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Fiori di trifoglio, erba alta e cerfoglio selvatico riempivano i fossi e nascondevano il terreno scuro. Cato Isaksen guidava lentamente lungo la strada sterrata. C’era soltanto il bosco, fitto e silenzioso, e nessuna casa. A sinistra si apriva una piazzola panoramica con un tavolo di legno e due panche. La macchina della polizia alzava una scia di polvere. Aveva chiesto di potersene stare da solo. Nell’automobile dietro la sua c’erano Marian e Asle Tengs.

I pensieri gli si affastellavano in testa. Il giorno dopo, Bente e Vetle sarebbero tornati a casa. Doveva tosare il prato, mettere via il materiale da lavoro e passare l’aspirapolvere in salotto e in cucina. Lo stress gli stava per provocare quello stato particolare, lo stesso di quando rimaneva in attesa, seduto nella volante. All’improvviso, qualcosa poteva emergere dal profondo della sua mente. Dettagli che si trasformavano in tasselli. Magari girati in maniera diversa, dunque ignoti e familiari allo stesso tempo. “Rødvassa” c’era scritto sul cartello di fronte a lui.

Parcheggiò di fronte al malandato edificio in legno che ospitava la reception, e scese dalla macchina. Era il 7 agosto. Fu investito dall’odore dell’acqua di mare. Due bambini si stavano litigando un numero di «Topolino». Una famiglia stava smontando la tenda. Gli giungeva il clangore dei tubolari in metallo, i cui pezzi venivano buttati e ammucchiati gli uni sugli altri. Il tempo cominciò a cambiare. Le nuvole passavano veloci sopra le cime degli alberi. Gli altri due parcheggiarono dietro di lui e scesero.

Cato Isaksen si afferrò i pantaloni in vita e li tirò su. Guardò la casetta dell’accettazione e davanti la piattaforma di legno. Una falce dal manico mezzo marcio era appoggiata alla parete. Di fronte era parcheggiata una grossa motocicletta. Nella carrozzeria nera, vide il riflesso del proprio viso che cambiava forma e si trasformava in una bizzarra striscia allungata. Doveva essere la moto di Willam Pettersen, pensò.

Marian e Asle gli vennero incontro. «Molti hanno già smontato e se ne sono andati, vedo», disse Asle Tengs.

Cato si girò verso di loro. «Marian, tu cerca le due ragazze, Julie e Shira. Sono nel chiosco, giusto? Asle, noi due andiamo da Ewald Hjertnes e William Pettersen».

 

* * *

 

Ewald stava risalendo il sentiero in mezzo alle tende. Quando vide i poliziotti abbassò le spalle. Un forte rossore gli si diffuse sul viso. Gettò un’occhiata al suolo arido lungo il sentiero, si asciugò le mani sui pantaloni e andò incontro agli agenti.

«Si tratta della ragazza polacca». Cato Isaksen andò subito al sodo. Asle Tengs lo seguiva da vicino.

«Perché non ci hai detto prima che è sparita?».

Ewald Hjertnes guardò a terra. La sua voce era inespressiva. «Capisco», affermò, poi alzò la testa e guardò in direzione del chiosco dove Marian Dahle si affacciava alla finestrella. «Non posso dire che Lilly sia sparita. Ma effettivamente è assente da un paio di giorni». Infilò le mani nelle tasche dei pantaloni e le estrasse nuovamente. «È una grande lavoratrice», aggiunse.

«E ora dov’è?». Le ragazze erano uscite dal chiosco. Una piangeva; Cato notò che il mascara le era colato giù e formava una mezzaluna subito sopra una delle guance.

Ewald sembrò mettersi sulla difensiva. «Come faccio a saperlo?»

«Dov’è William Pettersen?»

«È a Oslo. Dovevate interrogarlo, no?».

Cato Isaksen e Asle Tengs si scambiarono un’occhiata. «Ma la sua moto è qui. Quindi dev’essere tornato».

Ewald Hjertnes guardò alle spalle dei poliziotti, in direzione dell’accettazione. «Sì, hai ragione. Allora sarà sicuramente qui, da qualche parte». Poi lanciò un’occhiata alla falce. «Devo soltanto mettere un attimo via quell’arnese», disse guardando i ragazzini che continuavano a litigarsi il giornaletto.

Quando tornò, Cato Isaksen gli disse: «Mostraci dove abitava».

«Stava in una stanzetta in quell’edificio marrone laggiù, a un’estremità della baracca delle docce. È mio padre che l’ha costruita nel 1968», spiegò Hjertnes.

«Vorremmo andare a dare un’occhiata», disse Cato Isaksen facendo un cenno con il mento in quella direzione.

Ewald Hjertnes li precedette. «Il tempo è volato». Si girò indietro per metà, e per un attimo sembrò fiero di qualcosa. «Sono riuscito a sostituire un certo numero di tavole e assi. Passo regolarmente il mordente su questi edifici».

Cato Isaksen guardò la fila di cottage lungo il limitare del bosco. «Sei tu che ti occupi della manutenzione?»

«Fondamentalmente sì. I suoi vestiti sono ancora lì. Io non ho toccato nulla. Tornerà di sicuro».

«Parla bene il norvegese?»

«Correntemente», disse lui. «Ha lavorato nel nostro Paese per molte estati. Prima veniva sempre a raccogliere le fragole».

«E Hanne Elisabeth Wismer dove abitava, trentacinque anni fa?»

«Nello stesso posto», disse lui con un filo di voce.

 

La stanza era caldissima e dal vaso di fiori sul comodino proveniva un cattivo odore. C’era un gran disordine e vestiti gettati ovunque. Dalla finestrella si intravedeva il bosco.

Cato Isaksen si fermò sulla soglia, si sporse all’interno della stanza e guardò in alto, verso il soffitto. Vide la presa d’aria. La grande presa d’aria con la grata. «Non entrare», disse. «Mettiamo i sigilli. Ellen e gli altri verranno qui domani. Come fa di cognome questa Lilly?»

«Rudeck», disse Ewald Hjertnes, alle sue spalle.

Isaksen richiuse la porta senza toccare la maniglia.

«Vai a prendere il necessario in macchina e sigilla tutto». Asle annuì e sparì dietro l’angolo dell’edificio. Cato si girò nuovamente verso Ewald Hjertnes: «Aveva il permesso di soggiorno e di lavoro?».

Lui non rispose. Si strofinò la mano sulla fronte e disse: «Probabilmente ha soltanto fatto un salto a Oslo. Pare avesse un fratello… Non è vero che aveva paura. Lilly non aveva paura di nulla».

«Come fai a saperlo?». All’improvviso alle sue spalle comparve Marian Dahle.

«Lennart non ha nulla a che fare con questa faccenda». La guardò. «Lui non conosceva quella donna di Stovner».

«E invece indirettamente la conosceva», fece Cato, scambiando un’occhiata con Marian. «Hanne Elisabeth Wismer viveva in questa stanza, trentacinque anni fa».

«Indirettamente? Cosa intendi?», chiese l’uomo.

«Britt Else Buberg era un’amica della mamma di Hanne Elisabeth Wismer», disse Isaksen.

 

* * *

 

William Pettersen montò in sella alla motocicletta. Marian Dahle gli corse incontro.

«Accidenti», disse il portiere guardandola, «siete qui anche voi?»

«Sì, adesso siamo qui», rispose lei incrociando le braccia. «Dove stai andando? Perché non ci hai detto che Lilly Rudeck era sparita?»

«Devo fare solo un salto alla pompa di benzina. Non è mica sicuro che sia sparita».

«Quando l’hai vista l’ultima volta?». Marian spostò il peso del corpo da una gamba all’altra.

«Sai, non è che tenga il conto di queste cose. Sarà stato qualche giorno fa. Lennart era arrabbiato perché qualcuno gli aveva fregato le scarpe», spiegò William Pettersen. «Tutto qui. Penso sia andato a cercare delle nuove scarpe da ginnastica. Del resto, gestisce un negozio di calzature».

«Sai che non riusciamo a trovarlo», disse Marian Dahle. «Sembra una coincidenza un po’ troppo strana che Hanne Elisabeth Wismer abitasse esattamente nella stessa stanza di Lilly, nello stesso edificio, no?»

«No, non è poi tanto strano. Ci avranno abitato una ventina di ragazze nel corso degli anni. Lennart non ha mai ammesso nulla, e il corpo si era volatilizzato. Questo non è un argomento di cui parliamo, tra noi. Penso che non abbia senso che vi stia a snocciolare quello che penso di questa faccenda. Sento che è sbagliato».

«E perché mai?»

«È come se facessi la spia. Del resto, non ho nulla da raccontare». Mise la mano sul sellino, guardò di fronte a sé e parlò lentamente, scandendo le parole: «Sento solo che tutto questo non porta assolutamente da nessuna parte. Lennart non sta facendo niente di male. È stato condannato ingiustamente. Certo, prova rancore. Devo ammettere che a quel tempo, trentacinque anni fa, non gli credetti. Ma ora invece sì. C’è qualcosa in lui nel modo in cui parla di quella faccenda, così genuinamente incazzato. Non riuscirebbe a mantenere quell’indignazione se non ci fosse un fondo di verità», disse William Pettersen. «Ma se pensate che possa essere successo qualcosa alla ragazza polacca, c’è una cosa che vi voglio dire».

«Ah sì? Che cosa?»

«C’è un uomo di colore che lavora alla pompa di benzina. Era fissato con Lilly. Di sera spesso si aggirava qui. Girava, girava… un tipo piuttosto losco».

Cato Isaksen gli venne incontro. «Asle sta mettendo i sigilli alla camera di Lilly Rudeck e a quella accanto, lo stanzino del contatore elettrico», disse. «Non c’è dubbio che la ragazza polacca l’abbia abbandonata in fretta e furia. E non c’è dubbio neanche che il soppalco sia stato utilizzato come base da un guardone. Cercheremo sia Lennart che Lilly, ma pare che nessuno abbia una foto della giovane polacca, quindi dobbiamo far fare un identikit. Le due ragazze del chiosco ci possono aiutare. E faremo venire una pattuglia con i cani a fare delle ricerche».

L’ultima casa a sinistra
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