In volo e in picchiata

C’era, in fondo al mio animo, il ritegno a realizzare il mondo del sogno, a sostituire immagini precise a quelle ondeggianti...

(Benedetto Croce, Discorso
di Pescasseroli
, 1910)

Ho sempre desiderato volare su Roma nei suoi diversi secoli. E ho immaginato anche di scendere in picchiata su tanti dettagli e di entrare nelle finestre per scrutare particolari come fossero cellule del pachiderma urbano. È nelle stanze che si concepiscono e ordiscono le vicende umane, che poi si attuano collettivamente in luoghi pubblici, oppure solitariamente nei palazzi.

Sono stati sogni di questo genere ad aver generato l’Atlante di Roma antica, sia nella prima edizione italiana (Electa) sia nella seconda edizione in lingua inglese, completamente riveduta (Princeton University Press). Procedendo nel tempo la città cambia per le nuove scoperte, ma anche perché i suoi indagatori temperano l’acume critico e ricostruttivo. I sogni servono a ispirarci, a orientarci, a segnalare un desiderio che i mezzi della ragione permettono poi di attuare, assistiti da principi e passioni.

Per alcuni, l’architettura è vile perché applicata alle necessità della vita, mentre essa è arte tra le più astratte, nonostante gli apparati decorativi e figurati, fissi e mobili, pari quasi alla musica, arte per eccellenza trascendentale. È proprio grazie alla distanza sostanziale da parole e figurazioni che l’architettura stimola parti essenziali e speciali della mente, sia ragionevoli che fantasiose, per cui essa immette immediatamente nel mondo straordinario dei significati sociali, dei mores, delle istituzioni e dei fatti. È l’unica arte che nella città assume il rango di un intero paesaggio.

Balzac ha scritto: “Gli avvenimenti della vita umana, sia pubblica che privata, sono a tal punto intimamente legati all’architettura, che la maggior parte degli osservatori possono ricostruire nazioni oppure individui in tutta la verità delle loro abitudini grazie all’esame dei resti dei monumenti pubblici e delle reliquie di quelli domestici. L’archeologo sta alla natura sociale come l’anatomia comparata alla natura organica” (La ricerca dell’assoluto, 1834).

Le costruzioni rivelano i costumi che compongono la commedia e tragedia umana e risvegliano nell’artificio, come la melodia, una emozione spontanea. Gli edifici circondano spazi vuoti ed è nel gioco di pieni, a diverse altezze, e di vuoti, più o meno ampi, che la città si forma e si trasforma nel respiro dei secoli e nel precipitarsi dei momenti cruciali, determinando paesaggi che si alterano, ora gradualmente – piccole costruzioni preparate da piccole distruzioni – ora vorticosamente – come Roma dopo l’incendio di Nerone o come Londra dopo quello del ’600.

Vuoti di strade e di piazze e pieni delle costruzioni e delle architetture s’intersecano tra loro in modo tanto compatto che separare gli uni dagli altri implica lacerare, ora più gravemente ora in modo più conforme, l’anatomia di un organismo complicato e interconnesso per gli infiniti e continui adattamenti avvenuti in una storia lunghissima.

Per questa ragione, l’archeologo, cioè lo studioso che opera sul campo, è restio a isolare parti singole, come fanno alcuni storici dell’architettura – influenzati dagli storici dell’arte –, i quali isolano i monumenti pubblici sia dal tessuto della città e sia dagli arredi interni, in modo che le testimonianze magniloquenti muoiono appena estratte dalla loro matrice e quasi più nulla riescono a dirci nell’antipaticissima antologia delle costruzioni più ragguardevoli.

Al contrario, pure se sollevato dal tavolo e tenuto in mano, un soprammobile conserva il garbo, perché facilmente può tornare al posto: un luogo preciso, ben noto ai padroni di casa, i quali sovente passeggiano per le stanze per rimettere ogni cosa in ordine, in modo che la scena domestica, modesta o grandiosa, ritrovi la forma abituale, il suo significato.

I monumenti non equivalgono pertanto agli oggetti mobili, perché non si cammina sopra un fraseggio, su una tela dipinta o su una statua, ma ci si muove tra di essi, mentre negli edifici si entra e si cammina accolti e avvolti ed essi rivivono in quanto contenitori di ogni cosa e forma di vita, scenari dell’essere storicamente nel mondo. Per questa ragione il Colosseo, privato dagli archeologi scavatori del suo pavimento, è come un San Pietro nel quale non fosse possibile entrare perché il suolo è stato scavato per mettere in luce la sottostante necropoli. Insomma, il pavimento è parte imprescindibile di una rovina, la sola che non può mancare, dato che pareti e coperture possono essere più o meno conservate, ma se manca la terra sotto i piedi, il monumento non è più percepibile ed esperibile.

Per noi è possibile “ripetere l’esperienza creativa del passato non in termini del fare artistico, che ci è definitivamente precluso, ma in termini d’immaginazione scientifica e d’innovazione tecnica”1.

Eppure perfino l’archeologo, pur così strettamente legato ai contesti, può essere indotto a prescindere per un momento dai paesaggi nel loro insieme. Ciò avviene quando è colto da interessi particolari, che vuole svelare e raccontare in un succedersi di exempla capaci di insegnare a vedere come la grande totalità del reale sia composta da un oceano di particolari, ora enormi ora minimi, ma sempre tra loro concatenati. Se pensiamo alla vita e al tempo, la constatazione è evidente: tutto scorre, ma se si tratta di argille e legni, tufi e pietre, mattoni e altri materiali questa constatazione risulta meno comprensibile. Può una città scorrere come un fiume?

Eppure, come un film si svolge fluidamente, pur essendo formato da una somma di fotogrammi, così anche la città fluisce nel suo incessante aggiustarsi, adattarsi e rifarsi tramite infinite azioni di mantenimento che conservano, e innumerevoli alterazioni che trasformano e spostano costruzioni e cose. Tra gli scatti che colgono la trasformazione si interpongono tante inerzie che non vengono documentate, ma che fanno parte anch’esse della storia del luogo. Tuttavia il film scorre comunque veloce e i punti morti, che pure esistono, gli occhi non li avvertono.

Anche nel film scorrevole di una città può sorgere la necessità di cogliere e trattenersi su singoli fotogrammi, che sono dettagli, punti di vista, angolature e zoom nei quali per un momento ci si vuol perdere. È nata così l’idea di raccogliere, in arbitraria scelta, un insieme di particolari di Roma antica, slegati tra loro ma capaci di acuire sguardo e comprensione, particolari che nessuno sguardo d’insieme è in grado di mettere a fuoco per rilevarne il singolo valore.

Eccoci dunque a questi Angoli di Roma, che rappresentano il contrario dell’Atlante, anche se da questo sono stati tratti, come fiori ed erbe da un ben più ricco prato. Quante essenze si tralasciano quando si coglie una margherita o un trifoglio? Eppure, solo scegliendo possiamo osservare alcune parti da vicino, in modo distinto e approfondito, come avviene in un erbario che permette di apprezzare le caratteristiche minime dei vegetali, disegnati nella loro freschezza e conservati essiccati.

È fatale questo elevarsi per vedere tutto planando e questo scendere poi in picchiata, come fa il rapace sul serpentello messo a fuoco a distanza e fulmineamente ghermito dagli artigli. È questo il dondolare, piacevole e tormentoso, fra le cose che formano la rete dell’esistenza e l’individuazione e la selezione di singoli nodi, che dobbiamo enucleare se vogliamo conoscerli da vicino. Restano il primo abisso, che separa un vasto paesaggio dal singolo monumento, e il secondo abisso, che separa il singolo monumento dalle infinite cose che lo compongono e arredano, le quali possono muoversi nel tempo come gli attori su una scena.

Partiamo dunque con incerta fiducia per queste isolette trascelte di Roma, staccate provvisoriamente dal continente cui appartengono, la cui geografia è nota. È un modo per avvicinarsi a parti quasi volendole toccare e vedere come al microscopio. Ma poi il lettore, passando dagli Angoli all’Atlante, potrebbe scegliersi egli stesso altri dettagli da ingrandire (con lente o espediente digitale), come si farebbe con un insetto da anatomizzare, imparando così anche lui sia a planare che a precipitarsi in uno zoom, a seconda delle curiosità. Perfino l’amore non è che l’ingrandimento di una singola persona.

Ma trarre particolari da una rete contestuale in cui possono essere poi facilmente reintegrati è diverso che pescare casi singoli da contesti ignoti o mal studiati; né è sufficiente rimedio ricorrere a serie tipologiche, eradicate anch’esse dalle matrici. Si tratta insomma, qui, di un’archeologia che parte dai paesaggi e scende al singolo oggetto mobile o a una particolare tipologia e non viceversa, come fa l’ottica storico-artistica, che pesca pesci ignorando il mare.

Si potrebbero immaginare paesaggi e monumenti di Roma come casi clinici dal forte carattere qualitativo, nel senso dato dalla introduzione di Oliver Sacks a Un mondo perduto e ritrovato del neuropsicologo russo Aleksandr Lurija2. Il libro di Lurija è tutto un anatomizzare e un ritrarre il suo paziente, come già aveva fatto Freud, dove la precisione della descrizione della sindrome si accompagna all’immedesimazione nella persona che la incarna, le quali conducono dritto alla narrazione, in una sorta di “romanzo neurologico”. Anche Sacks, allievo di Lurija, compie questo miracolo di fusione nei casi suoi che hanno avvinto il mondo.

Lurija racconta di Lev A. Zaseckij, tenente dell’Armata rossa, che nel 1943, all’età di 23 anni, è stato colpito da un proiettile tedesco nella zona occipito-parietale sinistra del cervello. Da allora Zaseckij è stato affetto da caos visivo, non riusciva a immaginare il lato destro del proprio corpo e la memoria era devastata da una frammentazione caotica. Lurija ha assistito Lev per 26 anni.

I lobi frontali del cervello erano intatti, quindi era consapevole del suo stato, ma doveva riordinare e ricostruire il racconto della propria vita, elaborando dai frammenti un insieme che avesse un senso. Il ricordo è sempre un qualcosa di attivo, la costruzione creativa di una esistenza (la memoria, forse, non è che la riparazione a un danno del tempo). Il Lev di prima era distrutto, ma quello dell’amnesia e dell’afasia – all’inizio quasi totali – aveva ritrovato sé medesimo. Avrebbe potuto lasciarsi andare e perdersi per sempre, ma dalla lotta impari Lev è uscito vincitore.

È riuscito a ricomporre i pezzi sparsi del suo esistere mentale in quadri contestuali, servendosi delle parti del cervello rimaste intatte. È stato un detective e al tempo stesso l’oggetto della propria inchiesta. È partito da una testa vuota, senza ricordi e saperi, piena di un’accozzaglia di residui confusi, e tra difficoltà indicibili ha recuperato i primi grumi di memoria per ritrovare infine il corso della vita, come un bambino che deve crescere e svilupparsi una seconda volta.

Nel cervello di Lev erano rimasti intatti la percezione immediata del mondo, le intenzioni, i desideri, le emozioni, la consapevolezza e l’entusiasmo, ma era per lui difficilissimo passare da singoli oggetti a situazioni intere, fatte dei rapporti tra quegli stessi oggetti: “Mi tocca continuamente immaginare i pezzi mancanti delle cose... Ora vedo tutto diviso in singole parti..., lo spazio è disgregato..., la pallottola ha infranto i legami tra le cose”. Così Lev, ferito al capo, si è salvato trasformandosi in “archeologo della memoria”, basandosi principalmente su quell’energia che in lui non si era spenta: l’entusiasmo creativo.

Anche Roma è una mente colpita dai proiettili dei millenni e i danni paiono irreparabili: disordine, frammentazione, perdita della memoria e spazi disgregati. Ma la paziente analisi, l’appassionato ardore ricostruttivo e la costanza pugnace dell’archeologo – che rappresenta la parte illesa del cervello urbano – consentono a lui di superare i deficit prodottisi nel tempo e di ridare senso non tanto a monumenti singoli ma a loro insiemi, cioè ai paesaggi vari di cui la città antica è composta.

Come fare? Ricomponendo i frammenti dispersi in contesti significativi: uno sforzo simile a quello di Lev, ma quanto meno doloroso! Il racconto mai è dato ed è sempre il frutto di un impegno capace di riesumare il passato in un progetto di ricreazione intellettuale grazie al quale il tempo trascorso riprende a scorrere, come un Lazzaro resuscitato che cammina.

Ridare la vita a Roma antica significa imparare a vivere più compiutamente il tempo nostro ed è l’esito della digestione euristica di una civiltà osservata nel suo centro di gravità da un punto di vista attuale. A forza di rammendi, si diventa ricamatori sempre più destri e anche sempre più incontentabili. La città così come è esistita nelle diverse epoche è morta, ma l’archeologo, che in tutt’altro tempo vive e opera, può arricchire il presente e la stessa sua vita riconquistando e interpretando, grazie ai nuovi mezzi disponibili, le parti colpite dall’ingiuria dei secoli, avvalendosi di quel poco o di quel molto che il nulla non è riuscito a dissolvere. Ogni frammento risparmiato, anche il meno appariscente, serve: è pedana per saltare al frammento successivo e così si imbastisce una Polinesia di informazioni che equivale a una città antica, pur essendo anche un costrutto mentale attuale.

Ma l’archeologo riesce a fare ciò solo se segue le tracce morali e scientifiche di Freud, Lurija e Sacks, non soltanto riguardo a sé stesso ma anche riguardo a mondi interi che i lustri hanno disperso e che lui può ricondurre, materialmente, visivamente e spiritualmente, strato dopo strato e periodo dopo periodo, alla luce del proprio tempo. Servono le filologie delle cose – tipologia, stratigrafia, topografia –, ma anche un ingrediente meno noto, più impalpabile ma quanto mai fertile di cui gli scettici radicali (gli ipercritici) sono privi: l’entusiasmo creativo per i nessi tra le cose – quello che Lev ha avuto in sommo grado –, il quale consente di riunire quanto è slegato e di integrare le parti mancanti.

Si tratta di trasformare i vari nodi in reti, che mai perdono tutte le lacune, per cui rimangono imperfette, ma che risultano sempre più significative mano a mano che si avanza in quella regia dei documenti più diversi, in quella rigenerazione umana che è la ricerca storica quando ha come oggetto principale le rovine. La città è una mente sociale che ha attraversato i millenni, danneggiandosi in parte fino alla necrosi, ma anche risparmiandosi in modo da consentire quel recupero che ogni rinascita presuppone.

È stata la pallottola a spiegare a Lurija il funzionamento della mente di Lev; sono le rovine, gli strati e gli oggetti di Roma antica che hanno consentito di ricostruire Roma capendone il fluire, fin dai primordi. Per ricostruire servono storia e scienza, ma anche empatia e sensibilità artistica.

Dedico questo libro alla mia amata moglie, Mara Fazio.

1 G. Urbani, La scienza e l’arte della conservazione dei beni culturali, 1981, in «Ricerche di Storia dell’arte», 16, 1982; Id., Intorno al restauro, Skira, Milano 2000, pp. 43-48.

2 Adelphi, Milano 2015.

Angoli di Roma
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