. Aprì l’archivio principale: l’intenzione era di dare un’occhiata ai diversi file. Poteva esserci qualcosa d’interessante. Poi successe una cosa strana: un formicolio alla mano artificiale, una sensazione impossibile. 

Di nuovo l’arto fantasma...

O forse la percezione di un pericolo.

Non fece in tempo a porsi domande, né a darsi risposte. La luce si accese di colpo.

Karin era in piedi davanti a lui, stringeva in pugno una Sig Sauer P225, silenziatore inserito.

Marc fissò la bocca da fuoco.

L’arma doveva essere stata dentro al cassetto del comodino, lasciato aperto con la scusa della lente a contatto.

— Chi sei tu?

Una voce dura, non sembrava più quella di prima. La donna si avvicinò di un passo. Entrò nel chiarore del monitor. 

Marc si sentì cogliere da una nausea improvvisa.

Le pupille di Karin.

Eterocrome.

Una nera e una azzurra.

Nella sua mente saettò un’immagine.

Il chirurgo con la sega ossea in pugno, in quel giorno terribile e lontano.

— Chi sei tu? 

Ancora quella voce sgarbata e cattiva.

Io non sono nulla...

Marc allungò la mano verso la tasca della giacca sulla spalliera della sedia.

Karin sembrava una belva pronta a sbranare.

— Alzati! — La Sig Sauer si sollevò, allineando il tiro. — Chiunque tu sia.

Marc strinse l’impugnatura della TPH. Si mise in piedi lentamente. Si sentiva calmo, rilassato, la paura trasformata in furia. 

Una goccia alla volta.

— Non sono nessuno — disse in un sussurro.

Poi estese il braccio armato, rapido come il pensiero.

Karin sparò.

E lui fece lo stesso: premette il grilletto della TPH due volte.

 

 

9

 

Golfo di Ajaccio. Route des Sanguinaires

Ore 5.50

La Mercedes CLS grigia sfrecciava sulla litoranea.

Marc Ange scalò la marcia con un rombo, quarta-terza. Diede gas aumentando i giri del motore, il turbocompressore s’innescò con un sibilo. E la Porsche venne proiettata in avanti. 

Spinse il tasto per alzare i tergicristalli elettrici.

Tutto divenne lontano e soffocato. Quieto.

Concentrazione. 

Un occhio alla strada, l’altro al navigatore sul cruscotto per non perdere di vista coloro che stava inseguendo. Aveva abbandonato la stanza di Karin portandosi dietro il computer portatile. Era andato a recuperare la 993 turbo dal parcheggio dell’hotel. Era partito a piena potenza. Non avrebbe mancato l’appuntamento con Jean Noble. Si era appostato sulla strada, chilometro 200. Aveva atteso. Quando la Mercedes era passata, era partito sgommando. Distanza ravvicinata, in modo da leggere la targa per essere sicuro che fosse quella giusta. Poi aveva accostato a destra, aspettando che la macchina di Noble si allontanasse abbastanza per poterla seguire a distanza usando il sistema satellitare.

Per non farsi vedere. Per non destare sospetti.

 

Sullo schermo, la sagoma della CLS appariva leggermente sfocata. Procedeva a una velocità media di settanta orari. Un chilometro davanti a lui. Tre occupanti, come Marc già sapeva. Noble era in compagnia della sua scorta personale, secondo le informazioni prese da Gabriel... 

Tutto sotto controllo.

Il revolver Ruger 44 Magnum adesso era posato sul sedile.

La strada era deserta.

Marc diede potenza. Superò una curva con fischio di pneumatici. Guadagnò il rettilineo mantenendo velocità. L’auto che stava seguendo era là: in fondo alla strada, a meno di un chilometro. 

Adesso che aveva stabilito il contatto visivo, doveva muoversi.

Recuperò un minuscolo contenitore rotondo dalla tasca interna della giacca. Prelevò speciali tappi acustici. Avevano la capacità di smorzare sotto la soglia di udibilità qualsiasi onda sonora sopra i duecento decibel. Li indossò: prima l’uno e poi l’altro. E provò subito un senso di fastidio. 

Distanza cinquecento metri.

Prese gli occhiali antivento dal cruscotto. Li inforcò.

L’auto davanti a lui procedeva a velocità costante. Non si erano ancora accorti di essere inseguiti. Ma era solo questione di minuti, forse secondi.

Distanza trecento metri.

Marc spinse lo speciale pulsante sul cruscotto. Ronzando, il parabrezza scese lentamente. L’aria lo investì frontalmente, agitandogli i capelli, frustandogli la pelle del volto. 

Strinse i denti. Completò l’abbassamento del vetro. Aveva davanti a sé una striscia di vuoto abbastanza ampia.

Impugnò la Ruger.

Posò la canna da otto pollici sul bordo del vetro. Alzò il cane con il pollice, singola azione per una maggiore precisione di tiro. Inquadrò nella tacca di mira la ruota posteriore destra della Mercedes. 

Non doveva sbagliare.

Tirò il grilletto.

Ovattato dai tappi antirumore, lo sparo fu un pop. La lunga fiammata dalla bocca del revolver. Il potente rinculo, solo in parte contrastato dall’irrigidimento del polso. 

La pallottola ad alta penetrazione trapassò il cerchione, facendo esplodere il radiale. 

La Mercedes sbandò da una parte, perdendo il controllo.

Rientrò in carreggiata in controsterzo.

L’odore della cordite nelle narici, Marc inquadrò l’altra ruota, sparò, fece ancora centro.

La gomma sinistra si sfilacciò sull’asfalto.

L’autista aveva perso del tutto il controllo. Frenò disperatamente per non finire fuori strada. Urtò il guardrail, propagando una stria di scintille. Procedette per un centinaio di metri sui cerchioni, metallo che graffiava l’asfalto. Fino a bloccarsi del tutto accartocciandosi contro un palo. 

Marc si fermò a sua volta, accostando la Porsche a destra, non più di venti metri.

Scese. E prese ad avanzare. Ruger stretta in pugno, braccio teso in avanti. Un passo alla volta. Con lo smoking aperto sul davanti, la camicia slacciata, i capelli neri nella brezza proveniente dal mare, gli occhiali antivento. Sembrava la creatura di un sogno strano. Consapevole di tutto.

L’odore dell’acqua salata. I raggi del sole nascente sulla pelle. La torre di avvistamento sulla Punta della Parata. Le isole Sanguinarie sullo sfondo: oscuri simulacri color della porpora, con il faro celebrato un giorno lontano dallo scrittore Daudet. 

Corsica selvaggia, dolce ebbrezza dell’anima...

Consapevole di tutto, sì, ma distratto da niente.

Guerriero senza paura che avanza verso la morte e il sangue.

La portiera della Mercedes si aprì di scatto. Sbarcò un uomo con i capelli rossi. Il proiettile della Ruger lo colse in piena faccia. La mascella esplose, denti come briciole di popcorn si sparsero nell’aria. 

Nuvola di sangue che si apre e poi scende a pioggia...

Ancora un passo, un altro. Come in un sogno. Braccio destro sempre teso, revolver puntato.

Di nuovo un colpo preciso, letale, al centro di massa, tanto per stare sul sicuro.

Un buco nero così grande che si vedeva dall’altra parte, lo specchietto laterale della Mercedes, il vetro crepato. Il corpo sbalzato all’indietro crollò a terra. 

Spostare la bocca di sparo verso destra e trattenere il respiro istintivamente, come in un movimento riflesso, naturale come lo sbattere delle ciglia.

Il dito spinge lieve e deciso. Il grilletto fa scattare il cane e il percussore si abbatte. 

Il secondo killer era sceso con la mitraglietta Skorpion impugnata per contrastare l’avvento di quell’essere vestito da sera, occhiali tondi e avvolgenti. Un angelo della vendetta. La consapevolezza che non c’erano vie di fuga, nemmeno una. Da nessuna parte.

Lui era Dolph Guthberg, l’essere immondo che aveva fatto del male a sua madre.

Il dito sul grilletto come in un sogno. La deflagrazione potente, liberatoria.

L’uomo fu colpito al centro della fronte. Il proiettile ad alta velocità gli asportò l’intera porzione superiore della calotta cranica. La sua testa divenne una tazza d’osso ricolma di carne, filamenti scomposti di capelli che sventolavano da quello che restava delle sue tempie, un geyser di sangue che s’innalzava piano. Sembrava il personaggio di un horror grottesco. 

Cinque metri.

I corpi dei due nemici a terra sussultavano ancora.

Quattro.

La portiera posteriore si aprì.

Marc Ange si bloccò, una gamba davanti all’altra. Alzò la 44 Magnum a due mani in posizione Weaver, pronto a uccidere ancora. Solo due colpi rimasti nel tamburo.

Scese Noble, braccia alzate. La testa glabra luccicava nella luce soffusa dell’alba.

— Non sparare! — Aveva gli occhi fuori dalla testa, terrorizzato a morte. La voce gli tremava. — Posso pagarti meglio di qualunque altro...

Marc non rispose e continuò ad avanzare. Senza abbassare il revolver, senza fermarsi. 

Parlò quando fu a un metro di distanza.

— Dammi la tua arma — ordinò con voce calma, quasi suadente. — Usando solo due dita, per piacere.

Noble scostò un lembo della giacca e fece come gli era stato chiesto. Strinse fra il pollice e l’indice l’impugnatura della Colt Commander 45 che teneva nell’ascellare.

— Buttala — ringhiò Marc.

Il suo occhio allenato registrò che l’arma non aveva l’avvisatore di colpo in canna sollevato.

Noble lasciò cadere a terra la semiautomatica. — Ti prego, non mi uccidere... — continuò a implorare, un’oscura litania. — Non mi uccidere...

— Perché lo hai tradito?

— Ma di che cosa parli? — Noble ebbe un’espressione spersa. — Tradito chi? 

Arrivò un furgone. Forse il guidatore era intenzionato a fermarsi, notando la macchina incidentata. Poi vide il resto: i cadaveri, il sangue, l’uomo con quegli strani occhiali e con la pistola impugnata. Di certo quel camionista avrebbe telefonato alla polizia. 

Tempo: scaduto.

Con un unico gesto, Marc si tolse gli occhiali antivento. Fissò il suo nemico, occhi verdi pervasi di furore. Sembravano smeraldi battezzati dal fuoco. La luce del sole nascente disegnava strane forme colorate sul suo viso, portando allo scoperto tutta la disperazione, tutta la rabbia.

— Guardami!

Fu in quel momento che Noble si rese conto. Quell’uomo che si trovava di fronte, che aveva ucciso come niente la sua scorta. Un fantasma tornato dal passato.

— Non mi uccidere! — Provò a implorare ancora. — Io non c’entro... — Ma sapeva che sarebbe stato inutile. 

Marc avanzò ancora. Con la canna della Ruger sfiorò la fronte di Noble. — Tu hai tradito mio padre.

Alzò il cane con il pollice, il tamburo ruotò, clic, porgendo nella camera di scoppio la pallottola. 

— Ti prego...

Marc sentiva la testa vorticare. Avrebbe voluto uccidere quell’uomo come un cane, a sangue freddo.

Ma lui non era un assassino.

Lui era il figlio di un eroe.

Lentamente abbassò il braccio armato. Guardò con fare sprezzante l’uomo calvo di fronte a sé, tutto tremante, le mani sollevate, sembrava così innocuo...

Colto da un improvviso senso di nausea, volse le spalle e si allontanò di un passo.

Pensò al volto di suo padre, al suo sorriso rassicurante. Pensò a sua madre che piangeva e gridava mentre la violentavano.

Ancora un passo. Con le orecchie tese a percepire ogni suono, ogni respiro, ogni battito di cuore, il mondo intero.

Avvertì chiaramente il fruscio. Sentì l’odore della paura propagarsi nell’aria.

Lo scatto di un carrello che scorreva per mettere il colpo in canna.

Non c’erano alternative.

Non ci sono mai state.

Doveva fare quello che doveva.

Adesso.

Si volse, sollevò la Ruger.

Noble stava facendo la stessa cosa con la Commander che aveva recuperato da terra. E l’espressione del suo viso, adesso, non era più quella di un uomo dimesso e terrorizzato. I suoi occhi erano rabbiosi, iniettati di sangue. 

Marc tirò il grilletto.

La fronte del nemico che esplode. Frammenti di osso e sangue gli schizzano sulla faccia.

Si sentiva una sirena provenire da lontano. Il camionista aveva fatto il suo dovere, come previsto. E probabilmente doveva esserci una pattuglia nei paraggi...

Nauseato e percorso da tremiti, la voglia di mettersi a gridare come un ossesso, Marc tornò rapido alla Porsche.

Aveva il volto imbrattato si sangue: cercò di ripulirsi, avvertendo sulle dita l’odore del sangue mescolato con quello degli umori di Karin. Continuavano a impregnargli la pelle e non se ne andavano.

Lo sguardo allucinato, le pupille dilatate...

Dentro la sua mente risuonava un grido, un sussurro, una voce che gli parlava e lo rassicurava...

Dovevi solo sopravvivere al vuoto, alla paura...

Inserì la prima, partì e fece inversione. Accelerò dalla parte opposta rispetto a quella da dove stava arrivando la polizia. 

Spinse sull’acceleratore fino a raggiungere i duecento all’ora. Cercando di sentirsi come se stesse volando da qualche parte.

In fuga verso il nulla.

Con lo sguardo che cercava rifugio nello spettacolo dell’alba.

Il sole che splendeva nel cielo, l’acqua come un concerto di colori luccicanti e i gabbiani che pescano.

Quello che aveva fatto era solo l’inizio.

Lui avrebbe trovato tutti i responsabili dell’orrore e li avrebbe distrutti, l’uno dopo l’altro.

Era inevitabile, ineluttabile.

Non sentiva più la mano sinistra, stringeva il volante ma era come se non ci fosse. Nessun formicolio, nessun segno di vita.

Pensò che quella doveva essere la mano del diavolo.

Pensò che non sarebbe più riuscito a rinascere. Che in fondo era come se fosse morto.

Non c’erano più sogni, né speranze.

Non per lui che si chiamava nessuno. 

 

 

10

 

Un aereo biposto lo stava aspettando in un campo privato vicino a Saint Florent. La Porsche venne presa in consegna da qualcuno che l’avrebbe riportata a Parigi su un normale volo cargo.

Marc Ange raggiunse Roma. Prese un jet diretto a Rio de Janeiro.

Gabriel Bruno lo stava aspettando con un elicottero per portarlo nella Guyana.

Durante il viaggio, Marc spiegò quello che era successo. Con voce fredda, impersonale, come se stesse esponendo la trama di un romanzo noioso che non gli era piaciuto tanto. 

Gabriel Bruno restò in silenzio.

Solo dopo un tempo interminabile prese la parola. — Hai fatto quello che dovevi, ragazzo. Niente di più, niente di meno.

 

La vendetta come via di fuga, contro il vuoto.

Sopravvivere alla paura. Come se fosse notte.

Solo per sentirti meno solo e meno abbandonato.

Solo per quello.

 

L’isola del Diavolo, al largo della Cayenna.

Una traccia nel mare e poi, più avanti, una lacrima di terra, verde come la speranza: Nid Azur, il rifugio del suo cuore. 

L’elicottero atterrò.

Marc scese assieme al suo tutore.

Guardarono la sagoma della grande casa in stile coloniale in cima alla spiaggia. La sabbia sollevata dalle pale creava vortici di granelli che offuscavano l’aria e bruciavano gli occhi. 

Alla fine, i rotori si fermarono. Marc e Gabriel scaricarono i bagagli.

— Dentro casa troverai quello che ti serve: cibo e attrezzature. Attraccato al porticciolo c’è un motoscafo ad alta velocità per raggiungere la terraferma. In un garage in città c’è una vecchia 911 per i tuoi spostamenti su strada... 

Marc era cresciuto lì da bambino. In quel posto aveva trascorso molte estati felici...

Le spiegazioni di Gabriel gli giungevano a tratti come una trasmissione radio su un canale mal sintonizzato. Disturbi causati da troppi ricordi sopra e sotto la pelle.

Gabriel terminò di spiegare quello che doveva e guardò il suo pupillo con affetto. — Farò esaminare il computer che hai recuperato da un esperto per vedere se c’è qualcosa d’interessante, t’informerò appena possibile. — E dopo una pausa: — Voglio darti questo. — Si tolse l’orologio che aveva al polso e lo porse a Marc. — Me lo regalò tuo padre: lo stesso modello che aveva lui. Mi disse: «Usa sempre il tempo come si deve, mon ami». 

Omega Speedmaster del ’69, l’orologio del primo allunaggio. Bellissimo.

— Grazie — disse Marc in un sussurro.

Lo strinse in pugno.

— Adesso devi restare un poco solo con te stesso, in compagnia dei fantasmi del passato, in questa specie di paradiso terrestre. Devi recuperare chiarezza...

Gabriel si allungò per abbracciare il ragazzo che aveva cresciuto come se fosse il figlio che non aveva mai avuto.

— Connetti il computer al satellite. E resta sempre collegato. Presto ti contatterà un amico, qualcuno che lavorerà con te. Ti avvertirà sul cellulare...

Marc lo guardò interrogativamente. — E chi sarebbe? Credevo dovessi fare tutto da solo.

— Si tratta di un tipo fidato che sa volare molto bene in rete. Un viaggiatore informatico... — Gabriel spostò lo sguardo perso sul vuoto. — Insieme proseguirete la battaglia. 

Prima di salire sull’elicottero, si volse ancora.

— La caccia è cominciata, non ci sono scuse, né speranze. — Sorrise, con quei suoi occhi chiari, sinceri. — Usa il tempo come si deve.

L’elicottero partì e Marc restò solo.

 

Nid Azur. Ricordo di vacanze estive, lui che corre sulla sabbia mentre suo padre bacia la mamma sulla spiaggia.

Quella era la casa del suo cuore.

L’isola trovata.

Quella che ci sarà sempre.

La sua mano sinistra aveva preso ad aprirsi e a chiudersi.

Formicolava. E non smetteva.

 

 

11

 

Si mette l’orologio al polso e vaga per le stanze per molto tempo. Accarezza ogni mobile, si ferma in ogni angolo. Lo stile coloniale che ama tanto, caldo, avvolgente, antico e moderno...

Annusa l’aria, la sua aria.

Tutti i ricordi che premono e che gli invadono la gola, sapori amari e dolci allo stesso tempo.

Pensa al primo sangue che ha versato.

Alla donna con gli occhi dai colori diversi che gli punta l’arma e che gli dice: «Tu sei suo figlio... Ma come è possibile?».

I suoi occhi diversi che gli guardano la mano sinistra con stupore.

Karin Kessler era il chirurgo.

Il rumore del metallo che si apre la strada nell’osso vivo, il dolore, la perdita.

Il sangue che schizza come una fontana pompato dall’arteria. La cauterizzazione della ferita senza alcuna anestesia. Il desiderio di morire.

Poi tutto quel dolore mentre sua madre viene violentata e uccisa.

La sensazione di vivere un sogno, null’altro che un incubo in terra, nel cielo: dappertutto. 

La moglie di Noble aveva sparato.

Marc aveva fatto lo stesso: come in un duello.

Con una 22 occorre essere molto bravi.

Colpire nel segno, senza fare errori.

Lui aveva tirato il grilletto della TPH due volte, in rapida successione, mentre la pallottola di Karin gli passava sibilando a mezzo centimetro dalla testa.

 

Esce fuori, respira l’aria profumata dalle mangrovie che fioriscono nella palude vicina. 

Pensa a Karin.

Con due crateri di sangue al posto dei suoi occhi diversi.

Karin che crolla a terra al rallentatore come nei film.

La percezione distorta dal desiderio di prolungare quell’attimo di morte per sempre. 

Il suo primo sangue.

Non aveva ancora ucciso: prima di lei.

 

Percorre il porticato, attraversa la passatoia che conduce al pontile.

Il sole al tramonto riempie l’acqua di riflessi luminosi e colori sgargianti.

Marc si sente in assoluta sintonia con tutto questo. Un tripudio di luce per festeggiare l’avvento della tenebra. 

Il cellulare vibra sul suo petto. Lo estrae dal taschino della camicia e controlla il display. Un SMS: «sono un colombo che vola...».

Doveva essere l’uomo di cui gli aveva parlato Gabriel Bruno.

Ripose il cellulare senza rispondere.

Lo avrebbe fatto più tardi.

Adesso era troppo impegnato a riempirsi di buio poco per volta.

Seduto sul pontile, rivolto al cielo sempre più scuro, pensò a quello che lo attendeva. 

A quello che doveva fare per sopravvivere alla paura.

E gli parve di sentire un ringhio da qualche parte, in mezzo al cuore, sul lato sinistro del cielo. 

Un segnale fantasma proveniente dalla terra dei mostri.

Con voce suadente l’Hydra lo stava chiamando, ora.