1.
L’appuntamento delle tre di Kate Wolfe era alla porta con indosso una minigonna striminzita, una maglietta azzurra, calze scozzesi al ginocchio e zatteroni. Nikki McCormack, quindici anni, soffriva di disturbo bipolare. Si credeva al centro dell’universo. Viveva in un mondo di sua creazione.
«Ciao, Nikki», disse Kate con simpatia. «Prego, entra.»
L’adolescente avanzò di tre passi nello studio spazioso e si guardò intorno come se non lo riconoscesse. Era tutto parte del rituale. Osservò con attenzione la moquette color carbone, le pareti grigio cenere con i diplomi universitari incorniciati, la sedia girevole di Kate e l’ampia scrivania di quercia come per accertarsi che in sua assenza non fosse cambiato niente. In sette mesi, l’unica cosa che era mai cambiata era il cielo che vedeva dalle finestre, a volte nuvoloso, altre soleggiato, ma Nikki voleva che tutto fosse sempre uguale durante le sue sedute di psicoterapia. Un’altra peculiarità della sua malattia.
«Mmm», fece la ragazza con l’indice tra le labbra lucide.
«Mmm bene o mmm male?»
«Mmm e basta.»
Okay, sarebbe stata una giornataccia.
I meteorologi avevano previsto neve. Avevano discusso quanti centimetri. Era febbraio, inverno pieno a Boston, ma Nikki non era vestita per ripararsi dal freddo. Era vestita per fare colpo. Sopra portava soltanto un giacchino leggero in pelle sintetica e una sciarpa di seta rossa; niente guanti, niente leggins, nulla a proteggere dal gelo quel corpo pallido ed esile. Aveva la pelle d’oca e i capezzoli irrigiditi che spingevano contro la maglietta sottile, ma Kate non sarebbe stata così incauta da suggerirle un abbigliamento più adatto alla stagione. Nikki avrebbe lasciato lo studio come aveva fatto altre volte, a scapito della seduta. Di conseguenza, Kate mise da parte l’istinto materno e tenne lo sguardo fisso sugli occhi azzurri di Nikki, da cui trasparivano intelligenza e astuzia. «Siediti.»
Lei esitò sulla soglia. Le emozioni che le passavano sul volto erano come i titoli che scorrevano sui news ticker di Times Square. Facili da leggere. Non si sentiva la benvenuta. Non si sentiva amata. Pensava che gli altri ridessero di lei. Che una ragazza così sveglia, sana e piena di potenzialità potesse avere un’autostima tanto bassa non era solo preoccupante. Era desolante.
«Ti stavo aspettando», disse Kate parlandole come a un gattino. «Vieni, siediti.»
Nikki entrò nello studio con il contegno un po’ goffo degli adolescenti, si sedette sulla poltrona di pelle color cammello e accavallò le gambe magrissime. Le scarpe con la zeppa erano ridicole su di lei e probabilmente anche pericolose, con la neve. Portava anelli smaltati a tutte le dita e una catenina d’oro al collo. Il trucco pesante, con un dito di rossetto color pesca sulle labbra e un eccesso di mascara gommoso sulle ciglia, le dava un’aria dissoluta e accattivante, ma c’era un che di passivo-aggressivo in lei che finiva per risultare destabilizzante.
«Allora», cominciò Kate cercando di richiamare la sua attenzione. «Come stai?»
La ragazza osservò le stampe incorniciate alle pareti, la posta straripante sulla scrivania, e infine Kate. «Bene, direi. Mi stavo chiedendo... come gestisce i suoi pazienti e tutto quanto?»
«Come gestisco i miei pazienti?»
«Voglio dire, visto che siamo così incasinati. Lei sta lì seduta, giorno dopo giorno, a sentire noi che ci lamentiamo, piagnucoliamo, brontoliamo... come fa?»
Kate sorrise. Aveva cominciato a esercitare di recente, era ancora ai primi passi. I suoi titoli incorniciati occupavano appena mezzo metro di parete dietro la scrivania. Aveva una laurea in Psichiatria e neuroscienze della Boston University e un dottorato in Medicina conseguito a Harvard. La libreria di betulla conteneva decine di riviste scientifiche con articoli di cui era coautrice e sulla scrivania c’era la bibbia degli psichiatri, il DSM-V, la fonte a cui ricorreva regolarmente. «Come faccio a fare cosa, per l’esattezza?»
«A reggere lo stress. A sopportare noi svitati.»
«Be’, innanzitutto non considero i miei pazienti ‘svitati’. Ognuno affronta lo stress a modo suo. Io per esempio me ne libero andando a correre, o facendo arrampicate o escursioni a piedi.»
«Sul serio?» chiese la ragazza a occhi spalancati. «Perché non ce la vedo a fare la maratona di Boston o roba del genere.»
«Chi ha parlato di maratona? Per carità, non fa per me», disse Kate ridendo. «Però l’esercizio fisico mi aiuta a superare lo stress.» Stava minimizzando giusto un pochino. Adorava correre, camminare e arrampicare. Era la sua valvola di sfogo, a parte il sesso con il suo fidanzato.
«E com’è diventata psichiatra?» domandò Nikki, cambiando argomento.
«È stato un percorso lungo. Mi sono laureata, poi ho fatto il dottorato, l’internato e la specializzazione. Alla fine, l’anno scorso, ho cominciato a ricevere privatamente i pazienti, come te.»
«Oh.» Nikki fece un sorrisetto. «Quindi sono una cavia?»
«Non ti definirei tale.»
«No? Come mi definirebbe?»
Kate sorrise; le piaceva lo scetticismo da adulta misto a ingenua spavalderia con cui questa paziente affrontava il mondo. «Be’, ti considero una persona brillante, sensibile, con un grande intuito e con un disturbo bipolare, da tenere a bada, e per cui hai bisogno di aiuto.»
La ragazza agitava un piede con impazienza. «Quanti anni ha?»
Okay, questa era una sorpresa. «Ne avrò presto trentadue.»
«Presto quanto?»
Kate avvertì un pizzico di frustrazione ma fece del suo meglio per non darlo a vedere, attingendo dall’esperienza accumulata durante l’internato all’ospedale McLean di Belmont, dove aveva avuto a che fare con i matti veri. Casi davvero gravi. La tragedia umana a livelli epici. Nikki ne sarebbe rimasta impressionata. «Da un giorno all’altro», rispose, vaga.
«Wow. Trentadue. E non è ancora sposata?»
«No.»
«Perché no?»
«Il mio fidanzato mi fa la stessa domanda di continuo.»
«Ah sì?» Nikki rise. «James ha ragione. Dovrebbe sposarlo.»
James. Kate glielo aveva nominato un paio di volte ma non le piacque sentire il suo nome in quel contesto, come se lei e James fossero personaggi di una sitcom.
«Hai una bella risata», disse dirottando la conversazione. «E un sorriso meraviglioso.»
Nikki si mostrò compiaciuta. «Lei è una delle poche ad avere il privilegio di vederlo, dottoressa. Non sorrido molto spesso.»
«Lo so. E come mai?»
La ragazza fece spallucce. «Forse perché la vita fa schifo?»
«Sì, a volte fa schifo, è vero. Ma non sempre.»
«Wow. Non sono molti gli adulti che usano questo linguaggio. Apprezzo la schiettezza.»
«Be’, sono schietta perché voglio che tu ti fidi di me.»
«Mi fido. Più o meno.»
«Bene.»
«Quindi se ne va in vacanza e mi lascia qui sola e abbandonata?» disse Nikki con una smorfia crucciata. «Per favore, non vada, dottoressa. Non adesso. Sono egoista, lo so.»
«Be’», Kate esitò, ma poi sorrise. «Tutti meritano una vacanza ogni tanto, non credi?»
«Sì, certo. Scherzavo. Era per ridere.»
Ma sapevano entrambe che non era così.
«James viene con lei? In vacanza?»
La seduta stava uscendo dai binari e le chiacchiere stavano distraendo la paziente dalla terapia. Kate provò a riprendere il filo ma oggi non era molto in vena. Doveva ancora fare le valigie. «Perché tante domande?» chiese. «Cosa ti preoccupa del fatto che vada in vacanza?»
La paziente si grattò il mento con un’unghia smaltata e notò qualcosa alle spalle di Kate. «Quelle cosa sono? Noccioline?» Indicò la libreria.
Kate restò di sasso nel vedere un barattolo di noccioline tostate Planters in cima alla libreria. Doveva avercele lasciate Ira. Il dottor Ira Lippencott era il suo mentore. Uno psichiatra geniale, formatosi a Harvard, con un senso dell’umorismo molto personale e un approccio individualistico alla psicoterapia. Cercò di non dare importanza alla cosa, ma non poté fare a meno di chiedersi se Ira non avesse lasciato quelle noccioline nel suo studio di proposito, come una sorta di test. E lei non le aveva neanche viste. Da quanto tempo erano lì a prendere la polvere? Probabilmente lui si stava domandando che diavolo era successo alla sua ex interna preferita per non notare nemmeno le noccioline sulla libreria.
«Quello cos’è?» continuò Nikki indicando la scrivania di Kate. «È nuovo?»
«Oh. È un fermacarte. Un trilobite.»
«Wow. Bello grosso.» Nikki McCormack era appassionata di paleontologia. Sapeva perfettamente cos’era un trilobite. «Coltraenia oufatensis. Dell’ordine dei Phacopidae.» Cambiò posizione sulla poltrona e si sistemò la minigonna che era salita un po’. «Mi fa pensare a una cosa... e se facessi la stessa fine?»
«La stessa fine di chi?»
«Di questo trilobite. Magari tra un migliaio di anni il mio cranio servirà a impedire a delle carte di volare via da qualche scrivania. Potrei finire così anch’io, no?»
«Ne dubito molto.»
«Perché ne dubita? Perché non potrei fare la fine di un fossile?»
«È questo che ti preoccupa? Essere studiata come un fossile?»
Nikki strinse le labbra.
Kate prese in mano il fermacarte. «È questo che pensi, Nikki? Che ti sto studiando? Che per me conti quanto questo trilobite?»
Gli occhi della ragazza si fecero umidi e distolse lo sguardo.
«Perché nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Tu sei viva, qui e ora, e la mia più grande speranza è che un giorno non lontano tu impari ad amare te stessa quanto ti amano gli altri.»
Gli splendidi occhi di Nikki si riempirono di lacrime che pian piano scesero a rigarle le guance. Otto mesi prima, durante le sue quattro settimane di degenza al reparto di Neuropsichiatria infantile dell’ospedale Tillmann-Stafford, Kate le aveva diagnosticato la malattia bipolare e la depressione, il che significava che era impossibile prevedere se sarebbe stata viva tra qualche decennio. Sarebbe arrivata a trentadue anni? Kate certamente se lo augurava, ma le statistiche non facevano ben sperare. Spettava a lei aumentare le probabilità.
«Nikki», disse con dolcezza. «Ne abbiamo già parlato ma vorrei accennartene di nuovo. Dal momento che la settimana prossima sarò via, il dottor Lippencott sarebbe felice di riceverti al mio posto. Possiamo fissare l’appuntamento?»
«No.»
«Sicura?»
«Non mi fido», disse la ragazza con voce tremante.
«Non ti fidi?»
«Esatto. Dovrei fidarmi degli altri, vero? Be’, invece no.» In posizione strategica sul tavolino di legno biondo accanto alla sua poltrona c’era una scatola di fazzoletti. Ne prese uno e si soffiò il naso.
«Non è un problema», disse Kate. «Ci vuole tempo per fidarsi delle persone. Ma del dottor Lippencott ti puoi fidare. Ti fisso un appuntamento per martedì prossimo? Alla stessa ora?»
Il dubbio le aleggiava in volto. «Solo perché lei dice che dovrei fidarmi di lui non significa che riesca a farlo o che voglia farlo.»
«No, ma... io mi fido di lui. E tu ti fidi di me.»
«Uno più uno non fa sempre due.»
«Questo è vero, ma...»
«Aspetti. Quasi dimenticavo.» La ragazza raccolse lo zaino malconcio da terra, lo posò in grembo e ci frugò dentro. «Le ho portato delle cosucce», disse eccitata.
Si accese una spia rossa. «Non posso accettare regali dai pazienti, Nikki. Ne abbiamo già parlato...»
«Non sono propriamente regali.» Tirò fuori una manciata di vecchi oggetti e li allineò sul bordo della scrivania: un paio di occhiali anni cinquanta, un pettine di tartaruga semitrasparente e una bussola corrosa. «Si trova di tutto sulla spiaggia. La gente butta via le cose più incredibili, che dopo essere finite su qualche chiatta dei rifiuti e scaricate in mezzo all’oceano vengono riportate a riva dalle correnti. Alcune sono antiche. E guardi, ho tenuto il pezzo forte per ultimo.» Estrasse da uno scomparto nascosto dello zaino un pezzo di metallo tondeggiante e glielo porse. «È di piombo. Indovini cos’è, dottoressa Wolfe. Dai. Indovini.»
Kate osservò l’oggetto che aveva in mano. «Un bottone senza asola?»
«È un fermagonna degli anni venti. Pazzesco, vero? Le donne lo cucivano nell’orlo dei vestiti per evitare che il vento li sollevasse. Fico, eh?»
Kate sorrise. «Molto interessante.»
«Erano così pudiche, allora», osservò Nikki malinconica.
Kate strinse in mano il fermagonna. «Erano altri tempi.»
«Gente per bene e a modo», disse la ragazza scimmiottando l’accento britannico e lisciandosi la minigonna.
Kate cercò di restituirle i doni ma lei scosse la testa. «Può tenerli. Me li restituisce alla prossima seduta. Così so che torna.» Fece un sorriso forzato. «Dove andate in vacanza?»
Kate decise di non insistere sull’argomento. «Non preoccuparti. Tra due settimane sarò di nuovo qui.»
«Due settimane», sussurrò Nikki toccandosi le guance arrossate. «E se... ho bisogno di qualcosa? Voglio dire, se succede qualcosa?»
«Puoi sempre chiamare il dottor Lippencott. Altrimenti chiama me», rispose. «I miei numeri li hai tutti, no? Chiamami quando vuoi, Nikki. Davvero. Giorno e notte.» Prese un biglietto da visita dal contenitore di legno sulla scrivania e ci scrisse di nuovo il suo numero personale. «Andrà tutto bene. Voglio che tu capisca questo.»
«Grazie.» La ragazza prese il biglietto da visita e lo tenne in mano.
«Promettimi di chiamare se hai bisogno. Dico sul serio. Okay?»
«Okay», rispose lei a bassa voce.
Kate le fece un sorriso incoraggiante. «Sai, io e mia sorella facevamo questo gioco quando eravamo piccole: una volta alla settimana le misuravo l’altezza sul muro della cucina, sempre nello stesso punto, per vedere se era cresciuta. Savannah era minuta e non vedeva l’ora di diventare più alta. Così io per farla contenta qualche volta baravo un tantino sulle misurazioni e aggiungevo una tacchetta. E lei si entusiasmava pensando di essere cresciuta. Era il nostro giochetto.» Kate si chinò in avanti. «Ma non posso farlo anche con te. Non posso alterare la verità. Sarò assolutamente onesta con te, Nikki. Niente trucchi. Okay? Abbiamo tanta strada davanti a noi ma ti prometto che la faremo insieme. Non sei sola.»
Nikki annuì, rigida. «E torna tra due settimane?»
Kate sorrise. «Due brevi settimane.»