30.
Kate chiamò James per discutere la faccenda dell’invito e dopo aver valutato i pro e i contro decise di accettarlo. Le avrebbe fatto bene parlare con Blackwood dopo tutti questi anni. James inizialmente cercò di distoglierla dal suo proposito, ma alla fine si convinse anche lui che era la scelta giusta.
«Tua madre come sta?» gli chiese Kate.
«Ci sono state delle complicanze. Deve essere operata di nuovo.»
«Oddio, è terribile.»
«È in buone mani. Ha il miglior ortopedico del New England. Comunque io resto qui con lei, okay? E voglio che tu faccia quello che devi, Kate. Ma ricordati, puoi anche cambiare idea.»
La sera seguente, Kate arrivò alla prigione di massima sicurezza intorno alle sei. L’enorme complesso di edifici di cemento a un centinaio di chilometri a nord di Blunt River era circondato da torrette di guardia e filo spinato. Kate trovò un posto nell’ampio parcheggio e mormorò tra sé: «Devo essere fuori di testa».
All’interno, l’atmosfera era altrettanto opprimente. Dopo aver passato i controlli di sicurezza, una guardia armata la scortò nell’ala riservata agli autori dei crimini più efferati. Più passi macinava nel ventre della prigione, più si pentiva di esserci venuta. Quando giunsero al braccio della morte, un sinistro anfratto di celle fredde e umide e garitte blindate presidiate dalle guardie, aveva le ginocchia molli. La guardia chiamò via radio la sala di controllo chiedendo di aprire la porta d’acciaio comandata elettronicamente. Appena il tempo di varcarla e la porta si richiuse con un tonfo rimbombante alle loro spalle.
La stanza delle visite di dieci metri per quindici era tutta dipinta di bianco, compresa la porta blindata che teneva chiusi dentro i visitatori. Al prigioniero era riservato uno spazio separato di due metri per due, una sorta di gabbia di cemento con il vetro antiproiettile che ricordava quelle degli animali pericolosi allo zoo. A sua disposizione c’erano una sedia e un telefono a parete. Dalla parte dei visitatori c’era lo stesso telefono e alcune sedie di plastica in più.
La stanza delle visite era popolata da qualche decina di persone. Si era formata una coda davanti al buffet all’angolo. Kate non poteva credere che qualcuno avesse voglia di mangiare in un momento simile.
«Kate?» Palmer Dyson emerse dalla folla. «Mi fa piacere che tu sia venuta.»
Fu sollevata di vederlo.
«Come va?» le chiese.
«Sono nervosa come uno stambecco. Stavo per tornare indietro.»
«Non c’è niente di cui preoccuparsi. È una festa d’addio, sono tutti qui per salutare il condannato. Vuoi bere qualcosa?»
«Purché sia alcolico.»
Lui sorrise. «Mi spiace.»
«Allora niente, grazie.» Era così agitata che le sembrava di avere un compattatore di rifiuti al posto dello stomaco.
«Quei due a lato del buffet sono i suoi avvocati», spiegò Palmer. «Il signore anziano è il suo consigliere spirituale. I tipi laggiù sono del dipartimento di Correzione; per loro Blackwood è un amico. I tre che parlano tra di loro sono i suoi cugini, e tutti quelli del gruppo in fondo sono membri di un’organizzazione contro la pena di morte, non ricordo quale. Lo usano per scopi politici...»
«Quel tizio me lo ricordo», lo interruppe Kate indicando un uomo sui sessant’anni con penetranti occhi azzurri. «Non è il medico legale?»
«Quade Pickler, sì», mormorò Palmer. «Lo conosci?»
«L’ho visto all’obitorio quando mio padre è andato a identificare il corpo di Savannah.»
Quade li notò e fece un cenno di saluto che Palmer ricambiò. Poi ci fu del movimento tra i presenti.
«Oh, eccolo che arriva», disse Palmer guardando alle spalle di Kate.
Lei si voltò. Una guardia armata stava scortando Blackwood nella gabbia. Rimase di stucco: non somigliava più al vicino scontroso con lo sguardo inquietante e i capelli a spazzola che era ancora protagonista dei suoi incubi. A cinquantacinque anni, era più magro e più coriaceo, con braccia e collo coperti di tatuaggi, capelli color argento lunghi fino alle spalle e un viso flaccido e inespressivo. Portava una tuta arancione ma non era ammanettato. Aveva in mano una Diet Coke e una sigaretta. Non c’era paura nei suoi occhi mentre si sedeva e sorrideva ai visitatori. Fece un cenno a Palmer, poi notò Kate e distolse lo sguardo.
I tre cugini di Blackwood gli parlarono per primi. Scoppi di risate e colpetti col pugno contro il vetro antiproiettile. Poi fu il turno di Palmer. Dieci minuti dopo si alzò e fece segno a Kate di avvicinarsi.
Lei si sentì come la regina al rientro in patria lei mentre attraversava la stanza. Tutti gli occhi erano su di lei. Si sedette sulla sedia ancora calda lasciata libera da Palmer.
«Se hai bisogno sono qui», sussurrò lui allontanandosi ma non troppo.
Lei annuì e prese il telefono.
Blackwood posò la Coca e avvicinò il ricevitore all’orecchio. «Salve», disse.
Le antiche paure riaffiorarono. Nonostante la barriera protettiva, non si sentiva al sicuro.
«Grazie per essere venuta, dottoressa Wolfe», esordì parlando lentamente, come se fosse abituato a non essere capito. «Volevo dirglielo di persona. Il fatto è questo...» Ingoiò a vuoto, nervoso. «Non ho ucciso io sua sorella. Non ho idea di chi sia stato. Ma le giuro su Dio che sono innocente.» Fece un lungo tiro di sigaretta, poi si appoggiò allo schienale della sedia e aggiunse: «Se c’è qualcosa che vuole chiedermi... può farlo ora».
Kate si fece forza. «Mi ha convinta il detective Dyson a venire qui. Crede nella sua innocenza, ma qualche domanda ce l’avrei.»
Annuì rispettosamente. «Prego.»
«Se non l’ha uccisa lei, come ci è finita mia sorella nel suo giardino?»
«Me lo sono chiesto anch’io. Non ne ho idea. Qualcuno mi ha incastrato. Dio sa perché. È una cosa senza senso.»
«Chi farebbe una cosa simile?»
Le rivolse uno sguardo assente. «Chiunque abbia preso le altre ragazze.»
Quindi Palmer gli aveva illustrato la sua teoria. Stava chiaramente dalla parte di Blackwood.
«Perché Nelly non si è fatta avanti prima? Perché le ci sono voluti sedici anni per tirare fuori la verità?»
«Per mettersi la coscienza in pace, suppongo.»
«E la sua, di coscienza?»
Gli si accese un lampo d’ira negli occhi e per un attimo sentì la sua furia addosso, a conferma che si trovava davanti a un uomo violento e pericoloso. Ma lui mise da parte l’indignazione e rispose con voce pacata. «La mia coscienza è pulita per quanto riguarda sua sorella», rispose.
In quel momento, Kate si accorse di una cosa: non faceva differenza che gli credesse o no, perché Henry Blackwood sarebbe sempre stato l’incarnazione del male, per lei, indipendentemente dalla verità dei fatti.
Lui si chinò in avanti. «Ascolti, dottoressa Wolfe. Quello che ho fatto a Penny è sbagliato e sono stato punito. Ma mi hanno condannato per un delitto che non ho commesso e sarò giustiziato per questo. Tra quattro ore, sarò morto.» Si asciugò il sudore dalla fronte. «I miei avvocati hanno presentato delle prove al governatore, compresa la testimonianza di Penny, e speravo... be’, gioverebbe molto alla mia causa se lei chiedesse un nuovo processo al governatore. Lo apprezzerei davvero, signora. Glielo giuro», aggiunse con voce asciutta, «non ho fatto quelle cose orribili a sua sorella.»
Alle orecchie di Kate suonò come un discorso recitato a memoria. Lo fissò. Aveva solo voglia di scappare.
«Se muoio stanotte», continuò lui, «in caso il governatore non sospenda l’esecuzione... mi farebbe un favore? Potrebbe dire a Penny che le voglio bene? E anche a Maddie?»
«Maddie?» ripeté debolmente Kate.
Lui annuì. «Spero davvero che riesca a guarirla.»
«Come sa che la sto curando?»
«Me l’ha detto il detective. Mi sta molto a cuore, quella ragazzina.» Per la prima volta, quell’uomo le sembrò umano. «È in gamba. Sveglia, come la madre.»
Kate non sapeva cosa dire.
«Quella notte, quando è successo, io e Penny stavamo guardando la tv... giuro su Dio. Sono stato sempre con lei, l’ho aiutata a fare i compiti, abbiamo ordinato la pizza. Siamo rimasti sempre insieme. La polizia l’ha costretta a mentire sul banco dei testimoni, ma sta dicendo la verità, adesso.»
Kate per poco non gli credeva.
«Ricordo quando passava davanti a casa mia per andare a scuola, con sua sorella dietro che parlava a rotta di collo. Perché avrei dovuto farle del male?»
Strinse in mano il ricevitore del telefono. «Riferirò il suo messaggio a Nelly. Deciderà lei se dirlo anche a Maddie oppure no.»
«Okay, grazie.» Fece un altro tiro di sigaretta. Ne avrebbe fatto volentieri uno anche lei. «Comunque, senta. Sono ormai rassegnato al mio destino. A meno che i miei avvocati non riescano in quest’ultimo disperato tentativo... è finita per me.»
Kate annuì. Stava per riagganciare, ma esitò. «Okay, senta», disse con voce incerta, «chiamerò il governatore e gli dirò che non sono convinta della sua colpevolezza. Almeno dovrebbe esserci un nuovo processo.»
Lui abbassò la sigaretta. «Grazie.»
«Per favore, non mi ringrazi.»
«Eccome», insistette. «Grazie infinite, dottoressa Wolfe. Lo apprezzo davvero. Comunque vada, significa molto per me.»
Kate riagganciò e si alzò barcollando, chiedendosi se non stesse per svenire. Sentiva pulsare la testa come se fosse sott’acqua. Sul punto di annegare.