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«Ce ne sono anche altre», spiegò Marian mentre si alzava. Tornò con la piccola foto incorniciata. «Andiamo in salotto».

Birka dormiva in poltrona. Cato Isaksen si avvicinò al divano e si sedette. «Grazie per la cena», disse, prendendole di mano la foto che lei gli stava porgendo. «Sono su un sentiero, nel bosco. È Britt Else Buberg da giovane?»

«Sì. L’ho presa nell’appartamento di Oluf Carlsson. Guarda, gli alberi sono spogli: dev’essere stata scattata in autunno o in primavera».

«È possibile che le due donne si siano scambiate l’identità?». Tra le sopracciglia gli apparve un solco profondo. «E che Hanne Elisabeth Wismer sia rimasta ad abitare in Svezia, mentre Britt Else Buberg è venuta a vivere qui? È questo che vuoi dire? È stato una specie di scambio di favori? Io vedo chiaramente che una delle due è Britt Else Buberg».

«O magari è l’altra». Marian Dahle si lasciò cadere pesantemente accanto lui sul divano. Poi indicò Britt Else Buberg. «Forse questa è Hanne Elisabeth Wismer, mentre l’altra è la Buberg. Si assomigliano molto. Ma la Buberg aveva i ricci, e nessuna di loro li ha».

«Hai portato via altri oggetti dall’appartamento di Carlsson?»

«La cosa più importante per un investigatore è risolvere un caso».

«È vero. Sei brava Marian. In gamba, ma indisponente». Accennò un sorriso.

«Dobbiamo dare il vestito di Hanne alla Scientifica, così può confrontare il sangue con quello della Buberg».

«Vestito? Quale vestito? Quale sangue? Hai qui il vestito della Wismer?».

Marian si alzò e andò in cucina. Tornò con due tazze di ceramica e si sedette nuovamente accanto a lui, sul divano. «Immaginiamoci una sequenza di eventi ipotetici…».

«Hai il suo vestito?», ripeté lui. «Ti sei portata le cartelle a casa, giusto? Sei completamente fuori di testa! Questi sono reperti originali. Ho visto che avevi una montagna di carte quando mi sono affacciato; le ho viste riflesse nello specchio. Irmelin ha detto che hai ritirato un sacco…».

«Non riuscivamo a fare progressi. E poi naturalmente riconsegnerò tutto, dopo». Tolse alcuni peli di cane dal tavolino e si portò la tazza alla bocca.

Cato Isaksen fece una pausa prima di riprendere: «Ne hai fatto delle copie? So che hai preso la vecchia fotocopiatrice».

«Fotocopie? Mi prendi per scema? Ma i vecchi casi devono entrare a far parte del nostro sistema informatico. Devono essere archiviati. Gli archivi vecchio stile, quello della questura e l’archivio di Stato, sono così impraticabili, come il fatto che non possiamo prenderci da soli i documenti. La direzione deve trovare i soldi per… devono essere informatizzati».

«I soldi non c’entrano nulla. Si tratta di salvaguardare prove preziose. E poi non è compito tuo… è una questione di cui si devono occupare i politici. Il ministro della giustizia, la responsabile del reparto e il capo della polizia criminale…».

«Martin Egge è d’accordo con me».

Il commissario scosse la testa. «Vedi di riconsegnare questa roba a Irmelin. Altrimenti lo racconterà ai superiori. E la responsabilità è mia…».

«Irmelin Quist è una cretina», disse Marian Dahle. «È una strega insopportabile».

Cato diede una schicchera a una vespa mezzo morta.

Marian bevve ancora un sorso di caffè caldo. «Torniamo al dunque. Ora ragiono a voce alta, butto lì delle ipotesi. Immaginiamo che Hanne Elisabeth Wismer non sia morta quella volta, nel 1972».

Isaksen la fissò. «Questo…».

«Sì, ma aspetta, Cato. Immaginiamo che sia stata mandata di nascosto a stare con il fratello di Astrid Wismer e la cognata a Kristinehamn».

«Sarebbe a dire dai suoi zii?». Sentiva che tutto in lui si ribellava. «È troppo… non sono neanche fratelli!».

«Stai zitto, adesso. Il nostro caro zio Oluf in fondo è un dottore, gli psichiatri sono medici a tutti gli effetti. Può averle tolto del sangue in cui ha inzuppato il suo vestito. Il tutto poi è stato rispedito in Norvegia e piazzato nel bosco, vicino al campeggio. C’erano impronte digitali sui bottoni, ma forse quello è stato un semplice colpo di fortuna. E le sue mutandine sono state trovate nascoste sotto quel grosso tronco marcio. Sinceramente, qual è il criminale che lascerebbe in giro nel bosco della roba del genere? E un bottone è stato trovato nella barca. Lennart Hoen, alias Lennart Hjertnes, fu condannato».

«Quello potrebbe anche essere stato lo scopo», mormorò Cato Isaksen. «Forse l’aveva violentata e doveva essere punito».

Marian Dahle si alzò e aprì ancora una volta la porta della camera da letto. Tornò con la foto della cresima di Hanne Elisabeth Wismer. «Guarda», disse. «Sembra tirato per i capelli, ma penso che fratello e sorella possano avere inscenato una sparizione. Carlsson e la Wismer devono essere fratelli. In fondo lei parla in modo un po’ strano, con quelle U un po’ allungate. Non sembra anche a te?».

Lui la prese in mano.

«A chi assomiglia, Cato?»

«A chi assomiglia?»

«Già, a chi assomiglia?»

«Ma, veramente io…».

All’improvviso, si sentirono dei passi dall’appartamento di sopra. Marian alzò istintivamente gli occhi al soffitto prima di volgerli di nuovo verso il basso e la foto. «Assomiglia a quella signora che aspettava Oluf Carlsson, sai a chi mi riferisco».

Cato Isaksen rifletté su quelle parole, ma poi scosse la testa. «No, è troppo assurdo, Marian. Io ho controllato quella Ann. Fa la catecheta nella parrocchia di Carlsson. Ho telefonato alla mensa e ho spiegato… e loro mi hanno detto come si chiama. Sono una coppia. Stanno… insieme».

«Invece potrebbe essere proprio lei, Hanne Elisabeth Wismer», disse Marian con fare ostinato e lo fissò. «Osserva bene la foto della cresima», aggiunse.

Cato Isaksen socchiuse gli occhi e si concentrò. «Il fatto che questa Ann avesse un abito talare nella foto che hai visto… in fondo è una catecheta».

«Perché, i catecheti usano abiti sacerdotali?». Marian scosse la testa. «E comunque non c’entra niente con questa faccenda. Quella pettinatura… Hanne Elisabeth Wismer qui porta la coda di cavallo. Guardala. Sembra una grande bacchettona».

Cato Isaksen scosse la testa. «Non possiamo stare qui a farci dei film. Sai invece a chi assomiglia, secondo me?»

«A Britt Else Buberg», disse Marian. «Ma è lei? No, lei aveva i capelli ricci. Per caso abbiamo un’altra foto della Buberg? Magari…».

«Solo da morta», rispose Cato. «Non ce ne sono foto di lei da viva. Soltanto quella piccola e sfocata che hai rubato dall’appartamento di Carlsson».

«E se Lennart Hjertnes fosse il padre di Tomas? Se la figlia di Astrid Wismer fosse rimasta incinta dopo essere stata violentata? Hai capito cosa intendo?»

«Senti, adesso stai mescolando tutte le tue teorie e stai facendo un bel minestrone».

La collega lo interruppe: «Immaginiamo che questa Ann sia davvero Hanne Elisabeth Wismer… che abbia vissuto sotto mentite spoglie per trentacinque anni».

«No, Marian». Isaksen si alzò e gettò la foto sul tavolo. «Non ce la faccio ad ascoltare altre teorie del cavolo. Tu stai dicendo che Ann sarebbe Hanne Elisabeth Wismer, e che si è nascosta per punire Lennart Hoen alias Hjertnes».

Marian si strinse le tempie. «Oppure», sospirò abbassando le mani, «magari Carlsson ha avuto un rapporto con la ragazza che gli era stata data in affidamento, Britt Else Buberg. E ha dovuto nasconderlo per tutti questi anni. Pensa se avesse messo incinta la sua paziente psichiatrica, lui che era stato così gentile a portarla via dall’ospedale. E se avesse avuto un fine ben preciso? Nella vita bisogna essere abbastanza malati per riuscire, ma abbastanza sani da non fallire. E se la Buberg avesse partorito Tomas e poi fosse stata mandata a Oslo?»

«Ecco, adesso stai davvero mescolando le carte in tavola e stai facendo una gran confusione, Marian. Qui abbiamo due casi. Due omicidi. Wismer e Buberg. Due donne morte a distanza di trentacinque anni. Non sono necessariamente…».

«Io ragionavo soltanto. Oppure… non so… Lennart Hjertnes… magari Hanne Elisabeth rimase incinta dopo la violenza sessuale. Ho un sacco di idee che mi frullano per la testa».

Cato bevve un sorso di caffè e poggiò la tazza sul tavolo con un rumore secco. «La figlia di Astrid Wismer è stata violentata a metà luglio. Tomas Carlsson è nato il 10 marzo».

«Un mese prima del normale», disse Marian Dahle. «Non è possibile».

«È stato partorito a casa dalla moglie di Carlsson. Probabilmente le cose sono andate proprio così. Siamo noi che stiamo tirando fuori delle storie, Marian, che… Il mio cervello non riesce a ricollegare tutto questo assurdo teatrino. Hanne Elisabeth Wismer è stata uccisa allora. È morta. Penso ci sia qualcos’altro che non riusciamo a vedere. Tra un paio di giorni dalla Svezia ci arriverà la risposta delle analisi del DNA. Così vedremo se Carlsson è il padre di Tomas, come dice lui. Io non ci credo».

«Sì», disse Marian, «ma la vicina magrolina di Södergatan ci ha detto che lì avevano abitato varie ragazze giovani, quindi quale di loro è la vera madre di Tomas?».

L’ultima casa a sinistra
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