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Ellen Grue posteggiò nel parcheggio coperto del Rikshospitalet e scese dall’automobile. Era stanca. Erano le 23:01. Si registrò alla reception e si avviò per il corridoio illuminato. A quell’ora era tutto avvolto dal silenzio. Un paziente con un accappatoio celeste seduto su una sedia la seguì con lo sguardo. Attraverso le vetrate sul soffitto si vedeva il cielo estivo che si era un po’ annuvolato e aveva assunto un colore grigio intenso.
Prese l’ascensore, scese all’istituto di medicina legale nel seminterrato ed entrò nel guardaroba. Lì si spogliò rapidamente, prese un paio di pantaloni di cotone verde da un ripiano e li indossò. Poi afferrò un camice della stessa stoffa. Infine tirò fuori un paio di scarpe comode dall’armadietto, si chinò e se le infilò.
Entrò nella sala delle autopsie. L’odore dolciastro della morte impregnava le pareti. Sul soffitto, le luci al neon erano accese. Il professor Wangen la stava aspettando. Era un uomo sportivo, sulla cinquantina, con i capelli grigi. Lei guardò il medico legale, così gioviale, e gli sorrise. «È caduta dal sesto piano», disse. Sulla carnagione scura dell’uomo spiccavano i capelli grigi. Era il più simpatico dei professori dell’istituto. «Sì, l’avevo capito», disse. «Gli assistenti saranno qui tra un attimo con il cadavere». Le avvicinò una sedia da ufficio con le rotelle. «Sei incinta, resta seduta mentre lavoriamo».
«Grazie». Ellen sorrise, prese un lungo camice giallo da un gancio alla parete e se lo infilò.
«Ha molte fratture ossee, e probabilmente è morta a causa delle lesioni alla testa e delle emorragie interne. Pensiamo che si chiami Britt Else Buberg. Ha cinquantasette anni. Stiamo cercando qualcuno che venga a identificarla al più presto, ma siamo convinti che si tratti di lei».
Si mise in testa una cuffia di plastica e si infilò i guanti di gomma. Le finestre dai vetri opachi, che davano sulla parte posteriore dell’ospedale, facevano filtrare la luce grigia della sera.
«Stai bene fisicamente?», chiese il professor Wangen.
«Alla fine ho deciso di tenerlo, il bambino», disse lei. «Anche se qualche settimana fa avevo detto… ti ricordi… che non l’avrei fatto».
«Sì, l’ho immaginato. È una bella cosa. Abbiamo bisogno di persone vive in questa città».
«Lavorerò fino all’ultimo momento7». Prese un paio di copriscarpe da un ripiano e si accomodò sulla sedia lucida.
«E quando dovrebbe nascere?»
«Verso la metà di dicembre», sorrise lei e si infilò i copriscarpe.
«Be’, mi sembra giusto, così puoi prenderti le vacanze di Natale». Nello stesso istante entrarono due assistenti con il cadavere su una barella. Sollevarono il corpo e lo poggiarono sul tavolo alto e lucido.
Il professor Wangen si avvicinò alla defunta e tolse il lenzuolo. La donna indossava ancora la tuta di ciniglia e la collana di vetro verde. Le unghie dei piedi, coperte di smalto, gli saltarono all’occhio. Il viso era rosso, macchiato di sangue rappreso.
Il professor Wangen la guardò. «È una bella donna», disse. «Mettiamo via i vestiti. Immagino tu li voglia far analizzare».
«Sì, è stata buttata giù. O per lo meno, ci è stato detto che è stata scaraventata dal sesto piano. Il punto fondamentale è cercare di stabilire se ha altri segni, oltre alle ferite causate dalla caduta. Ha dei lividi sulle sue braccia. È successo qualcosa nella lavanderia giù in cantina, ma non è detto che abbia a che fare con lei».
«Certo, certo. A quanto capisco, non è caduta sull’asfalto».
«No, sull’erba».
«A proposito, sta per uscire un nuovo macchinario per le autopsie. Ne hai sentito parlare?».
Ellen annuì: «È un body-scanner, ho sentito dire».
«Fa un’autopsia virtuale», disse lui. «È davvero fantastico. Si inserisce il corpo all’interno del macchinario e poi si possono eseguire delle analisi digitali. Quando lo avremo anche noi, tutto diventerà più facile. Vedo che la nostra signora si tingeva i capelli. Quale donna non lo fa, di questi tempi?».
La Grue sentì lo stomaco gorgogliare. Aveva fame.
«Devo fare soltanto un paio di foto, poi la giriamo. Andiamo avanti per tutta la notte, cerchiamo di stabilire se ha subìto qualche forma di violenza. Immagino tu voglia portarti via il rapporto preliminare».
Lei annuì.
Il professor Wangen sorrise. «Te ne stilo uno al più presto». Chiese a uno degli aiutanti di sfilarle il maglioncino di ciniglia.
«Qualcuno l’ha afferrata con molta forza per le braccia. Guarda i lividi. Inoltre ha degli ematomi e dei puntini… intorno al collo. Non sono molto recenti».
«Quindi pensi che non siano di oggi?»
«Potrebbero. Ha subìto dei maltrattamenti prima di cadere. Può essere successo ieri o il giorno prima, o magari anche oggi, ma qualche ora prima. Non posso stabilirlo immediatamente, me ne occuperò più a fondo».
«Non è un donnone, quindi non sarebbe stato molto difficile per un uomo buttarla giù dalla veranda. Ha dei piccoli ematomi al di sopra della regione lombare», proseguì. «Come se fosse stata spinta contro l’estremità di qualcosa».
Ellen Grue lo guardò. «Dopo telefono a Cato, sento se qualcuno può venire qui a identificarla».
«Se la passa bene, Isaksen?»
«È in forma smagliante, di buon umore e riposato dopo le ferie», disse lei con ironia. «Te lo saluto».
«Sì, grazie», disse il professor Wangen e la fissò per un attimo. «Ho sentito che è di Roger Høibakk». Fece un cenno con il capo verso la sua pancia. «I pettegolezzi si diffondono come il fuoco in un pagliaio». Ellen Grue ebbe un brivido freddo.
7’Till the bitter end, in inglese nel testo (n.d.t.).