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«Sono senza parole. Sapete cos’è successo stamattina?». La responsabile del reparto, Ingeborg Myklebust, guardò a turno, uno a uno, gli investigatori, stringendo in mano la tazza bianca con il caffè. Ellen Grue tirò fuori un documento dalla borsa.
«No, cosa?». Cato Isaksen aveva le dita macchiate di vernice grigia. Era rimasto a costruire la piattaforma in giardino fino a mezzanotte.
«Martin Egge è venuto per riconsegnare il cane di Marian Dahle». Ingeborg Myklebust lo fissò e poggiò rumorosamente la tazza sul tavolo. «Ve l’immaginate? Mi ha detto che se n’è preso cura lui mentre lei era in Svezia».
Cato sorrise. Intorno agli occhi aveva delle rughe d’espressione. «Perché mi guardi con aria di rimprovero? Io non ho niente a che fare con questa…».
Randi inarcò le sopracciglia. Roger Høibakk lo guardò scuotendo la testa. «Marian è matta, si sa». Rise. «Non è mica una novità».
«Martin Egge, vi rendete conto? Il capo della polizia criminale in persona», ripeté la Myklebust. «Come accidenti ha fatto Marian a mollargli il cane? Te ne ha forse parlato, durante il viaggio?».
Isaksen scosse la testa.
«Egge, in realtà, era venuto a consegnare alcune carte sulla nuova circolare dalla direzione, ma comunque aveva con sé il cane. E Marian sarebbe dovuta essere qui, eppure non è ancora arrivata, quindi adesso quella bestia è nel mio ufficio. Ma lei dov’è, Cato?»
«Ingeborg, siamo arrivati a casa verso le sei e mezza di ieri sera. Da allora non l’ho più vista. Vogliamo continuare a lavorare?»
«È andata bene in Svezia?»
«Abbiamo rimediato alcuni rapporti e dettagli vari, però non ho idea di quale peso possano avere per la risoluzione del caso. Alla fine siamo riusciti a rintracciare Oluf Carlsson. Dopo mi metto a scrivere un rapporto, così possiamo continuare a lavorarci. Ci sono alcune cose che non tornano. Tra l’altro, pare che la moglie di Carlsson avesse avuto un figlio a quarantadue anni. Controllerò dov’è nato quel bambino. Sento dei campanelli d’allarme sulla Buberg».
Ingeborg Myklebust lo guardò. «In che senso?»
«Vedremo», disse lui. «Ma il fatto che sia stata Astrid Wismer a pagarle l’appartamento è molto strano. Che cosa può significare?»
«Cosa può significare?». Ellen Grue si tirò un po’ indietro con la sedia dal tavolo. «Intanto vi posso dire che il DNA di Britt Else Buberg è stato rinvenuto sulla sigaretta trovata in veranda. Quindi è stata lei a fumarla la sera in cui l’hanno buttata giù».
«Dunque l’ipotesi che fosse stressata potrebbe essere giusta. Forse era successo qualcosa che l’aveva spaventata, dal momento che la Wismer sostiene che nella maniera più assoluta non fumava». Cato incrociò le mani macchiate di vernice dietro la testa, e soffermò lo sguardo un po’ troppo a lungo sulla pancia di Ellen.
Roger Høibakk intanto faceva degli scarabocchi con la penna sul suo bloc-notes. «Io e Randi siamo stati a Nordberg ieri, e abbiamo parlato con una vecchia vicina della Wismer. Vogliamo cercare di scoprire l’indirizzo della Buberg, quello di prima che si trasferisse a Stovner. Non siamo riusciti a trovarlo, quindi dobbiamo contattare l’Istituto nazionale di previdenza in Svezia».
Randi prese la parola: «Io ho appena parlato con un infermiere del centro anziani di Stovner. Mi ha detto che la Wismer è stata molto male, che questa faccenda è stata molto pesante per lei. Stanotte ha avuto un piccolo ictus, ed è stata portata all’ospedale. La storia dell’affittuaria è solo un’ipotesi, e non so cosa abbia a che fare con tutto il resto, ma la Wismer affittava il seminterrato a una donna. In effetti pare si trattasse di una bionda, ma… la Wismer e la Buberg sono andate a vivere a Stovner quasi in contemporanea, sei anni fa. Lei è andata ad abitare nella casa di riposo, e ha comprato l’appartamento alla Buberg. Naturalmente ci può essere una spiegazione logica, per esempio che non dichiarava gli introiti dell’affitto all’ufficio delle tasse».
«Ma se uno affitta meno della metà della superficie del proprio appartamento non si pagano comunque, le tasse», disse Roger. «E poi non ha eredi, quindi…».
«Io ho scoperto che la Wismer aveva una figlia», disse Randi Johansen. «Ma è morta nel 1972. Forse la Buberg è diventata una specie di suo surrogato. Perché non ce ne ha parlato per niente? Avete prelevato dei campioni dei suoi capelli?», aggiunse guardando Ellen Grue.
La collega fece scorrere le dita sul documento con i risultati del DNA. «Dei capelli di Britt Else Buberg?»
«Sì».
«Certo che sì».
Randi la guardò ansiosa. «Erano tinti?»
«Penso di sì. A quanto ricordo, il professor Wangen ha fatto un accenno al riguardo».
«Puoi accertarti se la Buberg era chiara di capelli? Dirci quale fosse il suo colore naturale?»
«Sì», fece Ellen. «Chiamo Wangen appena finiamo la riunione».
Randi Johansen fissò la Grue. «Quando me lo puoi far sapere?»
«Il prima possibile. Se Wangen è al lavoro, tra un’ora. È sufficiente?»
«Certo, non c’è molta fretta».
Ingeborg Myklebust si inserì: «Chi si occupa di Birka? Io mi sto occupando di queste dannate modifiche alle direttive. Uno di voi venga a prendersi il cane».
«Io no di certo», disse Cato Isaksen.
Roger allontanò da sé il blocco degli appunti. «Allora rintraccia Marian, e chiedile di venire».
«Già, che sta combinando, in effetti?», fece Randi.
«La chiamo subito». Isaksen estrasse il cellulare e compose il numero. «Ha il telefonino spento».
La Myklebust era già sulla porta. Strinse a sé la ventiquattr’ore. «Roger, tu vieni a prendere il cane nel mio ufficio. Immediatamente», disse.
Høibakk serrò le labbra. Tutti si alzarono. Le sedie strusciarono sul pavimento di linoleum.
Roger diede a Ellen una pacca sulla spalla e poi uscì dalla stanza, parlottando con Randi.
Ellen Grue rimase da sola. Cato Isaksen spazzò via alcune briciole invisibili dal tavolo.
«Come vanno le cose, Ellen?»
«Bene», rispose lei lanciandogli uno sguardo ironico.
«Non riesco a immaginare Roger come padre».
«Ma dài!».
«Lui è…».
«Sarà un bravo padre. Ieri siamo andati a fare l’ecografia».
«Ah, questo non me l’aveva detto. Quindi adesso sapete di che sesso è, no?»
«Sì».
«Allora?»
Ellen Grue scosse la testa. «È un segreto», disse.