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William Pettersen si passò la mano sull’ampia fronte. Aveva una sensazione sgradevole. All’improvviso gli era venuta in mente la strofa di una canzone. Non gli piaceva cantare. Non c’erano nascondigli nella saletta degli interrogatori. Le pareti erano bianche. Se ne stava seduto lì con la sua tuta di pelle nera. Faceva caldo. Gli sovvenne la scuola, con la polvere di gesso e l’odore dei maglioni sudati. «Mi sa che mi devo togliere un po’ la tuta, me la abbasso fino in vita», disse. «Ho una Yamaha R1. Vengo direttamente da Son. È per questo che sono vestito così». La sua mente lavorava con minuscole immagini sfocate. Era qualcosa che Ewald gli aveva raccontato.
Roger Høibakk lo guardò. «Fai come vuoi, per noi è indifferente», disse sorridendo e versò dell’acqua minerale nei tre bicchieri che stavano sul tavolo. «Io mi chiamo Roger Høibakk e questa è Randi Johansen». Fece un cenno del capo indicando la collega seduta su una sedia vicino alla finestra. «Dobbiamo interrogarti e controllare il tuo alibi. A quanto ne sappiamo, hai accesso a tutti gli appartamenti. Chiamalo pure un controllo di routine». Porse un bicchiere a Randi. Lei lo prese e si tirò un po’ su le maniche della giacca bianca.
William Pettersen fissava la parete alle spalle dei poliziotti.
Roger Høibakk gli si rivolse nuovamente. «Allora cominciamo. È vero che sei un portiere e che anche tu abiti al Centro Stovner, al numero 16?».
William Pettersen annuì.
«Da quanto ci vivi?»
«Da quindici anni. Ho sempre fatto il portiere. Ma adesso non si dice più portiere, ma amministratore».
«Già, me lo posso immaginare». Roger Høibakk sorrise.
«E tu hai cinquantasette anni e ti chiami William Pettersen?»
«Esatto». L’uomo osservava i due poliziotti con un’aria indifferente. Si passò ancora una volta la mano sulla fronte sudata, poi sulla pelata.
La stanza degli interrogatori gli ricordava proprio un’aula scolastica. Non gli era mai piaciuta la scuola.
«Non hai nulla in contrario se dopo prendiamo le tue impronte digitali, vero?»
«No, per carità. Ma a che vi servono?»
«Dobbiamo soltanto escludere le impronte digitali ritrovate a casa della Buberg che non hanno a che fare con l’accaduto. Sei stato da lei qualche volta?»
«Non mi sembra. Non è che la si sentisse molto. Un paio di volte mi ha chiesto di aiutarla, soltanto questo. Altrimenti ci salutavamo, come si usa».
«Che tipo di aiuto voleva da te?»
«Una volta il lucchetto sulla porta del suo ripostiglio in cantina si era arrugginito e non si apriva più. Ho dovuto prendere delle tenaglie e spezzarlo. Un’altra volta… aveva qualcosa a che fare con il suo frigo». Inspirò profondamente e si poggiò le mani in grembo.
«Quindi sei stato dentro il suo appartamento?». Roger Høibakk incrociò lo sguardo di Randi.
«Sì, una volta, adesso che ci penso bene».
«Ieri eri a Stovner?»
«Sì, sono partito con la moto da Rødvassa verso mezzogiorno, e verso l’una ero a Stovner. Ho tagliato il prato e innaffiato e spazzato, roba così. Verso le dieci di sera ero di nuovo a Rødvassa. Siamo nel periodo delle vacanze estive. Ogni tanto mi devo riposare un po’ anch’io. Non vorrete mica dire che sono sospettato del delitto?»
«Certo che no», disse Roger Høibakk. «Dobbiamo semplicemente escluderti dalle indagini, è una procedura di routine. Capisci bene che dobbiamo farlo per forza. Puoi essere più preciso riguardo a quando sei andato via da Stovner?»
«Purtroppo no. Non faccio molto caso all’orario».
Randi si alzò. Le risposte del portiere le sembravano meccaniche. «Alla polizia è stato detto che la donna è caduta alle 21:03», disse, togliendosi un filo dalla giacca bianca.
«Penso di essere andato via alle 20:50. Ci metto quindici minuti ad arrivare a Son. Penso che all’ora in cui è stata buttata giù dovevo trovarmi dalle parti dell’uscita per Kolbotn, roba del genere. Verificate con la società dei caselli autostradali, loro registrano tutti i veicoli che passano».
«Certo che lo controlleremo», disse Roger Høibakk «Ma le motociclette non pagano, vero?»
«Sì, ma è possibile che vengano registrate ugualmente. Mi sono fermato alla stazione di servizio del bivio per Rødvassa. Ho comprato qualche sciocchezza da mangiare».
«Che ora era?». Randi Johansen si sedette di nuovo sulla sedia vicino alla finestra.
«Il sole stava scendendo dietro la collina proprio mentre mi trovavo lì. Potevano essere le 20:40, o qualcosa del genere».
Roger Høibakk riprese a parlare. «C’è qualcuno che ti ha visto?»
«L’uomo di colore che mi ha servito. Lui mi ha visto. Ewald Hjertnes è arrivato al campeggio circa dieci minuti dopo di me, penso. Era stato a Moss».
«E anche lui vive a Stovner?»
«Sì, al secondo piano. Io ho un appartamento in cantina. Siamo amici di infanzia dai tempi di Moss. La sua famiglia aveva un negozio di scarpe, e mia madre ci lavorava. Sono io che gli ho trovato l’appartamento nel palazzo, dieci anni fa».
«E questo camper è tuo?»
«Ce l’ho da molto tempo. Era il padre di Ewald che gestiva il campeggio, tanti anni fa. Ewald ha preso il suo posto quando è morto. Suo fratello invece gestisce il negozio di scarpe. Io andavo a Rødvassa già da bambino».
«Da quanto Britt Else Buberg viveva a Stovner, te lo ricordi?»
«Penso da sei anni circa».
«Hai notato qualcosa di particolare che la riguardasse negli ultimi tempi? Riceveva visite, per esempio?»
«No, non faccio caso a questo genere di cose».
«È successo qualcosa di particolare, sabato?»
«Non so a cosa ti stai riferendo, ma la sua vicina è venuta di corsa dicendomi che dovevo darle la chiave. La Buberg era rimasta chiusa fuori di casa, mi ha detto».
«Quindi tu hai la chiave di tutti gli appartamenti?»
«Certamente. Tutti i portieri ce l’hanno. Io ho un passe-partout che apre tutti gli appartamenti».
«Ma tu non hai parlato direttamente con la Buberg?»
«No, per niente. Successivamente la vicina è venuta a riportarmi le chiavi».
«Ieri sei stato in cantina?»
«In cantina? Io ci abito, laggiù. Le finestre strette con le aiuole di rose vicino all’ingresso sono le mie».
«Va bene, ma sei stato dentro la lavanderia?»
«No. Perché mai sarei dovuto andare là? È un’altra porta. Per entrare bisogna aprire con la chiave la porta di fronte a quella di casa mia. Perché, cosa c’entra la lavanderia?»
«Là dentro potrebbe essere avvenuto un litigio. C’era il pavimento cosparso di detersivo in polvere».
Il viso di William Pettersen era inespressivo. Prese un sorso dal bicchiere. «Altre persone si sono suicidate a Stovner, in passato», disse. «Ci sono grosse probabilità che sia andata così anche stavolta, no?».
Roger Høibakk lo guardò. «Naturalmente non lo escludiamo. A proposito, quanto hai pagato la moto?».
William Pettersen guardò il poliziotto e abbassò le spalle. Uno scoppio di risa gli fece tremare le rughe intorno agli occhi. «È costata quasi duecentomila corone».
«Mi piacerebbe averne una così». Høibakk pescò il suo pettine dalla tasca posteriore, e se lo passò rapidamente tra i capelli scuri.
«Mi sono dimenticato di dirvi che c’erano dei battibecchi tra la Buberg e l’inquilina del piano di sotto», fece Pettersen.
«La Buberg diceva che la musica era troppo forte, e che il cagnolino abbaiava troppo. Ed in effetti era vero».
«Ok», disse Roger Høibakk. «Grazie, prendo un appunto. Torni giù al campeggio questo pomeriggio?»
«Non vedo perché dovrei stare tra i piedi ora che a Stovner ci sono gli agenti della Scientifica».
«Allora se non hai nulla da aggiungere, noi abbiamo finito», disse il poliziotto. «Dobbiamo solo prenderti le impronte digitali».
Randi Johansen si alzò. «Ci sono ancora un paio di cose», esclamò guardando di nuovo William Pettersen. «Hai figli?»
«Cosa intendi?»
«Non sei mai stato sposato?»
«Sono vedovo. Ma non abbiamo avuto bambini».
«Britt Else Buberg stava spesso insieme a una signora anziana della casa di riposo?».
William Pettersen fece spallucce. «Ci sono diciotto appartamenti in ciascuna scala. Mi occupo di tre palazzi, con tre scale per ognuno. Quindi in tutto si tratta di circa quattrocentocinquanta persone».
«Sai a chi mi riferisco?». Randi Johansen lo fissò negli occhi. Lui distolse lo sguardo.
«Sì, certo», disse brevemente.