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Il vestito era fatto di una stoffa impalpabile con un disegno a fiori rossi.

Marian lo stese con cautela e lo adagiò sopra i documenti sulla scrivania. In due buste separate c’erano le mutandine con le macchie secche di liquido seminale, e i grandi bottoni rossi. I reperti erano contrassegnati dai numeri 1, 2 e 3.

Il cuore le batteva in gola. Questo era il vestito di una persona che era stata violentata e uccisa. Di un cadavere che non era mai stato rinvenuto. Si sentì pervadere da una strana sensazione. Toccò cautamente la stoffa. Si chinò e la annusò. Le sembrò che odorasse vagamente di trementina.

Il vestito aveva una doppia cucitura intorno al seno. Era strappato lungo un lato, e nel distenderlo, del sangue rappreso di colore marrone si sbriciolò, finendo sui documenti.

Era quello che aveva indosso Hanne Elisabeth Wismer quando fu violentata e uccisa.

Passò le dita sulla stoffa sottile che ricordava lo chiffon, estrasse una sigaretta da un pacchetto sulla scrivania, se la mise in bocca e provò un’improvvisa vertigine, come se tutto il sangue le fosse defluito dalla testa.

L’immagine di se stessa, con un abito estivo a quadri, fece inconsapevolmente breccia nella sua memoria. Aveva cinque anni e doveva andare a una festa di compleanno. La madre si era arrabbiata e l’aveva spogliata di nuovo. La madre le aveva detto che i vestiti non le stavano bene.

Come mai la polizia aveva trovato l’abito ma non il cadavere? In una bustina di plastica c’erano degli appunti sull’analisi del sangue.

C’era scritto con l’inchiostro:

 

Analisi PCR. Gruppo sanguigno: zero RH negativo.

N.b. Il violentatore/assassino e la vittima appartengono allo stesso gruppo sanguigno.

 

Guardò la foto sfuocata con la cornicetta decorata che aveva portato con sé da casa di Oluf Carlsson. Scostò il vestito e guardò l’altra immagine: quella di Hanne Elisabeth Wismer con la coda di cavallo.

La piccola foto incorniciata era sgranata. Era stata fatta in un bosco. Ci si chinò sopra. La sigaretta spenta faceva su e giù tra le sue labbra. Prese in mano quella del bosco. La donna ritratta nella seconda immagine assomigliava a entrambe: sia a Britt Else Buberg che a Hanne Elisabeth Wismer. «Però si tratta della Buberg», disse a voce alta tra sé e sé.

A casa non aveva le foto del cadavere, del viso della Buberg da morta. L’espressione dei cadaveri cambiava, i contorni del viso apparivano meno nitidi. Assomigliavano a qualcos’altro.

Guardò l’orologio e si tolse dalla bocca la sigaretta che ancora non aveva acceso. Erano le due e mezza. Doveva pulire il bagno, inoltre non aveva più nulla da mangiare, a casa. Doveva riuscire ad andare al lavoro.

Si alzò ed entrò in camera da letto. Era lunga e stretta, con il letto da un lato e una spessa coperta di lana che copriva la finestra. Era l’unico modo per impedire alla luce di entrare. Aveva paura di dormire: una paura sciocca e irrazionale che la teneva lontana dal letto finché poteva. Qualche volta si coricava sul divano in salotto.

Si tolse i pantaloni e la T-shirt, e si stese supina, sopra il piumino. Poi poggiò di nuovo i piedi a terra e trotterellò fino in cucina, sul pavimento freddo. I piedi scalzi producevano uno scalpiccio sul rivestimento di linoleum. Aprì il rubinetto e bevve direttamente da lì. Dalla porta socchiusa del soggiorno vide che Birka la fissava dalla poltrona. «Sì, sì, lo so che non abbiamo fatto ancora la passeggiata». Entrò nella stanza in reggiseno e mutandine. «Dammi un minuto e poi usciamo». Prese la foto di Hanne Elisabeth Wismer e la mise accanto al computer portatile. Un pensiero la sfiorò. “Scoprire cosa fa oggi l’assassino di Hanne Elisabeth Wismer”.

 

* * *

 

Cato Isaksen rispose al telefono e guardò l’orologio. Si trovava fuori dal garage di Irmelin Quist. Era Randi. Gli disse che non sarebbe stato facile trovare quella cartella sulla gravidanza. Il medico di famiglia era morto molti anni prima, e nessuno sapeva dove fossero i vecchi documenti.

«Maledizione», esclamò lui guardando le dalie allineate in bell’ordine dentro alcune cassette di legno dietro il garage, come gli aveva promesso Irmelin. «Dobbiamo fare un test del DNA a Carlsson e a Tomas. Contatterò le autorità competenti quando torno da voi», disse, e chiuse il cellulare.

Portò le cassette con le grosse dalie all’auto-civetta. Ne sistemò una davanti, e una sul sedile posteriore. Le piante, alte quasi un metro, erano di un verde intenso. I boccioli erano di diversi colori. Rosso, arancione, giallo. Irmelin Quist gli aveva detto che d’inverno andavano tolte dalla terra e conservate in cantina.

Cato Isaksen si sentì un po’ stupido mentre si metteva al posto di guida. La macchina sembrava una giungla. Una giungla incolta che gli impediva la visione laterale.

Percorse la Nordbergveien a velocità sostenuta e diede un’occhiata rapida. Poi scese in fretta verso Hesselberggata e parcheggiò vicinissimo a dove abitava Marian. Uscì dalla macchina, chiuse a chiave e guardò il marciapiede. Il complesso in cui abitava Marian si trovava nei pressi di un giardinetto. Entrò nel cortile interno. Si fermò e alzò gli occhi alla facciata, chiedendosi quali fossero le sue finestre.

L’ultima casa a sinistra
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