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La nausea le era tornata. Attraversò carponi il pavimento del salotto, si tirò su quando raggiunse la soglia e riuscì a entrare in cucina. L’orologio segnava le 03:42. Aprì il rubinetto del lavandino, chinò la testa e riempì la bocca d’acqua. Riuscì a fermare il senso di vuoto allo stomaco, spalancò la finestra della cucina, aprì un cassetto e tirò fuori un pacchetto di sigarette. Ne estrasse una con mani tremanti. Se la mise in bocca e l’accese con un accendino di plastica. Aspirò profondamente ed espirò una grande boccata di fumo nella stanza. Non era successo assolutamente nulla in quella maledetta fattoria delle salsicce di pecora. Cato Isaksen aveva dormito beato sotto quel disegno ridicolo dell’orsacchiotto. Doveva essere onesta verso se stessa: c’era sempre una qualche delusione a tormentarla. «Non è successo proprio nulla», mormorò. Tutto d’un tratto, scoppiò in una sonora risata. «Birka», gridò, ma nello stesso istante le venne in mente che il cane non c’era. Sudava, ma poi cominciò a sentire freddo.
Nella memoria si stava facendo strada qualcosa. Un necrologio. Non aveva forse trovato un necrologio, qualche ora prima? Si alzò e chiuse la finestra, entrò in salotto e si avvicinò alla scrivania. Eccolo lì, un ritaglio ingiallito di giornale. Lo fissò, affinò la vista.
«Hanne Elisabeth Wismer. Beneamata figlia e nipote. Astrid e Rolf». Astrid? Doveva trattarsi della figlia di Astrid Wismer. Dunque aveva avuto una figlia. Continuò a leggere velocemente: «Gennaio 1956, venerdì 29 settembre 1972, chiesa di Halden. Mi manchi in ogni istante, ma nulla può ferirmi, perché ciò che mi hai dato è ancora qui vicino a me. E poi gli altri nomi: Ola e Kari e la nonna paterna».
Iniziò a tremare. Il sangue le batteva contro le tempie. Andò verso la finestra del salotto e l’aprì, guardò giù nel cortile deserto. Hanne Elisabeth… Wismer. Cos’è che aveva appena scoperto? Non riusciva ad afferrare il nesso. E cosa c’entrava il delitto del campeggio di trentacinque anni prima con tutta questa faccenda? Con Britt Else Buberg?
La nausea all’improvviso le riempì la gola. Malgrado avesse la coscienza ottenebrata, si sentì pervadere da un senso di inquietudine. Strinse il necrologio nel palmo sudato e corse in bagno, buttò la sigaretta nel lavandino e cadde di nuovo in ginocchio. Si chinò sul gabinetto e vomitò, ancora e ancora. Afferrò i bordi del water con le mani. Il piccolo ritaglio di giornale cadde dentro la tazza. Nel giro di secondi fu intriso di acqua e vomito.
«Oh, no», esclamò lei, e vomitò ancora.
Si rialzò traballante e tirò lo scarico, si chinò sul lavandino e fece scorrere l’acqua sulle mani, sul viso e in bocca.
Sentì un bambino che gridava per le scale. Ebbe un sussultò quando lo stesso ragazzino, presumibilmente, diede un calcio alla ringhiera. “Un bambino in giro a notte fonda”, pensò. Il suono metallico si propagò sia in alto che in basso. Poi sentì una voce arrabbiata di donna.
Tornata in salotto, afferrò il telecomando e accese la televisione. Sullo schermo apparve un gruppo di uomini in abito scuro. C’era stata una qualche riunione parlamentare. Uomini come quelli pensavano di avere il monopolio sul mondo intero. Doveva pur esserci da qualche parte una copia di quel necrologio! O forse no. Certo che no, per questo era proibito portarsi a casa i raccoglitori. Perché dentro c’erano gli originali!
All’improvviso, una folata entrò dalla finestra aperta e fece muovere le tende e i pezzi di cartone sul pavimento del salotto. Lei si avvicinò e la chiuse, poi tirò le tende.
Che ora era? Le lancette e le cifre del suo orologio da polso erano maledettamente piccole. Doveva telefonare a Cato? E se poi stava dormendo? Certo che stava dormendo, erano soltanto le quattro del mattino. E cosa sarebbe successo se si fosse lasciata sfuggire che si era portata a casa tutti i documenti? Lui l’aveva visto come si era comportata in Svezia. Ma quello era un altro Paese, pensò e abbozzò un sorriso. «Un altro Paese», disse a voce alta e cercò di richiamare alla mente i nomi nel necrologio. Hanne Elisabeth, Astrid e Rolf, Ola e Kari e la nonna materna.
Si trattava soltanto di spostare sempre più in avanti i paletti, un poco alla volta. C’era un caso da risolvere. Bisognava tenere a mente l’obiettivo. Usare tutte le opportunità. Non è che nel giro di una notte avesse smesso di essere sincera e fosse diventata bugiarda. Non andava così. In passato, a volte si era sorpresa a reggere il gioco a entrambe le parti in un conflitto, tanto per non fare sbagli. Ora non lo faceva più. Era riuscita a correggersi, da allora. Non poteva mica fingere di avere poca fiducia in se stessa. Avrebbe mentito ripetutamente, fino a farla divenire una realtà. Si sarebbe autoconvinta di essere come avrebbe desiderato.