13.

Il venerdì mattina alle otto e cinquanta Kate posteggiò nel parcheggio a sei piani dell’ospedale ripassando mentalmente la dichiarazione che si era preparata. Non aveva molta voglia di lasciare il calduccio dell’abitacolo per recarsi al colloquio previsto per le nove. Dopotutto, era lei quella che rischiava.

Allentò la presa sul volante, spense il motore e scese dall’auto, fermandosi un attimo nel vasto edificio cavernoso. Era un luogo freddo e rimbombante, assolutamente anonimo. Si udiva il sibilo costante delle auto che salivano e scendevano dalle rampe, un suono simile a quello all’alta marea. Si poteva annegare in quella spirale.

D’istinto, invece di prendere il passaggio pedonale che conduceva direttamente all’ala ovest, scese le scale e attraversò il cortile, passando accanto alla fontana gelata e alle panchine erose dalle intemperie. Era da molto che non entrava in ospedale dall’ingresso principale.

L’antico edificio aveva un’aria tranquilla e dignitosa. Le pareti erano composte da grossi blocchi di granito e le finestre ad arco le sembravano occhi dalle palpebre pesanti, come se l’ospedale fosse sempre sul punto di addormentarsi. Entrando salutò la guardia di sicurezza, un tipo amichevole col viso ben rasato e l’aria da cane bastonato che invitava la gente a passare attraverso i metal detector con la grazia di Fred Astaire. L’uomo alzò la mano e disse: «Buona giornata, dottoressa».

«Altrettanto a te, Bruce.»

Prese l’ascensore affollato e salì all’unità psichiatrica al secondo piano, usando il pass per aprire le doppie porte del reparto di Neuropsichiatria infantile. Dall’altra parte del corridoio, dopo un’altra serie di porte chiuse, c’era il Centro di riabilitazione dall’abuso di sostanze. Di sopra, al terzo piano c’era il reparto psichiatrico di Terapia intensiva per adulti, accessibile da un ascensore privato o dalle scale chiuse a chiave riservate al personale. Il ricovero era volontario in tutti e tre i reparti, ma le uscite erano bloccate per evitare che l’ospedale fosse ritenuto responsabile dell’eventuale fuga di un paziente prima che fosse stato opportunamente dimesso.

La più piccola delle due sale riunioni era stata riservata al colloquio di oggi. L’avvocato di Kate era già arrivato, così come la rappresentante del Risk Management, una donna robusta con un tailleur pantalone di cashmere seduta con le dita intrecciate.

Russell Cooper metteva soggezione con il suo abito Armani, l’orologio Bulgari e i gemelli d’oro ai polsini. «Kate, lei è Felicia Hamilton del Risk Management. Felicia... la dottoressa Kate Wolfe.»

«È un piacere.»

«Anche per me.»

Si strinsero la mano.

Kate si sedette su una sedia imbottita accanto a Russell e osservò Felicia Hamilton. Tra i quaranta e i cinquanta, occhi grigi intelligenti e capelli corti e lisci. Una professionista dall’espressione imperscrutabile. Felicia aprì la valigetta sul tavolo e tirò fuori un registratore digitale, una penna stilografica e un portablocco a molla. Mise il registratore accanto alla valigetta e disse: «Ho il permesso di registrare questo colloquio?»

Kate guardò l’avvocato, che diede la sua approvazione. Le batteva il cuore all’impazzata. C’erano delle bottiglie d’acqua sul tavolo e Russell gliene avvicinò una.

«Grazie.» Svitò il tappo e bevve. Poi arrivarono le domande. Si raccomandò di essere breve e sincera.

«Il 2 giugno dello scorso anno, Nicole McCormack è venuta in ospedale per un trattamento psichiatrico d’emergenza ed è stata ricoverata in osservazione», disse Felicia con un tono assolutamente neutro. «Perché l’ha dimessa quattro settimane dopo?»

«Normalmente i pazienti a basso rischio vengono curati come pazienti esterni.»

«Quindi non aveva più manie suicide?»

«Stava cercando modi più sani di esprimere le proprie emozioni negative. Pensai che il rischio suicidario non fosse alto a quel punto.»

«Quando dice ‘non fosse alto’ cosa intende esattamente?»

«Nikki si era pentita di quello che aveva fatto. La sua condizione psicologica era migliorata in modo significativo e non era più depressa. Dopo quattro settimane di terapia, conclusi che non era più a rischio di autolesionismo.»

«Che terapia le è stata prescritta come paziente esterno?»

«Doveva continuare a prendere i farmaci e fare una seduta di psicoterapia con me una volta alla settimana.»

«E come stava andando?»

«Molto bene. S’impegnava molto per superare le sue difficoltà emotive.»

«Qual era il suo stato mentale prima della morte?»

«Come ho detto, stava facendo grandi progressi. Niente acting out, non marinava la scuola. Non parlava di suicidio da mesi. Non stava dando via nessuno dei suoi beni personali, tranne... be’ questo non è importante.» Dì soltanto lo stretto necesssario.

«Lasci che lo giudichi io», disse Felicia.

«Voleva regalarmi alcuni oggetti che aveva trovato sulla spiaggia», spiegò Kate. «Ho dovuto ricordarle che non posso accettare doni dai pazienti. Una regola dell’ospedale.»

«Capisco. Che genere di oggetti?»

«Erano...» Come spiegare il ferma-gonna? «...delle conchiglie», mentì Kate.

«E com’era la sua situazione famigliare?»

«Lei e sua madre avevano ancora delle discussioni. Nikki pensava che il patrigno le stesse troppo addosso. Ma stava imparando a comunicare loro i suoi bisogni e le sue preoccupazioni.»

«Ci sono altri tentativi di suicidio nel suo passato?»

«Solo quello per cui è venuta da noi inizialmente.»

«Capisco. Il metodo usato?»

«Overdose di aspirina.»

«E più di recente assumeva droga o alcolici?»

«Sono sicura che non assumesse droghe. È tuttavia possibile che non fosse del tutto onesta sul consumo di alcol.»

«Okay, ma mostrava qualche sintomo di tossicodipendenza?»

«No, nessuno.»

«Malattie mentali in famiglia?»

«Non secondo la madre.»

«Aveva qualche fobia?»

«Le faceva impressione la lingua.»

«La lingua?»

Kate annuì. «La punta della lingua delle persone. Aveva anche paura delle tubature in casa... dei rumori che le vecchie condutture facevano la notte.»

«Secondo lei, questo costituiva un motivo di preoccupazione?» chiese Felicia.

«No. Molti hanno strane fobie. Non avevano nulla a che fare con la sua malattia, che era il disordine bipolare.»

Parlarono dei farmaci e dello stato mentale di Nikki durante l’ultima seduta. Felicia usava un tono uniforme, lasciando trasparire poche emozioni. Alla fine concluse il colloquio dicendo: «C’è qualcos’altro che vorrebbe aggiungere?»

«Solo che mi sono consultata con il mio direttore sul caso. Il dottor Ira Lippencott.»

Felicia annuì con cortesia. «Grazie per la collaborazione, dottoressa Wolfe.» Chiuse la valigetta e si alzò. «Le faremo sapere qualcosa tra un paio di settimane. Nel frattempo, questo è il mio biglietto da visita.»

«Se avremo domande la chiameremo, signorina Hamilton», disse Russell. Poi appena la donna fu uscita e la porta chiusa alle sue spalle, si girò verso Kate. «Se l’è cavata molto bene.»

Per tutta risposta, lei corse in bagno. Si guardò allo specchio, disorientata. Sentiva la tensione accumularsi dietro gli occhi. Si bagnò il viso con l’acqua fredda e si asciugò con un pezzo di carta dal dispenser. Odiava sentirsi vulnerabile.

In psichiatria, la vulnerabilità di una persona è determinata dalle sue paure più grandi. La paura di Kate era di non riuscire ad aiutare le sue giovani pazienti così come non era riuscita ad aiutare la sorella. Per questo lavorava tanto. Era questo che la spingeva a lottare per essere un medico migliore. Non era riuscita a proteggere Nikki. Non avrebbe fallito di nuovo.

Un respiro nell'acqua
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