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Pareti bianche, soffitto bianco. Due visi sul cuscino. Il ronzio incessante. La grande macchina da cucire metallizzata con quel dannato pedale. Un affare enorme, senza braccia né testa. La sagoma di una macchina da guerra. Cuciva, cuciva vestiti. Le cuciture si disfacevano. Non stavano bene addosso. Non venivano bene. È colpa tua se non ci riesco. Fiori, verdi e rossi. Due visi rivolti verso il soffitto. Bri… E… Bub. Cinque anni, sotto quel soffitto bianco. Västerborre. Sangue. Malata. Portava a me la luce, gli odori dell’estate e il segno del tuo viso era impresso sul cuscino. Tic tac, tic tac. Qualcuno stava lì a spiarla attraverso la grata dell’aerazione… Wismer… nel profondo. Visse un giorno intero. All’ospedale Aker. E proprio in quell’istante, vedendolo ho capito che ciò di cui parlavi finalmente era accaduto.
Marian si rigirò sull’altro fianco e si svegliò di colpo. Guardò l’orologio sul comodino. 05:20. Scansò il piumino estivo e si precipitò in cucina. I piatti in cui avevano mangiato il riso al curry e i bicchieri di birra erano ancora sul tavolo. La busta contenente il vestito stava sul ripiano da lavoro insieme a una pila di cartelle e documenti. Portò tutto con sé in salotto. Gettò la busta con il vestito per terra. Sangue, sangue, sangue, era la parola che le martellava in testa. Scaraventò le carte sulla scrivania. Come avrebbe fatto a rimettere tutto a posto, a ricordare cosa andava rimesso in ciascuna cartella? Le balenò un’intuizione: non doveva lasciarsela sfuggire. Non doveva scivolare via, inafferrabile come un sogno. Eppure non riusciva a fissarla nella mente. Sfogliò varie cartelle prima di trovare ciò che stava cercando. Prese in mano il foglio e lo fissò. L’aveva guardato, pur senza vederlo realmente, più di una volta. Era uno dei documenti che aveva preso dalla scatola sotto il letto di Oluf Carlsson. Era una cartella clinica. In cima c’era il nome di Britt Else Buberg e la sua data di nascita. C’era scritto che soffriva di una leucemia acuta che conduceva alla morte, ed era classificata come “LLA L2, aggressiva”23. La cartella clinica aveva come firma le iniziali L.H.B. Le stesse che comparivano anche su un altro fascicolo. Marian Dahle alzò lo sguardo. Provò un senso di vertigine. Risentì la voce di Oluf Carlsson: «Era una leucemia linfatica, la cosiddetta LLC. Ne è semplicemente guarita».
Continuò a sfogliare le carte. Trovò il nome del medico, Lars Hansson Broch. Carlsson aveva mentito. Malgrado ricordasse a memoria ciascuna parola, rilesse il tutto ancora una volta. «Che idiota!», mormorò sbattendo il pugno sulla scrivania. Andò a prendere un pacchetto di sigarette ancora chiuso nel cassetto della cucina, poi si avvicinò alla finestra e la aprì. Canticchiò una strofa: «Mi manchi in ogni istante, ma nulla può ferirmi».
Trovò il suo cellulare. Lo accese e compose il numero del professor Wangen. Guardò di nuovo l’orologio, interruppe la chiamata e lo spense. Poi lo riaccese e mandò un lungo messaggio su analisi e malattie del sangue. Dopo mezzo minuto ricevette una risposta: “Certo, controlleremo il sangue sul vestito, ma ci vorranno alcuni giorni. Fammelo avere qui il prima possibile. Il gruppo sanguigno delle due donne si può comparare facilmente. E anche i tipi di leucemia. W”.
Marian gli rispose: “Sei al lavoro già a quest’ora? Arrivo subito”.
23Leucemia linfoblastica acuta: neoplasia ematologica caratterizzata da un eccesso di produzione di linfociti (un tipo di globuli bianchi) da parte del midollo osseo (n.d.t.).