20.
Primo esame del primo anno di Psicologia: quando si trovava ad affrontare una verità sgradevole a cui non era preparata, la maggior parte delle persone fugge. E Kate si ritrovò in fuga verso casa a Blunt River, New Hampshire. Sentiva un bisogno impellente di vedere il padre, l’unico che avendo perso quello che aveva perso lei sarebbe stato in grado di capire.
Il centro di Blunt River era pieno di ristoranti, caffè, negozi e gente che gironzolava a piedi, per lo più studenti e impiegati. Le strade formavano un reticolato ordinato come il tabellone del Monopoli. Molte delle antiche fabbriche di scarpe erano state riconvertite in moderni condomini di fascia alta e palazzi di uffici ma, a dispetto dell’apparente splendore, nulla era davvero cambiato negli ultimi vent’anni.
Kate si lasciò il centro alle spalle e prese una strada tortuosa di tre miglia fino al suo vecchio quartiere. Passò l’edificio in mattoni gialli delle pompe funebri dove avevano ritirato le ceneri di Julia e sentì un doloroso nodo allo stomaco. Savannah aveva insistito per tenere lei la scatola durante il ritorno a casa in auto. L’aveva scossa tra le mani per verificare che dentro ci fosse effettivamente qualcosa, le ceneri e magari qualche pezzetto d’osso. Senti, Kate? Hai sentito? Il padre non aveva detto una parola. Savannah aveva continuato a scuotere la scatola per provocare una sua reazione. Non aveva funzionato. Qualunque cosa, persino un grido di rabbia, sarebbe stata preferibile a quel silenzio spietato.
Proseguendo su e giù per le tre colline, l’ansia aumentò. La casa del padre era un gioiellino di legno dipinto di verde scuro con le finiture di pietra grigia, una combinazione di colori che richiamava le armonie del bosco e trasmetteva una sensazione di calore e intimità. L’antica villa ristrutturata sembrava uscita dalle pagine di Country Living, ma lo splendore era solo apparente. Il padre viveva qui da solo. La sua famiglia si era dileguata.
Entrò nel vialetto coperto di fanghiglia e parcheggiò dietro la sua Ford Ranger. Tirò un respiro profondo e scese dall’auto. L’aria frizzante e profumata dell’inverno era piacevolmente tonificante. File smeraldo di alberi sempreverdi ornavano i pendii bianchi delle colline.
Bram Wolfe venne alla porta con un sorriso stampato, e questo la sorprese. Non sapeva mai di che umore l’avrebbe trovato. Oggi sembrava contento di vederla. Forse stavolta sarebbe andata diversamente? Dopo l’ultima visita si era sentita depressa per giorni. Stava da poco con James, allora, e ricordava di essersene lamentata con lui. «Continuo ad aspettarmi che il rapporto con mio padre migliori, ma non succede mai», gli aveva detto. E lui scherzando aveva risposto: «Fare sempre la stessa cosa aspettandosi risultati diversi è la definizione stessa di follia». Non credeva che lei l’avrebbe preso sul serio, in fondo la sua era una semplice citazione, ma di fatto erano tre anni che non veniva più qui.
Bram indossava un maglione di lana, pantaloni di tweed e mocassini eleganti. Aveva un viso aristocratico con un naso importante e capelli lunghi fino alle spalle ormai bianchi. Come molti uomini alti, tendeva a stare curvo. Kate non aveva preso niente da lui; somigliava alla madre, grazie a Dio. Sia lei che Savannah avevano il viso a forma di cuore di Julia, il suo fisico esile, la sua grazia da ballerina e la risata argentina.
«Ehi, papà», disse alzando la mano. «Come va?»
«Bene. E tu?»
«Bene.»
«Com’è andato il viaggio?»
«Non mi posso lamentare.»
Lui incrociò le braccia, poi le sciolse. Lei percorse gli ultimi metri arrancando nella neve e inciampò sui gradini della veranda, contagiata dal suo imbarazzo. L’intenzione era di salutarlo con un abbraccio, ma lui la batté sul tempo, prendendola per il gomito per evitare che cadesse e dandole un bacetto veloce sulla guancia. Purtroppo girarono la testa nello stesso momento e per sbaglio si baciarono sulla bocca.
«Bleah», mormorò lei. «Facciamo finta che non sia mai successo.» Rise e si passò la mano sulle labbra. Erano secche. Oh mio Dio, sono a casa. «Voleva venire anche James», mentì, «ma ha avuto un problema in ospedale.»
«Oh. Be’, spero tutto bene.»
Alzò le spalle. «Il reparto Psichiatrico è una cornucopia di realtà alternative.»
Il padre o non colse la battuta o la ignorò. «Non vedo ancora nessun anello.»
Si era tolta quello che James le aveva regalato per il compleanno proprio per evitare questo argomento. «No», disse. «Te lo direi se stessi per sposarmi, papà.»
Lui annuì lentamente. «Capisco.»
Cosa capiva? Cosa sapeva di lei? Cos’aveva mai capito e saputo?
«Magari la prossima volta porta anche James», suggerì Bram.
«Sicuramente. Vuole conoscerti.»
«Anch’io vorrei conoscerlo.»
Sentì tensione allo stomaco. Tutto qui? Avevano già esaurito gli argomenti?
«Entra», disse lui.
L’anticamera era pulita e ordinata. Kate batté i piedi per togliere la neve dagli stivali, si tolse il cappotto e lo mise accanto a quello del padre sull’appendiabiti di ferro battuto. Poi lo seguì in soggiorno, dove le tende leggere erano come fantasmi alle finestre illuminati di luce argentea. La casa era grande e ariosa, con mobili scuri in stile coloniale e pile sempre più consistenti di libri e di riviste.
«Ti trovo bene, Kate.»
«Anche tu stai bene, papà.»
Okay. Quanti altri inutili convenevoli si sarebbero scambiati?
«Be’, sai, visto che sono un paio d’anni che non ci vediamo, ho pensato di passare.»
«Tre.»
«Giusto. Tre anni. Parecchio tempo.»
«Un bicchiere di vino?»
«Certo.»
«Torno subito», disse, e sparì nell’altra stanza.
Kate si sedette sulla sua poltrona preferita, quella blu con lo schienale alto e avvolgente. A Savannah invece piaceva rannicchiarsi sul divano di velluto vicino alla portafinestra e fare i compiti alla luce del giorno che scemava.
«Com’è andato il viaggio?» le chiese di nuovo il padre attraverso la porta aperta. Lo sentì aprire una bottiglia e prendere due calici nella vetrina.
«Tranquillo», rispose lei.
«Bene.»
Adesso avrebbero parlato del tempo.
La casa era immersa nel silenzio. Niente musica, niente animali. Solo suo padre e la sua amata solitudine. Si alzò a osservare il ritratto di famiglia sulla parete sopra il camino. Lei aveva dieci anni, era prima che la madre si suicidasse. Una ragazzina spensierata. Nessuna cicatrice di un tentato suicidio, nessun segno di autolesionismo. Nella foto, i genitori sorridevano e Kate teneva un braccio protettivo sulle spalle di Savannah. Avrebbe voluto urlare: «Bada di più a lei! È delicata!».
«Il pranzo è servito», annunciò Bram.
Kate lo raggiunse in sala da pranzo. La tavola era apparecchiata con eleganza e il pasto consisteva in salmone freddo e insalata di carciofi. «Wow. Non me l’aspettavo», commentò, lieta che il padre si fosse dato pena di prepararle qualcosa. Di solito mangiavano gli avanzi del frigo. «Grazie, papà.»
«Be’, oggi è un’occasione speciale.» Le diede un bicchiere di vino.
«Ah sì? E perché?»
«Perché non ci vediamo da parecchio tempo. Salute.»
Fecero cin cin e chiacchierarono di cose da nulla, le ultime notizie, che fine avevano fatto tizio e caio?, negozi che avevano cambiato gestione, inezie su amici e parenti, necrologi.
Kate era tesa, non sapeva come introdurre l’argomento. Così, di punto in bianco disse: «Tra poco Henry Blackwood sarà giustiziato».
Bram annuì con aria solenne. «Settimana prossima.»
«Hai ricevuto l’invito del dipartimento di Correzione?»
«L’ho buttato via.»
«Anch’io.»
«Mi basta sentire la notizia al telegiornale.»
«Papà?» esitò. «Credi sia possibile che non sia stato lui?»
Il padre la fissò. Posò la forchetta, come colto da un’improvvisa stanchezza. «Con chi hai parlato? Con quei fanatici contrari alla pena di morte? Mi danno il tormento. Per questo non rispondo più al telefono.»
«No», mormorò. «È solo che negli anni sono sparite altre ragazzine nella zona... o sono state trovate morte... Hannah Lloyd, Makayla Brayden... mi chiedevo se secondo te è possibile che...»
«No», si ostinò. «Non è possibile.»
«Ma papà...»
«Non voglio parlare di questo, Kate.»
La sua rabbia fu come una secchiata d’acqua fredda addosso.
«È per questo che sei venuta a casa? Perché se è così stai solo perdendo tempo.»
«Perdendo tempo?» ripeté. James aveva ragione. Nulla cambiava mai.
Consumarono il resto del pasto in silenzio, immusoniti. Tra un boccone e l’altro, il padre guardava fuori dalla finestra. Dopo un po’ cominciò a rilassarsi. Spalle sciolte, viso più disteso. Sembrava tranquillizzato dalla distanza che si era ristabilita tra loro.
Kate al contrario si era innervosita. A Boston era un medico stimato. Qui era la figlia di un medico stimato. Era oggetto di pietà. Non era niente. Non era nessuno.
Dopo pranzo andò al piano di sopra a lavarsi la faccia e le mani. Le assi del pavimento scricchiolavano ancora come una volta mentre si avvicinava alla camera di Savannah in fondo al corridoio. Si bloccò sulla soglia e ripensò alla sera in cui aveva perso la sua piccola ombra.
«Dove andiamo, Kate? Che c’è di tanto importante?»
«Sssst. Prometti che non lo dirai a nessuno.»
«Certo che no! Lo prometto.»
«Finiremmo nei guai se papà venisse a saperlo.»
«Non lo dirò a nessuno. Dove stiamo andando?»
Savannah scoppiava d’entusiasmo all’idea di una gita notturna in auto. «Fico!» Era pronta a tutto. Il padre lavorava come al solito fino a tardi e Kate aveva appena preso la patente.
«Sai tenere un segreto?»
«Sì!»
«Lo dico solo a te.»
«Sarò una tomba.»
Entrò nella stanza e prese in mano la magica palla 8 della sorella che stava a raccoglier polvere in cima alla cassettiera. Risposta confusa, prova di nuovo. Lo skateboard ammaccato era appoggiato contro la parete. Il letto era cosparso di Barbie e Cabbage Patch Kids. Sul comodino c’era il suo adorato zaino di Hello Kitty con ancora la spilla di Nickelodeon sulla cinghia. Tutto in quella camera era esattamente come sedici anni fa. Savannah avrebbe avuto ventotto anni oggi.
Posò la magica palla 8 e tornò di corsa da basso. Un brivido le attraversò la schiena. «Papà?»
«In salotto!» Era seduto sull’ampia poltrona di pelle screpolata, con i piedi incrociati sul pouf abbinato. Era il suo angolo preferito. Aveva le calze marroni. I mocassini erano sul tappeto logoro. Abbassò il New York Times e la guardò da sopra gli occhiali da lettura con un’aria di cortese sopportazione: stava interferendo con la sua routine.
«Possiamo parlare?» domandò lei. «Intendo parlare sul serio?»
Scosse la testa. «Non di quello.»
«No, papà», concesse. «Non di quello.»
«Non mi va di rivangare il passato.»
«Okay, lo rispetto.»
«Bene.» Posò il giornale in grembo. «Sono tutto orecchi.»
Era piuttosto invecchiato negli ultimi tre anni. Era più stempiato, con la pancia più rotonda e la pelle del viso più cadente. La gravità stava avendo la meglio su di lui. Kate si sedette sulla poltrona blu e cominciò: «È sempre stata dura per me tornare qui dopo quello che è successo. Ero giovane... non sono cose facili da superare».
«No», disse lui, composto. «Mai pensato il contrario.»
«Tuttavia avrei qualche domanda da farti su quei primi anni. Posso?»
«Non so se sono in grado di rispondere, ma dimmi pure.»
«Ricordo che percepivo tensione tra te e la mamma.»
«Amavo tua madre.»
«Lo so. Ma lei non è stata sempre felice, giusto?»
Fece spallucce. «Nessuno è felice tutto il tempo.»
«Vero. Ma io avevo l’impressione che lei non fosse felice con te.»
Lui mise una mano sull’altra. Aveva la pelle chiazzata. «Non sono una persona facile», ammise.
«La sua malattia deve essere stato un brutto colpo per te...»
«Credo sia per questo che sei diventata una psichiatra, Kate. Per capire cos’è andato storto.»
«Può darsi.» Esitò. «Ma volevo anche essere un medico come te.»
«Ah.» Bram annuì, come se non ci avesse mai pensato. E questo nonostante gli avesse chiesto uno stetoscopio per il suo quinto compleanno. E un microscopio l’anno successivo, per cominciare a prepararsi per la laurea in Medicina.
«Di che altro vuoi parlare? Hai tutta la mia attenzione.»
Lo guardò scettica. «Sicuro?»
«Perché? Non ti sto ascoltando?»
«Per metà. L’altra metà non vede l’ora di tornare a leggere quelle recensioni.»
Incrociò le braccia come per dimostrare che non gliene importava nulla, ma sapevano entrambi che non era così. «Ti sto ascoltando, Kate», disse con voce impostata.
Lei sospirò, frustrata. «Mi starai anche ascoltando, papà, ma non stiamo davvero comunicando, non ti sembra?»
La guardò di traverso. «È colpa mia?»
«Hai appena ammesso di non essere una persona facile.»
«Vero.»
«E questa è probabilmente la conversazione più lunga che abbiamo fatto in... non so quanti anni.»
Un’alzata di spalle. «Siamo entrambi molto occupati.»
Lei si appoggiò allo schienale della poltrona. «Non ti sei risposato», disse. «Come mai?»
«Non ne ho mai sentito il bisogno, suppongo. Amavo tua madre. Mi bastava.»
«Ricordo che voi due litigavate spesso.»
«Non erano liti.»
«Discussioni, battibecchi, chiamali come vuoi. Eravate spesso in disaccordo.»
«Spesso è un termine relativo», obiettò. «A una bambina può sembrare spesso. Probabilmente quanto tutti gli altri.»
«Vero.»
Sorrise. «Grazie, Kate. Mi fa piacere avere ragione su qualcosa.»
«Cos’ha fatto precipitare le condizioni della mamma?»
«Non ti ricordi? Era così depressa che ha cominciato a sentire voci che le dicevano di lasciarmi. Di lasciarci tutti.» Cambiò posizione. «Mi sento sotto interrogatorio.»
«Hai detto che potevamo parlare...»
«Rilassati. Sto scherzando.»
«E io come dovrei fare a saperlo?»
«Non capisci quando scherzo?» domandò con lo sguardo deluso.
«No. Sei sempre serissimo.»
Curvò le spalle. «Credevo mi conoscessi un po’ meglio.»
«Va be’, comunque», disse, scoraggiata, «ti ringrazio. Almeno ci hai provato. Ti vedo stanco. Meglio che chiudiamo qui, okay?»
«Sicura?»
«Certo.»
«Aspetta. Ho una cosa per te.» Si alzò di scatto dalla poltrona. La sua altezza la fece trasalire, come se fosse spuntato da una scatola magica. Si allontanò con il suo passo sgraziato, passando dalla porta ad arco che separava il salotto dalla sala da pranzo e proseguendo oltre.
Una decina d’anni fa, con la scusa di risparmiare sulle bollette, Bram aveva convertito il vecchio salottino in una camera da letto, spostando tutta la sua roba da basso per non dover più andare di sopra. La camera al pianterreno era senza porta ed era piuttosto disordinata, due particolari che Kate considerava prove del suo isolamento. Era evidente che non riceveva mai nessuno. Un uomo riservato come lui non avrebbe mai allestito una camera da letto al pianterreno senza metterci una porta se avesse avuto intenzione di avere ospiti a cena.
Lo sentì frugare per la stanza, aprire cassetti, spostare una sedia trascinandola sul parquet. Sentì il rumore di qualcosa che cadeva sul pavimento e di seguito un brontolio. Poi tornò e allungò un braccio verso di lei. «Ecco, tieni», disse. «Prendilo. Era di tua madre. Sono sicuro che avrebbe voluto che lo avessi tu, Kate.»
Le appoggiò qualcosa sul palmo disteso: la vera di Julia. Un semplice anello a fascia con un diamante in mezzo. «Oh, papà», mormorò.
«Buon compleanno.»
Osservò la fede e ricordò il prurito alle dita di cui soffriva la madre. A volte era così forte che chiudeva la vera nel portagioielli e le sussurrava: «Sssst. Non dirlo a papà».
Fu commossa da quel gesto, da quella rara dimostrazione di vulnerabilità emotiva. Ecco una cosa che posso darti che potrebbe piacerti. Era di tua madre.
«Ti racconto una storia», le disse, sedendosi. «Quando ho conosciuto tua madre esercitavo da poco. Il mio mentore era andato in pensione e aveva chiesto a me di sostituirlo. È così che dal Maine sono finito qui. Non è stato semplice. Ho dovuto chiedere un grosso prestito, potevo a malapena permettermi una segretaria, ma in qualche modo me la sono cavata. Comunque, un giorno viene da me questa splendida ragazza lamentandosi di un’infreddatura. Le prescrivo uno sciroppo per la tosse e le dico che non posso più essere il suo medico curante. Lei si offende e mi chiede spiegazioni. ‘Perché vorrei chiederti un appuntamento’, le ho risposto.» Kate sorrise, anche se aveva già sentito quella storia un milione di volte. «Sei mesi dopo le ho comprato questo anello.»
Kate guardò di nuovo la fede.
«Quindi quando mi chiedi perché non mi sono risposato, forse è perché quel tipo di amore è molto raro.»
Ci fu una lunga pausa, scandita dal tic tac della pendola. Suo padre aveva un cuore, dopotutto. Perché aveva avuto bisogno che qualcosa glielo ricordasse?
«È così tranquillo, qui», osservò dopo qualche istante.
«Mi piace il silenzio. Ci sono abituato.»
«Non ti senti mai solo?»
Alzò le spalle. «Non ci penso.»
«C’è un mondo là fuori, papà.»
La guardò stringendo gli occhi come se gli si fosse appannata la vista e cercasse di rimetterla a fuoco. «Kate, ho un passaporto. Sono stato a Roma, a Parigi e alle isole Vergini. Guardo HBO e Showtime. Il fatto di non essermene andato da Blunt River non fa di me uno zoticone.»
«No, non intendevo questo...»
«Ho una vita piena e attiva», sottolineò, sulla difensiva.
«Volevo solo dire... che mi spiace di non essermi fatta viva.»
«Anche a me.» Riaprì il giornale con un gesto plateale. «Immagino che ora tornerai a Boston.»
«Sì, infatti.» In quel momento Kate capì una cosa. Aveva desiderato per anni e disperatamente che il padre la accettasse e la amasse così com’era, ma in realtà era lei che non accettava lui. Una volta era diverso, prima che la madre si suicidasse. Poi piano piano si erano allontanati sempre di più.
Con riluttanza, si alzò per andare via. Lui la seguì nell’atrio e la guardò infilare gli stivali e il cappotto. Recuperò le chiavi dell’auto in tasca e disse: «Chiamami ogni tanto, okay?»
«Non rispondi mai.»
«Lascia un messaggio. Ti richiamo.»
«Forse le linee di comunicazione più che rotte sono ostruite», osservò lui. «Come arterie malate.»
«Be’, sei tu il medico.» Sorrise. «C’è una pillola per risolvere il problema?»
«Magari ci fosse.» Le fece un sorriso autentico, rilassato. «Ci vediamo presto, tesoro.»
«A presto, papà.» Gli diede un bacio sulla guancia. «Ti voglio bene.»
«Ti voglio bene anch’io.»
Era uno scambio così raro che uscì da casa stordita come se avesse preso un colpo in testa.