51.
Kate trovò un posto per parcheggiare, prese l’anello dal cassetto del cruscotto e lo infilò al dito. Nascose lo spray al peperoncino che le aveva dato Palmer nella tasca del cappotto e camminò verso casa cercando di non scivolare sull’acciottolato ricoperto da una lastra di ghiaccio.
Prese l’ascensore, salì all’ottavo piano e frugò nervosamente in cerca delle chiavi, con lo stomaco sottosopra. «James?» chiamò.
Lui le andò incontro in corridoio con il cappotto e gli stivali addosso. La salutò con un bacio.
«Scusa se ti ho fatto preoccupare, ieri», disse.
«Non fa niente, la cosa importante è che tu stia bene.»
«Possiamo parlare?»
«Sto uscendo. I medici di mia madre sono preoccupati perché sta avendo problemi di coagulazione e riferisce intorpidimento e prurito, vado un attimo a sentire.»
«Oddio. Posso fare qualcosa?»
«Vieni a trovarla, più tardi, sono certo che le solleverebbe il morale.»
«Assolutamente.»
«Senti, Kate.» James le prese la mano. «Io voglio saperti serena, non spaventata e stressata. Secondo me rivangare il delitto di tua sorella non ti fa bene, ma se proprio devi, sappi che hai il mio appoggio. Non voglio esserti d’ostacolo. È solo che a volte non so quale sia il modo giusto di gestire questa situazione.»
Kate gli strinse la mano. «Ne parliamo appena tua madre sta meglio.»
Si scambiarono un lungo abbraccio, poi lui se ne andò.
Qualche ora dopo, esausta, Kate mangiucchiò un’insalata e si coricò. Era andata al Massachusetts General Hospital a trovare Vanessa e quando era tornata a casa, da sola, si era messa a lavorare sulle scartoffie. James, preoccupato dal rischio di una trombosi, aveva preferito restare accanto alla madre. Passò i polpastrelli sulle piccole cicatrici, fossette grandi quanto una capocchia di spillo sparse qui e là sulle cosce e sugli avambracci. Ripensò a quando affondava le puntine da disegno nella carne e al torpore che seguiva; una sorta di via d’accesso a una realtà più limpida. Osservò i tagli irregolari sui polsi e ricordò il dolore acuto del rasoio che incideva la pelle, quando aveva provato a suicidarsi. Era sopravvissuta a questo. Poteva sopravvivere a qualunque altra cosa.
Kate si svegliò di soprassalto nel cuore della notte. Guardò l’orologio: le tre. C’era vento fuori, la forza dell’inverno spingeva contro i vetri. Un’oscura malinconia le s’insinuò nel profondo.
Prese il telefono sul comodino e vide un messaggio vocale di Palmer Dyson. Lo ascoltò. «Saluti da Tijuana. Volo scadente, cibo pessimo, ma qui splende il sole. Come stai? Chiamami quando senti il messaggio. L’intervento è domani.»
Non era certa di che ora fosse esattamente in Messico. Lo chiamò e trovò la segreteria. «Ehi, sono Kate. Il sole di Tijuana mi fa un po’ invidia visto che qui saremo a meno cinque. Comunque in bocca al lupo per domani. Fatti sentire dopo l’intervento.» Appoggiò il cellulare in grembo e chiuse gli occhi.
Le sembrò fossero passati pochi secondi quando sentì suonare il telefono.
Era Ira. «Scusa se ti ho svegliata», disse.
Si drizzò a sedere e guardò il cielo dalla finestra. Il sole nascente era nascosto da un cumulo di nubi frastagliate color magenta elettrico.
«Figurati», disse lei un po’ intontita. «Che succede?»
«Maddie Ward ha ricevuto la lettera di dimissione. Sarà consegnata oggi alla famiglia affidataria. Mi sembrava giusto avvisarti.»
«Perché tanta fretta?»
«La sua assicurazione copriva al massimo dodici giorni, quindi l’unica alternativa era il riformatorio. E tu sai come la penso in proposito.»
«Certo», concordò lei. Mandare un’adolescente autolesionista in un istituto pieno di giovani delinquenti era tutt’altro che consigliabile.
«Ursula le ha trovato una famiglia disposta a occuparsi di una ragazzina con problemi come Maddie. Impresa non da poco. Hanno un eccellente curriculum. Abbiamo dovuto fare presto.»
«Non avevate scelta, giusto?»
«Siamo stati fortunati. Comunque, Maddie ha chiesto di te. Gli affidatari vengono a prenderla alle dieci, quindi se vuoi passare stamattina a salutarla sei la benvenuta. Una visita puramente amichevole.»
«Sarò lì alle nove.»
«Bene.»
Era una splendida giornata, con il cielo tinto di un azzurro cristallino. Il tragitto in auto fino a Boston fu molto piacevole. Il reparto di Neuropsichiatria infantile pullulava di volontari truccati da pagliacci che distribuivano palloncini e intrattenevano i pazienti più piccoli. Gli adolescenti alzavano gli occhi al cielo quando assistevano ai loro giochi di magia, ma poi chiedevano sempre alle infermiere quando sarebbero tornati.
Kate trovò Maddie rincantucciata in camera, assorta nei suoi pensieri, con il piumino rosa piegato accanto a lei. Aveva preparato tutto ed era pronta a lasciare l’ospedale. Fisicamente, quantomeno. Indossava una maglietta rosa, pantaloni della tuta blu e un paio di Nike appena uscite dal negozio; le infermiere dovevano aver fatto un’altra colletta. Si appuntò mentalmente di contribuire.
«Buongiorno», disse Kate.
Maddie le fece un sorriso radioso. «Sei tornata! Mi chiedevo dov’eri finita.»
Kate prese una sedia. «Come ti senti oggi?»
«Benino, credo. Venerdì sono venuti i poliziotti, mi hanno fatto un sacco di domande.» La ragazza aprì lo zaino e tirò fuori un album di fotografie malconcio con la scritta RICORDI ornata di paillettes sulla copertina. «Me l’hanno portato da casa mia», disse, aprendolo. «Per aiutarmi a ricordare le cose.» Girò le pagine, mostrando a Kate le sue foto da neonata, da bambina, le immagini dei genitori da sposini. «Qui avevo sei anni», precisò indicandone una in particolare.
Kate osservò la fotografia con attenzione. Maddie e Savannah avrebbero potuto essere gemelle.
«E guarda. Questi sono zio Henry e la mamma.»
Penny doveva avere quindici anni e Henry Blackwood le teneva un braccio intorno alle spalle ossute, possessivo. Lei sembrava intimidita e al contempo orgogliosa. Lui era a volto scoperto, senza il berretto da baseball con cui lo ricordava Kate che gli teneva nascosti i capelli biondi con l’attaccatura a V e gli straordinari occhi verdi. Era una foto che non lasciava dubbi. La somiglianza delle due ragazze col padre era lampante.
«Ho fatto un sogno stanotte», confessò Maddie rimettendo l’album nello zaino. «La mamma mi stava accompagnando a scuola quando all’improvviso ci siamo tuffate in mare e la macchina ha iniziato a riempirsi d’acqua.»
«Wow. Terrificante.»
«Stavamo per annegare, ma mi sono svegliata prima della fine.»
«Secondo te cosa significa?»
Lei alzò le spalle. «Non saprei. Ho rischiato di annegare un mucchio di volte nella vasca da bagno. Proprio come nel sogno.»
Kate spalancò gli occhi. «In che senso?»
«Mentre facevo il bagno. La mamma a volte mi teneva la testa sott’acqua finché stavo per morire, poi all’ultimo momento mi lasciava. Un giorno nevicava, eravamo appena tornate dal supermercato...»
«È un sogno anche questo?»
«No, è successo davvero. La stavo aiutando a scaricare la spesa dalla macchina ma sono scivolata sul ghiaccio e ho rotto un cartone di uova. Lei ha detto che le facevo schifo. Mi ha dato della stupida. E a me sono venute le fitte allo stomaco perché sapevo cosa mi aspettava. Aveva quello sguardo.»
«Che sguardo?»
«Papà diceva di non preoccuparmi, che prima o poi le sarebbe passata, ma si sbagliava. Lui non poteva capire perché non era quasi mai a casa.»
«Cosa succedeva quando aveva quello sguardo, Maddie?»
«Riempiva la vasca e mi costringeva a immergermi nell’acqua. Poi mi teneva la testa sotto finché pensavo di stare per morire, e all’ultimo secondo mi lasciava andare.»
Kate non aveva sospettato di Nelly Ward, ma quadrava perfettamente. Era una reazione comune, per chi subiva violenza, usare violenza sugli altri. «Stai dicendo che tua madre ha cercato di affogarti? Più di una volta?»
«Un sacco di volte», ammise Maddie a bassa voce.
«L’hai detto alla polizia?»
Scosse la testa. «Non me l’hanno chiesto.»
«Al dottor Ira?»
«Non ancora.»
«E il tuo patrigno lo sa? Sa che tua madre ha provato ad affogarti?»
Maddie scosse la testa di nuovo. «No. Lui non sa niente. La mamma diceva che se l’avesse scoperto l’avrebbe uccisa. Non dovevo dirlo ad anima viva.»
«Lui non ti faceva del male, giusto? Era solo tua madre.»
Maddie annuì solennemente.
«Però hai detto che ti ha dato una spinta una volta, ricordi?»
«Sì, ma era solo una spinta. Lui non mi torcerebbe un capello, mi vuole bene.» Si strinse le mani sullo stomaco. «Non mi sento bene.»
Kate era sconcertata. «Grazie per quello che mi hai detto, Maddie. Ci vuole molto coraggio.»
La ragazza cominciò a tremare. «Quando rivedrò mio papà?»
«La polizia lo sta ancora cercando.»
«Potrò vederlo quando lo trovano?»
«Non conosco la procedura, ma chiedo e ti faccio sapere.»
Lei annuì, apparentemente soddisfatta.
«Voglio che tu capisca che andrà tutto bene», la rassicurò Kate.
La ragazza la guardò scettica. «Come fai a saperlo?»
Decise di dirle le cose come stavano, anche se avrebbe significato rinunciare definitivamente a essere la sua psichiatra. Tanto sapeva che era in buone mani con Ira.
«Come faccio a saperlo? Te lo spiego subito.» Si tirò su le maniche, scoprendo le braccia. «Mi tagliavo anch’io, come te. E sto bene, adesso.»
Maddie fissò le cicatrici. «Cosa usavi?»
«Puntine. Spilli. Rasoi. Forbici. Tutto quello che trovavo.»
«Sentivi le voci anche tu?»
«Quelle no.» Si tirò giù le maniche, e Maddie si sedette più dritta. «Le voci vengono dal tuo subconscio. Non è il diavolo che ti parla, o qualche specie di mostro. Quando le persone che amiamo ci trattano male, nella nostra testa si forma una camera a eco. È un meccanismo per fronteggiare lo stress. Tienilo sempre presente. Se sai da dove viene la voce, è più facile ignorarla. E dopo un po’ che la ignori non la senti più.»
Maddie annuì, pensierosa. «Ti rivedrò?»
«Ci vedremo sicuramente qui in giro, visto che continuerai la terapia con il dottor Ira come paziente esterna.»
Un sorriso illuminò lentamente il volto di Maddie. Infilò una mano nello zaino e tirò fuori un cellulare nuovo di zecca. «Guarda cosa mi ha dato Ursula. È da parte dei miei genitori affidatari. Loro ne hanno uno a testa. Fico, eh?»
«Fichissimo.»
«Guarda», le mostrò lo schermo. «L’app del meteo dice che nevica ancora. Ci scambiamo il numero?»
«Buona idea» rispose lei, e inserirono i numeri nei rispettivi cellulari.
«Se ci facessimo un selfie?» propose Maddie, eccitata.
«Con piacere.»
Si misero in posa. «Sorriso!» Clic.
«Te la giro», disse Maddie. Un secondo dopo il cellulare di Kate vibrò e guardarono insieme la fotografia. Sorridevano entrambe.
Sentirono bussare alla porta e Ursula O’Keefe, l’assistente sociale dell’ospedale, fece capolino nella stanza.
«Scusate, interrompo?»
«No, ci stavamo salutando», rispose Kate.
«Tutto pronto?» domandò Ursula a Maddie. Lei prese il piumino e lo zaino e saltò giù dal letto. Poi corse dritta tra le braccia di Kate e si strinse a lei. «Ci vediamo presto.»
Kate sciolse delicatamente l’abbraccio. «Ricorda. È solo un’eco.»
Maddie annuì, convinta.
«Bene, signorina. È ora di conoscere la tua nuova famiglia», disse Ursula. «Ho saputo che hanno un cane, un barboncino che si chiama Barbanera...»
Maddie rise e Kate la guardò allontanarsi.