16.

Alla fine del turno, Kate prese la 95 nord in uscita da Boston verso Blunt River, nel New Hampshire. Passò piccoli centri commerciali, zone industriali, foreste e laghi. Era metà pomeriggio e non c’era molto traffico per essere un venerdì.

Sedici anni prima, in un’aula giudiziaria di Manchester, Penny Blackwood aveva deciso il destino dello zio. La difesa aveva sostenuto che quella fatidica notte l’uomo era sempre stato con lei, ma Penny aveva smentito la dichiarazione giurata di Blackwood, affermando sul banco dei testimoni che lo zio si era assentato per sei ore durante la notte per poi tornare tutto scompigliato. La giuria aveva creduto a lei. Le sole prove sarebbero probabilmente state sufficienti a condannare Blackwood, ma Penny aveva trasformato la probabilità in certezza. Kate la ricordava vagamente e con compassione: una bionda slavata che si aggirava tra i corridoi della scuola come un fantasma, senza mai attirare l’attenzione su di sé. Una ragazza invisibile, come tante pazienti dell’ospedale.

Kate non era in aula durante la testimonianza di Penny perché non le era stato permesso di assistere al processo, ma aveva visto le immagini della testimone chiave che usciva dal tribunale al telegiornale delle sei. Assalita dalle telecamere e dalle raffiche di domande dei giornalisti, si copriva la testa con il maglione per nascondere il volto. Aveva visto anche Henry Blackwood in tv: era esattamente come dal vivo, sempre accigliato e con la faccia cattiva. Ancora oggi, il ricordo di lui era indissolubilmente legato a delle immagini granulose su uno schermo a tubo catodico.

Guidava da un’ora ormai, per tratti innevati e tratti assolati, in uno stato di semiveglia. Spense la radio e proseguì in silenzio lungo la sponda orientale del fiume. Era nel New Hampshire, con le sue montagne immerse nella foschia e il suo paesaggio invernale dipinto con una tavolozza d’oro, platino e argento. Ville imponenti si alternavano a case con la spazzatura ammucchiata nei cortili.

La cittadina di Blunt River era stata un grande centro manifatturiero nel settore delle calzature e la sua università dell’Ivy League era antica quasi quanto quella di Yale. La sua grande vergogna era il fatiscente manicomio chiuso nel 1996, ora un cumulo di edifici pericolanti non lontano dal moderno Blunt River Hospital con il suo nuovissimo reparto psichiatrico.

La madre di Kate era stata ricoverata nel vecchio manicomio quando Kate aveva dieci anni e Savannah sei, entrambe troppo piccole per comprendere la situazione. All’inizio della malattia, Julia Wolfe sentiva delle voci. Vedeva cose che gli altri non vedevano, volti nelle finestre, strane luci che serpeggiavano nell’aria. Era convinta che qualcuno la seguisse dappertutto. In ospedale, l’avevano curata per un episodio depressivo maggiore e le avevano diagnosticato il disturbo bipolare. Il disturbo bipolare, o maniaco-depressivo, è un’alterazione dell’equilibrio chimico del cervello, una malattia cronica con brusche variazioni dell’umore e un’alternanza di fasi depressive e fasi maniacali. Talvolta il bipolarismo è accompagnato da sintomi tipici della schizofrenia, come allucinazioni visive o uditive, e questo dà spesso luogo a errori di valutazione di pazienti con gravi alterazioni dell’umore e allucinazioni. Nel caso di Julia, queste ultime erano così forti che Kate si era sempre chiesta se una diagnosi di disturbo schizoaffettivo di tipo bipolare non sarebbe stata più precisa.

Julia era stata dimessa sei mesi dopo. Tempo poche settimane, si era riempita le tasche di sassi e si era annegata nel fiume come Virginia Woolf, la sua autrice preferita.

Kate prese l’uscita dell’autostrada per Blunt River e seguì il famigliare tratto di strada pieno di curve. Non tornava a casa da tre anni. Non che il padre se ne fosse mai lamentato. Non lo sentiva quasi mai, a parte a Natale e per il compleanno, le due occasioni in cui le regalava sempre un libro. I primi tempi provava a chiamarlo, ogni tanto, ma il più delle volte trovava la segreteria. Risponde il dottor Wolfe. Lasciate un messaggio dopo il segnale. Alla fine si era stufata di lasciare messaggi, anche perché non c’era molto da dire.

Arrivata nella cittadina, superò le case vittoriane e le case di campagna dove un tempo abitavano alcuni amici d’infanzia che non sentiva più, rallentò a un semaforo giallo e girò a sinistra su Three Hills Road. Una lieve inquietudine l’accompagnava mentre saliva e scendeva dalle tre colline, su e giù, su e giù, come in groppa a un drago al galoppo.

Quasi a casa.

Be’, non esattamente. Non aveva detto al padre che sarebbe venuta in città e non aveva intenzione di fargli una visita a sorpresa. Sarebbe passata per il suo vecchio quartiere solo per accorciare la strada per Wilamette. Ciao papà, arrivederci papà, scusa papà.

Obbedì distrattamente alle indicazioni del GPS, girando a sinistra, guidando per un altro miglio e mezzo, girando a destra e così via. La tetra cittadina in cui vivevano i Ward era dall’altra parte del fiume. Percorse il ponte d’acciaio che si stendeva attraverso il gelido corso d’acqua e passò l’insegna con scritto BENVENUTI A WILAMETTE, CAPITALE MONDIALE DEL LEGNAME. Bugie, tutte bugie.

Qui il paesaggio cambiava drasticamente. Le strade erano in pessimo stato. Metà dei negozi di Main Street erano chiusi con le spranghe e sulla vetrina della ferramenta un cartello prometteva sconti del sessanta per cento. Il cinema era stato chiuso definitivamente.

Quella che un tempo era una fiorente località di boscaioli ora cercava di riciclarsi proponendosi come un’idilliaca destinazione turistica boschiva. Auguri per l’impresa. Avevano aperto alcuni nuovi negozi di dolciumi e di souvenir, ma la povertà dilagava. La gente arrivava a fatica a fine mese, il sindaco era corrotto, ed era sempre stato così.

Girò a destra all’incrocio e guidò ancora per alcune miglia passando una fattoria dopo l’altra. Era tardo pomeriggio quando arrivò alla grigia dimora di Nelly Ward. La casa aveva almeno sessant’anni e mostrava i segni di una costruzione scadente, con crepe sulle pareti esterne che tradivano un cedimento delle fondamenta. La Camry blu era nel vialetto.

Kate parcheggiò in strada e scese dall’auto. Dalla grondaia del tetto pendeva una fila di ghiaccioli come fili d’argento natalizi. Percorse con decisione il vialetto e suonò il campanello.

Nelly aprì la porta e restò di stucco. «Che ci fa lei qui?»

«Dobbiamo parlare.»

«Poteva avvertirmi che sarebbe venuta.»

«Ci ho provato. Non ha ricevuto i miei messaggi?»

Dopo un attimo di silenzio, Nelly cedette.

Nell’istante in cui mise piede in casa, Kate fu assalita da una tempesta di odori: muffa, immondizia, sigarette. S’aspettava di vedere croci ovunque e simboli cristiani alle pareti, invece trovò un tripudio di amuleti portafortuna di varia origine: totem dei nativi americani, talismani primitivi, quadrifogli, ciondoli new age. C’erano anche un paio di crocifissi medievali, ma gli scacciaguai erano di gran lunga più numerosi.

Nelly seguì il suo sguardo, poi allungò le braccia scarne piene di braccialetti d’argento e di turchesi. «Gli Aztechi e i Maya credevano che l’argento e i turchesi tenessero lontani gli spiriti maligni. Quindi mi sono detta, al diavolo, più ne ho meglio è. Peccato che non funzionino», mormorò. «Sono perseguitata dalla iella.»

Kate si domandò come doveva essere per Maddie crescere in quella casa angusta e asfittica con le pareti che ti si stringevano intorno. Qualcuno aveva provato a rallegrare l’ambiente ma le veneziane erano chiuse e non lasciavano entrare il sole. Kate notò una fotografia incorniciata sulla mensola del camino: una coppia felice nel giorno del matrimonio. Il marito di Nelly era un omone in abito nero elegante, spalle larghe su cui ricadevano i capelli scuri. La sposa era raggiante, lo sposo invece aveva uno sguardo leggermente torvo che faceva presagire un futuro infelice.

«Posso sedermi?»

«Dove vuole», rispose Nelly con un’alzata di spalle.

Kate si sedette in pizzo a un divano rivestito di tessuto a scacchi che puzzava vagamente di cane e decise di sputare subito il rospo. «Tu sei Penny Blackwood, vero? La nipote di Henry.»

«Sì», confermò Nelly in tono asciutto. «Ho cambiato nome per ovvie ragioni.»

«Perché non me l’hai detto l’altro giorno?»

«Non lo so.» Aveva due mezzelune scure sotto gli occhi. Era difficile credere che tra loro ci fossero solo due anni di differenza. Nelly sembrava molto più vecchia. Portava un dolcevita rosa, pantaloni comodi e grosse ciabatte informi di spugna.

«Non capisco», disse Kate. «Perché portare tua figlia fino a Boston quando c’è un eccellente reparto psichiatrico qui appena dall’altra parte del fiume? Perché allontanarti tanto da casa?»

Nelly si lasciò cadere in una poltrona in vinile. «Non lo so.»

«Senti», disse Kate con un tono più conciliante, «ci sono tante bravissime psichiatre a Blunt River. Perché hai scelto me?»

«Be’, intanto ho letto di te sul Globe. Quel premio. E ne ho fin sopra i capelli di questi cosiddetti esperti», rispose rabbiosa. «Non sanno un cazzo, secondo me.»

«Il dottor Quillin e gli altri? Maddie me ne ha parlato.»

«Il dottor Quillin, il dottor Madison, il dottor Hoang. Ciarlatani strapagati, tutti quanti. Ogni volta un parere diverso. È bipolare, anzi no, è schizofrenica. E i farmaci che prescrivono non fanno che peggiorare le cose. Nessuno che mi dia una risposta chiara. Intanto, lei sta sempre peggio.»

«Per questo hai scelto me?» domandò Kate cercando di mantenere un tono pacato. «Tra tutti i medici del Tillmann-Stafford? Perché quelli di Blunt River ti hanno delusa e perché hai letto di me sul Globe

«Cosa vuoi che ti dica?» Nelly si alzò, inquieta.

«La verità, magari.»

«La verità?» Nelly tremava leggermente, come un cane che indietreggia sulle zampe posteriori. «Mio zio non ha ucciso tua sorella», dichiarò come se aspettasse da anni il momento di dirlo. «Questa va bene, come verità?»

Kate sentì un vuoto allo stomaco.

«E ora morirà per una cosa che non ha fatto.»

«Ma è stata la tua testimonianza a condannarlo», obiettò Kate a denti stretti.

«Non importa. So per certo che non è stato lui.»

«Davvero? Strano perché mia sorella era sepolta nel suo giardino. Questo come lo spieghi? E perché hai testimoniato contro di lui, allora?»

«Io so solo che un uomo innocente sta per morire», disse la donna con ostinazione.

Kate si accigliò. Ora cominciava a capire. Ecco perché mi hai portato Maddie. Perché ti senti in colpa. Hai tradito tuo zio al processo e adesso che sta per essere giustiziato hai deciso di cambiare versione e t’illudi di potermi convincere ad aiutarti. Be’ sarai sfortunata anche stavolta.

Si alzò in piedi. «Ci sono altre psichiatre altamente qualificate a Boston. Nel frattempo chiederò al mio collega Ira Lippencott di occuparsi di Maddie. È un rinomato psichiatra infantile, uno dei migliori.»

«No!» Nelly le si parò innanzi tutta tremante, guardandola con gli occhi grandi e tondi sul viso scarno. «Per favore... mi dispiace. Non volevo turbarti. Mi ricordo di te al liceo. Tu ti ricordi di me?»

Kate annuì. «Vagamente», ammise.

«Tu e tua sorella passavate ogni giorno davanti a casa di mio zio per andare a scuola. A volte vi salutavo dalla finestra del piano di sopra. Ti ricordi adesso?»

Kate fu sorpresa di scoprire che Penny si ricordava di lei e di sua sorella perché lei al contrario non rammentava nessuno che le salutasse dalla casa di Blackwood. E comunque non le andava di parlare della sorella scomparsa con questa donna, perché anche se Nelly Ward era innocente, sicuramente quel mostro di suo zio l’aveva contaminata.

In qualche misura, Kate voleva punirla. «Com’è che non sei ancora venuta in ospedale? Maddie ha bisogno di te più che mai.»

«Non lo so.» Nelly si coprì il volto con le mani.

«Che succede? Ci sono problemi a casa? Con tuo marito?»

«No. Gesù.»

«Okay, ascolta. Posso raccomandarti ad alcune eccellenti psichiatre...»

«No!» urlò lei con gli occhi pieni di lacrime.

«Vuoi che la segua proprio io? Perché?»

Nelly scosse la testa. «Senti, ti ho tenuta d’occhio in questi anni... non sono una stalker, è solo che mi dispiaceva tantissimo per tua sorella... è stata una cosa così orribile... e mio zio non c’entra, capisci. Lo so per certo che è innocente. Non so cosa mi è passato per la testa. Forse sono semplicemente stupida», disse con disprezzo.

In quel momento Kate capì da dove veniva la voce che Maddie sentiva nella testa. «Senti», le disse con dolcezza. «Non sei stupida. Sei solo confusa come lo siamo tutti.»

«Confusa? Assolutamente. Sfortunata? Decisamente. Non tutti abbiamo la fortuna di avere una vita perfetta», rispose acida.

Fu come un calcio nello stomaco. «Stai dicendo che io ho una vita perfetta?» domandò cercando di non fare trasparire la rabbia.

«No, no», Nelly si rimangiò quanto detto. «Perfetta no. Ma certamente privilegiata.»

«Privilegiata? Mia madre si è suicidata. Mia sorella è stata rapita e assassinata in modo orribile-»

«Lo so, lo so. Mi dispiace! Lasciamo perdere.» Nelly agitò le braccia magre come per scacciare la legittima indignazione di Kate. «Senti... non è stato mio zio, devi credermi. Lo giuro su Dio, non è stato lui.»

«Smettila di dirlo.»

«Non si è mosso di casa quella notte. È rimasto tutto il tempo con me.»

«Quindi hai mentito sul banco dei testimoni?»

«Ero disperata. Non sapevo quello che facevo.»

«Ma hai detto al giudice che tuo zio si è assentato da casa tua per sei ore. Perché avresti dovuto inventare una menzogna simile?»

«Perché mi vergognavo.»

«Di cosa?»

Nelly si torse le mani. «Di una cosa.»

«Cosa?»

«Devo proprio dirtelo a chiare lettere?» La voce era piena d’angoscia.

«A quanto pare sì.»

Nelly afferrò un pacchetto di Marlboro sulla mensola, armeggiò con una scatola di fiammiferi, si accese una sigaretta e liberò una scia di fumo. «Mio zio mi violentava», disse.

Kate rimase di stucco, anche se non capì perché si sorprendeva tanto.

«Da anni», precisò con una smorfia di disgusto.

Per la prima volta, le sue parole avevano un senso logico. Perché se era vero, allora la vittima non si sarebbe mai liberata dalla vergogna e dal senso di colpa. «Quindi non c’è stato nessun buco di sei ore? È questo che stai dicendo?»

Nelly fece un gran sospiro. «Eravamo soli, i miei genitori erano fuori città. Quando andavano via, e succedeva spesso, chiedevano a zio Henry di badare a me. Lo faceva eccome. Adorava farmi da babysitter. Mio padre si preoccupava di tutto, non si fidava di me. Non possiamo lasciare Penny sola in casa, farebbe venire dei ragazzi, si metterebbe nei guai... Io? La più grossa sfigata del Roosevelt? Invece di zio Henry si fidava. Abusava di me, poi mangiavamo e guardavamo la tv, e lui mi parlava di sé come se a me importasse qualcosa. Non finiva mai. Nella sua mente contorta eravamo amanti sventurati. Mi considerava la sua fidanzata segreta. Ma io vivevo nel terrore.» Aveva gli occhi pieni di lacrime. «La polizia mi ha costretto a mentire. Mi hanno tenuto in centrale per ore, facendomi sempre le stesse domande. Cosa ha fatto in casa con te tutte quelle ore? Che significa che guardavate la tv? Tutto qui? Non è uscito a bere una birra? Come sai che non si è mai allontanato? Tu non ti sei addormentata? Perché ci stai mentendo? Non ti crediamo. Ti arresteremo per spergiuro. Deve essere uscito a un certo punto.» Si asciugò il naso col dorso della mano. «Non volevano la verità, volevano la conferma ai loro sospetti. Mi hanno tenuto chiusa in una stanzetta senza niente da bere, senza lasciarmi andare in bagno, senza un avvocato. Mi sentivo una criminale. Avevo paura. Volevo solo andare a casa. Che significa che è stato con te tutta la notte? Deve essere uscito a un certo punto. È uscito, giusto? Erano così convinti della sua colpevolezza che ho pensato... forse se gli dico quello che vogliono sentire lo rinchiudono e buttano via la chiave, e io mi libero di lui.»

«Okay», disse Kate con pazienza. «Ma se non è stato lui, allora chi ha ucciso mia sorella? Chi l’ha seppellita nel suo giardino?»

«Non lo so. Mio zio aveva molti nemici. Doveva dei soldi a un sacco di gente in città.» Nelly scosse la testa. «Ma ti assicuro che è sempre stato con me... Non mi mollava un secondo, non faceva che mettermi quelle manacce addosso, non avevo un attimo di pace.»

«Ma le prove contro di lui erano schiaccianti», obiettò Kate. «Le sue impronte sulla pala, i suoi capelli intrecciati nella corda.» Tacque un istante, riflettendo su una possibile spiegazione. «Senti, capisco. I nostri ricordi sono ingannevoli, a volte. Come sai che non confondi le date, i fatti, i luoghi? Esiste un disturbo, si chiama sindrome dei falsi ricordi. Forse dentro di te non vuoi essere ritenuta responsabile dell’esecuzione di tuo zio.»

Nelly tenne la bocca chiusa e la guardò con occhi torvi. A un certo punto, durante la terapia, tutti i pazienti di Kate la guardavano in quel modo. «Senti, dottoressa Wolfe. Non sto mentendo. Mio zio era un uomo violento e io lo odio per quello che mi ha fatto. Ma non ha ucciso tua sorella. E non so chi sia stato. Ma chiunque sia... è ancora in giro.»

Un respiro nell'acqua
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