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Mantenendo una velocità media di novanta chilometri l’ora, Tomas Carlsson arrivò a Oslo in tre ore e quarantacinque minuti. Era il 12 settembre. Stringeva le mani intorno al volante, e masticava una gomma al mentolo. I pensieri gli vorticavano in testa. Aveva fatto un’unica sosta, in un punto di ristoro fatiscente vicino alla frontiera. Aveva mangiato un hamburger e bevuto una Coca-Cola tutta d’un fiato. Uscendo da lì, aveva afferrato un giornale su cui c’era scritto: «Interrotte le ricerche di Lilly Rudeck».

L’orologio sul cruscotto segnava le 15:43 quando fece la curva che lo portò di fronte all’Hotel Opera. Era nel bel mezzo di una grossa rotatoria, proprio lì dove si entrava nella città di Oslo. Nessuno doveva venirgli a raccontare che quella era una bella città. Era maledettamente caotica. Dall’altra parte della strada, verso il mare, si stagliava un grande edificio nuovo, bianco e levigato. “Piatto e insolito”, pensò avviandosi verso il garage sotto l’albergo, dove parcheggiò la vecchia Volvo. Poi prese l’ascensore che portava alla reception e fece il check-in prendendo una stanza a nome di Tomas Hoen.

Il receptionist, un uomo sulla trentina dai capelli pettinati all’indietro, registrò la sua presenza come se non fosse successo nulla e come se nulla stesse per accadere.

Tomas salì in ascensore, aprì la porta della stanza numero 601, poi gettò le chiavi della macchina sul tavolo lucido e poggiò il borsone. Aveva solo quello, nessun altro bagaglio. Prese un chicco d’uva dal vassoio e spense il televisore, sul cui schermo c’era scritto: “Benvenuto, Thomas Hoen”. C’era un errore, il suo nome si scriveva senza l’acca.

Si lavò le mani e aprì il minibar. Afferrò una birra e si lasciò cadere sulla poltrona a strisce gialle e blu. Sputò in mano la gomma e la appiccicò sotto il piano del tavolo. Aprì la birra e ne prese qualche sorso.

Era passata una settimana da quando era uscito di prigione. L’attenzione dei media aveva davvero raggiunto dei livelli assurdi. «La vittima aveva dato alla luce il figlio del violentatore», avevano scritto. E quel bambino era lui.

C’era anche stato un reportage in TV, un reportage strappalacrime sul piccolo Tomas, dato alla luce in Södergatan 12 da una diciottenne norvegese violentata. Spiegava che il “padre” aveva dato una nuova identità alla ragazza portandosi a casa una paziente psichiatrica con una malattia inguaribile. La ragazza era tornata in Norvegia fingendosi la paziente, e da allora aveva vissuto una vita calma e tranquilla a Oslo. L’uomo che l’aveva violentata era stato condannato per omicidio nel 1974. Era rimasto in carcere per 13 anni. Quando aveva scoperto che in realtà la vittima della violenza carnale era viva e vegeta, era stato colto da un moto d’odio e l’aveva “uccisa per la seconda volta”, così si erano espressi i media, scaraventandola giù da un palazzone.

La polizia aveva trovato i resti della paziente psichiatrica, Britt Else Buberg, sotto la veranda che il “padre” aveva costruito nell’estate del 1973. La stessa dove Tomas sedeva ogni estate, bevendo acqua e sciroppo, mangiando cibi cucinati sul barbecue, e con la “madre” di fronte a lui, dall’altro lato del tavolo, che sfoggiava i suoi abiti estivi. Era una falsa piattaforma. La paziente era stata murata nello zoccolo in muratura, e il padre aveva detto ai media che era morta di morte naturale sul divano del salotto. La prima ondata di rabbia non si era assopita. Da quando il caso era scoppiato sui giornali, i pensieri gli vorticavano in testa come fredde lame di metallo. Tutto l’insieme era assurdo, caotico e doloroso.

Il suo padre biologico aveva violentato e ucciso un’altra ragazza. La foto di lei aveva riempito tutta la copertina dell’«Expressen». Era bella, aveva i capelli marroni di media lunghezza, si chiamava Lilly Aniela Rudeck ed era polacca.

Poi, due giorni prima, Lennart Hjertnes gli aveva telefonato e gli aveva chiesto se aveva voglia di incontrarlo. Tomas era ammutolito. Lennart lo chiamava da una stazione di servizio. Quando aveva sentito la sua voce al telefono, Tomas aveva subito pensato alla Glock, che gli aveva dato il suo complice come ricompensa per non averlo tradito quando lo avevano messo in prigione. Sì, certo, voleva incontrare il padre. «Molto volentieri», aveva detto. Poi, interrompendo la comunicazione sul cellulare, aveva riso sonoramente tra sé e sé. Aveva rubato una macchina ed era andato a prendere la pistola. E ora si sentiva pieno di energie.

Sul giornale c’era scritto che, per alcune persone, la cattiveria rimane come sopita. Potevano essere ben consapevoli della propria natura. Lui si era riconosciuto in tali affermazioni. “Sono i geni”, aveva pensato. Geni davvero violenti, crudeli.

Erano passati due mesi da quando era andato a trovare Hanne Elisabeth Wismer a Stovner. E Astrid. Era lei che gli aveva telefonato. E alla prima libera uscita era andato in Norvegia per incontrarle. Così era venuto a sapere tutta la storia.

Quand’era tornato in Svezia, il sabato sera, si era subito recato a casa di Oluf e gliele aveva date di santa ragione. Lo aveva colpito in faccia e sul corpo, con la mazza di legno che aveva in macchina, tanto da rompergli un braccio. Quel bastardo di un cristiano che non era neanche suo padre. Da quando mamma Karin era morta, la sua vita era stata un inverno senza fine.

Squillò il cellulare. Rispose. «Sì», disse.

L’ultima casa a sinistra
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