11.

Kate passò il resto del pomeriggio e la serata con Maddie Ward, che si rivelò avere quattordici anni e non dodici come aveva ipotizzato lei. La ragazza aveva atteggiamenti molto infantili per essere un’adolescente e questo allarmava Kate. La pubertà ritardata è piuttosto comune e può avere cause diverse, genetiche, ormonali, ambientali. Talvolta gli scatti di crescita dei bambini avvengano alla fine dell’adolescenza, ma Maddie era piccola per la sua età, senza nessuna delle precocità tipiche delle adolescenti. Non si era ancora sviluppata e questa sua immaturità poteva essere sintomo di gravi abusi.

Le avevano tolto la camicetta rosa e i jeans, lo zaino e il piumino d’oca, e ora indossava il pigiama che le aveva portato la madre nel sacchetto stropicciato e le calze del kit di benvenuto dell’ospedale. Le infermiere le avevano fatto scegliere il colore e Maddie aveva preferito il rosa bubble gum.

I membri dello staff ospedaliero la spingevano avanti e indietro da un’area a un’altra su una sedia rotelle per adulti, controllando i suoi parametri vitali e conducendo una serie di esami per valutare se avesse problemi di salute. Aveva un’aria da orfanella su quella sedia.

Di quando in quando, Kate usciva in corridoio a chiamare gli Ward al telefono di casa ma non rispondeva nessuno. Dovevano aver staccato anche la segreteria perché non le fu possibile lasciare un messaggio.

Gli psichiatri legali dell’ospedale fotografarono tutte le cicatrici e le croste sul corpo di Maddie per poter poi fornire un giudizio diagnostico-valutativo mentre Kate consultò le cartelle cliniche elettroniche leggendo tutte le annotazioni e le diagnosi dei medici in cerca di prove che convalidassero la sua ipotesi di abuso e negligenza.

Non trovò molto. Un dito rotto a cinque anni, quando si era ‘accidentalmente’ schiacciata un dito nella portiera dell’auto. Due costole fratturate e una commozione cerebrale a otto anni, quando era ‘caduta da un albero’» in giardino. C’erano altre piccole distorsioni e lesioni che si era procurata a scuola, ma niente sigarette spente sul corpo o tracce di strangolamento, nessun segno di malnutrizione. L’aspetto più inquietante era la mancanza di regolari controlli medici. Risultavano solo alcune visite al pronto soccorso e una serie di consulti psichiatrici. Se i genitori di Maddie non avessero avuto un’assicurazione sanitaria sarebbe stato meno strano, ma gli Ward erano ben coperti, e poi di solito i genitori portano i figli dal medico al primo starnuto. Gli Ward no. Già questo era molto sospetto. La ragazza godeva di buona salute, in generale, ma certo non stava bene.

Dopo un pasto abbondante alla mensa, Maddie sembrò riprendersi. Aveva gli occhi limpidi, le guance rosee. Si era un poco rianimata. Kate la portò in radiologia sulla sedia a rotelle e le fece fare delle radiografie per verificare la presenza di eventuali fratture ossee, vecchie o recenti, che potessero testimoniare gli abusi subìti. I bambini maltrattati tendono a proteggere i genitori, a volte per amore, altre per paura.

Tra un esame e l’altro, Kate chiacchierava con la paziente per sondare il terreno. Mentre aspettavano i risultati delle radiografie, disse: «Nel giardino di casa mia c’era un albero su cui mi arrampicavo sempre. Un’enorme quercia. Salivo più in alto che potevo perché... da lassù la vita sembrava meno brutta».

Maddie sorrise. «Io sono caduta da un albero una volta. Mi ha fatto malissimo.»

Kate annuì, perplessa. Che espressione infantile.

«Sono dovuta andare al pronto soccorso», aggiunse la ragazza.

«Quando è successo?»

«Avevo otto anni. Nella caduta ho urtato un ramo e mi sono rotta le costole.»

Kate fece una smorfia. «Ohi.»

«Sono dovuta restare una notte in ospedale.»

«Sai perché sei in ospedale adesso?»

Maddie fece spallucce. «Perché sono malata nella testa?»

«Stiamo cercando di capire cosa succede.» Allungò la mano per spostarle una ciocca di capelli dal viso e la ragazza si tirò indietro di scatto. Una reazione che le fece capire molte cose. «Scusa, non volevo spaventarti.»

«Non mi hai spaventata», ribatté lei sulla difensiva giocando con la coda.

«Cosa fa tuo padre, Maddie?»

«Guida il camion. È sempre via.»

A Kate sembrava di parlare con una bambina di dieci anni, ed era molto preoccupata. «Ma adesso è a casa, giusto?» domandò.

«No, torna tra qualche giorno.»

«Oh. Davvero?» Nelly le aveva detto che il signor Ward era a casa a dormire. «Sei sicura?»

Maddie annuì.

Kate decise di lasciar cadere l’argomento, per ora. «Siete solo tu, tua madre e tuo padre a casa? Hai dei fratelli o delle sorelle?»

«No. Sono solo io.»

«Animali? Un cane, magari?»

La ragazza scosse la testa. «Avevamo un criceto a scuola.»

«Ah sì?» Kate sorrise. «Anch’io avevo un criceto. Si chiamava Felipe.»

Maddie rise. «Il nostro Snark.»

«Hai mai desiderato avere fratelli o sorelle?»

«Sì. Ma la mamma dice che io faccio già per tre.»

«Capisco.»

La mamma? A quattordici anni i ragazzi dicono ‘mia madre’ e ‘mio padre’.

«La mia migliore amica ha due fratelli e tre sorelle.»

«Wow, sono davvero in tanti. Chi è la tua migliore amica?»

«Melissa.»

«Qual è la cosa che ti piace di più di Melissa?»

Maddie ci pensò un attimo. «La sua famiglia.»

«Cosa ti piace di loro?»

«Sono carini.»

«Carini come? Simpatici? Gentili?...»

Maddie si morse un labbro, riflettendo. «Non litigano. Ridono molto. Si fanno sempre gli scherzi ed è divertente. E mangiano pollo fritto a cena e gelato al cioccolato per dolce.»

«Wow, beati loro.»

«Veramente.»

Kate colse l’occasione per affrontare argomenti tabù. «I tuo genitori litigano molto?»

«Più o meno.»

«Ti senti a disagio quando litigano?»

Maddie annuì, gli occhi bassi.

«Perché? Gridano? Cosa fanno?»

«Urlano un sacco.»

«Nient’altro?»

La ragazza non rispose.

«Si danno le spinte?»

«A volte.» Scrutò Kate attraverso le lunghe ciglia. «Papà a volte dà le spinte alla mamma. Specialmente quando lei gli dà del fallito.»

«Le fa mai del male?»

«No.» Negazione.

«Sicura?»

«Non lo so.» Esitazione.

«A te dà mai le spinte? Ti sgrida?»

«Forse.» Mezza confessione.

Poi venne la domanda più importante. Era come attraversare un campo minato psicologico. «Tuo padre ti picchia, Maddie?»

La ragazza tacque per alcuni secondi. «Devo andare in bagno», disse infine.

«Okay, chiamo l’aiuto infermiera.»

Stasera era di turno Susie Potts, una venticinquenne sbarazzina dolce come un ripieno al lampone. Prese la paziente per mano e disse: «Ehi, coniglietta. È arrivata la scorta. Dobbiamo fare pipì, vero? Andiamo».

Maddie non poteva andare in bagno senza essere accompagnata perché era sotto sorveglianza per rischio suicidario. Susie, benché un po’ svagata, aveva un talento naturale con i bambini, sapeva intrattenerli con le ombre cinesi e con storielle divertenti. Kate invece era gravata dal fardello di arrivare alla verità.

Tornata dal bagno, Maddie non era più tanto bendisposta a rispondere alle domande. L’ultima doveva averla fatta chiudere in se stessa. Ti picchia? Forse Kate aveva calcato troppo la mano.

Maddie cambiò posizione sulla sedia a rotelle, lamentandosi di quanto fosse scomoda. Kate annullò l’ultimo esame, rimandò Susie in saletta e accompagnò la paziente nella sua stanza. Nel tragitto passarono davanti al banco delle infermiere del turno di notte; erano sedute a spettegolare, le loro frasi disseminate di punti esclamativi.

La camera assegnata a Maddie era in fondo al corridoio e ospitava un’altra giovane paziente che stava già dormendo. Erano le undici e dopo una lunga giornata di esami la ragazza era esausta. «Voglio andare a casa», gemette. «Dov’è la mamma? Voglio andare a casa!»

La compagna di stanza si svegliò lamentandosi del rumore. Kate provò a confortare Maddie ma non ci riuscì, di conseguenza chiese e autorizzò la somministrazione di un sedativo. Poco dopo arrivò una delle infermiere con una siringa in mano e affondò l’ago nel sedere di Maddie, mentre Kate spiegava in dettaglio alla ragazza tutto ciò che succedeva, il motivo per cui aveva deciso di darle un sedativo, cos’aveva detto la madre della sua condizione, perché il suo autolesionismo era preoccupante e in che modo in ospedale stessero cercando di aiutarla.

Maddie s’intorpidì a mano a mano che il farmaco faceva effetto. Riusciva a malapena a muoversi e a parlare, le pupille ridotte a due punture di spillo. Kate non amava i sedativi, ma dopo anni di esperienza ne riconosceva l’utilità. Finalmente la paziente chiuse gli occhi e scivolò nel sonno.

In corridoio, Kate chiamò di nuovo Nelly, ma il telefono suonò a vuoto.

Controllò Maddie per tutta la notte e discusse i risultati dei suoi esami con i vari specialisti. Le radiografie mostravano vecchie calcificazioni di calli ossei che corrispondevano alle fratture alle costole provocate dalla caduta dall’albero, ma ciò non escludeva le violenze fisiche. I segni dei morsi sulle braccia erano stati confrontati con le impronte dentali confermando la corrispondenza. Croste e cicatrici su braccia cosce e polpacci erano generate da ferite superficiali probabilmente autoinflitte, dal momento che nei punti che la paziente non avrebbe potuto raggiungere non ve n’era nessuna. Neppure questo escludeva l’ipotesi dei maltrattamenti, ma contribuiva in modo determinante ad allontanarla. La cosa più importante era l’assenza di tracce di abusi sessuali e di lesioni vaginali. Grazie a Dio, pensò Kate.

Esausta ma soddisfatta per essere riuscita a ricoverare Maddie, Kate affidò a Susie il compito di sorvegliarla e salì in studio a caricare i suoi appunti sul laptop. All’avvicinarsi dell’alba tornò al piano inferiore, congedò l’infermiera dall’aria stanca e guardò l’orizzonte passare dal rosa al rosso rubino in pochi spettacolari minuti.

Andò a controllare Maddie nella sua stanza. Mentre osservava le sue vene gonfie sulla fronte, si domandò cosa potesse averla indotta a procurarsi lesioni su tutto il corpo. Considerando la vita travagliata di Penny Ward, forse non era così difficile da immaginare. A parte sentire una voce, mancavano segni evidenti di schizofrenia come potevano essere le allucinazioni, il volto inespressivo, i comportamenti bizzarri o eccentrici, la trascuratezza nella cura della propria persona. D’altra parte, la schizofrenia non era l’unica possibilità. Gli autolesionisti potevano soffrire di disturbo di personalità, bipolarismo, disturbo d’ansia e altre sindromi. Ma Kate voleva scavare più a fondo, in cerca di spiegazioni che andassero oltre la malattia o lo squilibrio chimico. Voleva sapere perché Maddie Ward si trovava lì e cosa potevano averle fatto i suoi genitori.

Intorno alle sei, Maddie si svegliò.

«Come ti senti?» le domandò Kate. Stava rispondendo alle e-mail sull’iPhone e aveva un cerchio alla testa per lo strapazzo e la mancanza di sonno.

La ragazza si rannicchiò sotto le coperte. «Un po’ strana.»

«Mmm. Bene.» Kate sorrise. «Mi sento un po’ strana anch’io. Torpore? Prurito, formicolii?»

«No.»

«Mi dispiace per tutti quegli esami. E per l’iniezione.»

Maddie si grattò il naso. «Dici spesso che ti dispiace.»

«Davvero?» Kate fece una smorfia. «Accidenti, mi dispiace.»

Maddie rise. «Ti dispiace tanto di dispiacerti sempre.»

«Sono terribilmente dispiaciuta per tutti i miei dispiaceri.»

Risero entrambe.

Poi Maddie chiese: «Cos’ho che non va?»

«È quello che stiamo cercando di scoprire.»

«Guarirò?»

«Direi di sì», rispose Kate con sicurezza.

La ragazza chiuse gli occhi e si riaddormentò nel giro di pochi minuti.

Poco dopo arrivò Claire, l’aiuto infermiera del mattino, fresca come una rosa. Kate aveva una voglia pazza di nicotina ma fu abbastanza saggia da ignorarla. Decise invece di prendersi un caffè e in saletta s’imbatté in Ira.

«Per la miseria», esclamò lui. «Hai una faccia da far paura.»

«Grazie.»

«Vieni un attimo nel mio studio.»

Un fascio di luce mattutina si riversava dalle finestre chiuse ermeticamente. Ira si sedette alla sua scrivania mentre fuori la lama di uno spazzaneve ripuliva il giardino con un rumore stridulo.

«Che succede? Pensavo ti fossi presa qualche giorno di riposo.»

«Sono stata in piedi tutta la notte per questa nuova paziente, Maddie Ward. Sua madre l’ha mollata qui ieri letteralmente avvolta da crocifissi e corone del rosario. Quattordici anni, ma si comporta come se ne avesse dieci. Ha delle allucinazioni uditive e la madre crede sia posseduta.»

«Sul serio?» Spalancò gli occhi, interessato. «Sono dei fanatici religiosi?»

«Non saprei. Può darsi. Comunque, la madre si è rifiutata di mettere piede in ospedale. Ha firmato i moduli per il ricovero seduta in macchina nel parcheggio e se n’è andata sgommando.» Kate decise di non dire nulla del suo legame personale con Nelly, non ancora. Avrebbe solo complicato le cose e, a parte quello, voleva scavare un po’ di più nella faccenda per conto suo.

«Ti do una notizia, Kate», disse Ira. «Non puoi fare il medico ventiquattr’ore su ventiquattro. Hai perso una notte di sonno proprio adesso che ne hai più bisogno. Allora, che succede?»

«Non tolleravo il pensiero che passasse la notte in ospedale da sola», confessò lei. «Sospetto che in casa subisca violenze. Dal padre. Non ho prove inoppugnabili. Solo una sensazione.»

«Da quando sei un sostituto materno? Non devi confondere i ruoli, Kate. Qui non si tratta di te. Non puoi usare questa paziente per placare la tua coscienza per quello che hai fatto o non hai fatto sedici anni fa.»

Kate abbassò la testa e si guardò le mani. «Wow, Ira. Non farti problemi a essere schietto.»

«Mi conosci. Dico le cose come stanno.»

Diventò rossa. Lo guardò. «Questo non ha niente a che vedere con sedici anni fa. Okay? E hai ragione, sono un mediocre sostituto materno. Ma almeno quando stamattina Maddie si è svegliata io ero lì. Se si fida di me è più probabile che si apra e mi dica che diavolo sta succedendo.»

Lui sorrise. «Mi piace quando ti difendi dagli attacchi.»

«Era una prova?»

«Forse.»

Lo guardò torvo. «Non sono dell’umore per farti da cavia, Ira.»

Lui rispose con un’alzata di spalle.

«Comunque, finora sembra che le ferite siano autoinflitte, compresi i morsi sulle braccia. Combaciano con le impronte dei denti.»

«Quindi è un’autolesionista?»

Kate annuì. «Ma la signora Ward pensa che sia posseduta.»

«Interessante. Anche la ragazza lo crede?»

«Difficile a dirsi. Si è tolta croci e corone abbastanza in fretta, il che potrebbe implicare che è credente, visto che il diavolo dovrebbe rigettare i simboli religiosi. Potrebbe essere un caso di ‘sindrome da possessione’.»

«Okay», disse Ira. «Atteniamoci a questa ipotesi per il momento. Non sfidare il suo sistema di valori. Manteniamo questa sua convinzione come linea di fondo e affrontiamola assecondando il suo punto di vista.»

«Giusto», concordò Kate. «Se è in fase acuta, la paziente è scombussolata e facilmente influenzabile, quindi è normale che prenda per buona l’interpretazione della madre.»

«Un’interpretazione folle, questo è certo... ma andiamo pure avanti a parlare di spiriti, se è quello che vuole», consigliò Ira. «Qual è l’appartenenza religiosa? Che tipo di educazione ha ricevuto? Scaviamo nella storia famigliare, scopriamo di più sui suoi genitori. Vorrei seguire anch’io il caso, se non ti secca.»

«Affatto. Anzi, mi fa piacere.»

Gli suonò il telefono. «Scusa un attimo.» Scambiò due parole con il direttore del dipartimento, poi riagganciò. «Il resto come va, Kate? Come stai gestendo il suicidio di Nikki?»

«Bene, direi.» Fece spallucce. «A essere onesta, avere una distrazione è una buona cosa.»

Lui annuì. Aspettò che continuasse.

Kate parlò a ruota libera. «Voglio dire, me la sto cavando. Però sto mettendo in dubbio tutto quello che ho fatto negli ultimi due anni. Quanti altri sbagli avrò commesso? Quanti altri miei pazienti si suicideranno? Mi sto lasciando sfuggire tutti i segnali? Devo ammettere che questo imprevisto ha demolito la mia fiducia in me stessa.»

«Ti racconto una storia», disse Ira. «Dieci anni fa un tizio, un uomo di grande successo, ingoiò un’overdose di sonniferi. Aveva tutto, denaro, una bella famiglia, un lavoro di prestigio... ma era depresso. Lo presi come paziente e dopo qualche anno di psicoterapia migliorò. Non aveva più tendenze suicide. Riprese a esercitare l’avvocatura ad alti livelli. Tornò con la moglie da cui si era separato. Io ero al settimo cielo. Ma poi un giorno, indovina cos’è successo?»

«Si è suicidato?»

«No. Arresto cardiaco. Ironia della sorte, eh? Ero riuscito a salvargli la vita contro ogni previsione, ma è morto lo stesso. Perché? Perché siamo umani anche noi, Kate. Non siamo degli dei. Tutt’altro.»

Si accigliò. «Suppongo che tu gestisca le ironie della vita meglio di me.»

«Il fatto è che non possiamo controllare il destino dei nostri pazienti. Possiamo solo mostrare loro la strada nelle tenebre. Quando va bene.»

«Siamo delle torce, praticamente.»

Lui rise. «Sì, può darsi.»

Ripensò alla risata allegra di Savannah quella calda sera d’estate di sedici anni prima, quando Kate le aveva dato una torcia per trovare la strada. Invece la sorella si era persa per sempre.

Prima di seppellirla viva in giardino, Henry Blackwood le aveva rasato la testa, persino le sopracciglia. La polizia non aveva mai trovato i suoi capelli. Era una delle tante domande che ancora ossessionavano Kate: dov’erano i capelli biondi di Savannah?

Un respiro nell'acqua
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