25
— Che succede? — chiese Caro. Si erano divertite a frugare nelle borse, ma adesso Hannah sedeva sul letto tra cartacce e vestiti con un’aria inaspettatamente triste.
La sua nuova amica tirò su col naso e si asciugò gli occhi. — Sai, Noah ha sempre insistito per tener segreta la storia della Midlands. È così paranoico.
— Conoscendolo, suppongo che abbia le sue ragioni.
— Sì. Ha paura che la Obsidian ci scopra. Non ha mai detto ad anima viva ciò che ci è successo e ha sempre imposto anche a noi di tacere. Ma a te ha raccontato tutto dopo quanto? Due giorni?
— Credo che con oggi siano tre — commentò lei con nonchalance.
— Mi ha sorpresa, ecco tutto. Tiene davvero a te. Non è mai accaduto. Non si è mai fidato di nessuno, neppure quand’era ragazzo. È per questo che siamo sopravvissuti.
— Intendi alla Midlands?
— E anche prima, quando vivevamo per strada. Te ne avrà parlato, suppongo. Era molto astuto, già prima che quei bastardi gli spedissero il cervello nella stratosfera. E poi volevano eliminarlo — le rivelò, l’espressione dura. — Quasi tutti i ragazzi del nostro gruppo erano destinati alla soppressione.
— Cosa? E perché mai?
— Perché si erano spinti troppo oltre — spiegò lei. — Noah era molto più intelligente di loro e continuavano a potenziarlo. Quando si accorsero di cosa avevano combinato, cedettero al panico. Ma lui li precedette. Capì cos’avevano in mente e salvò tutti noi. — I suoi occhi si riempirono di pena e tormento. — Quello fu un giorno davvero terribile.
Caro rabbrividì al pensiero di cosa dovevano aver passato tutti loro.
— Noah è un leader naturale — riprese Hannah. — E ha un gran cuore. Vedeva ragazzi sfruttati in modo orribile e ha risposto colpo su colpo. Suppongo che per lui sia diventata un’abitudine.
— Non ne dubito neppure per un attimo — commentò lei con ironia.
— Persino adesso continua a proteggerci, anche se siamo cresciuti. E poi sei arrivata tu. Si direbbe che si senta responsabile anche per te. — Si asciugò di nuovo gli occhi e le lanciò un sorriso tremulo. — Sei fortunata. Tutti noi lo siamo. Credimi, so di cosa parlo.
Quindi, si disse Caro, Noah aveva lo spirito dell’eroe. Non c’era nulla di più profondo e personale sotto, per esempio l’amore. Un concetto che chiaramente non gli apparteneva. — E tu? — le chiese. — Cosa ti hanno fatto in quel lager?
Hannah reagì con una secca risata. — Oh, un sacco di cose. Noah non ti ha mai parlato delle nostre modalità?
— No. Mi ha parlato solo del suo AVP, con qualche oscuro accenno ad altro.
— Già, ci vorrebbero giorni per parlarne in dettaglio. Le sue modalità sono tutte estreme. Io invece sono stata potenziata sull’elaborazione delle frequenze. In breve, ho un impianto che mi permette d’inviare, ricevere e disturbare le frequenze radio con la mente. Non mi servono apparecchi per riuscirci.
— E hai questa cosa installata nel cervello?
— Sì. Mi hanno fatto un sacco di buchi in testa — spiegò Hannah. — Non è stato divertente, te lo assicuro. Però non ero sulla loro lista nera. Io e diversi altri eravamo piccoli, quindi quei pazzi si limitavano un po’. Però abbiamo lo stesso un sacco d’impianti e siamo stati sottoposti alle stesse stimolazioni cerebrali dei più grandi.
— Ma è un miracolo che tu sia ancora viva!
Hannah alzò le spalle. — Cerco di non pensarci. Comunque, quand’è che ti ha detto della Midlands?
— Ieri sera, dopo che voi ve ne siete andati. Avevo visto le sue cicatrici.
— Sì, tutti noi le abbiamo — disse Hannah mestamente. — Alcune sono un ricordo del giorno della ribellione, altre della chirurgia fai da te con cui ci siamo sganciati dopo.
— Sganciati? — Caro la guardò perplessa. — Oh, no. Non voglio più sentire.
— Potrebbe servirti saperlo, sai?
Suonava come un monito. — Ah. Okay.
— Noah, Sisko e Luke erano riusciti a entrare nel sistema informatico della Obsidian e a memorizzare tutti i segnalatori sottocutanei che ognuno di noi aveva addosso. Dopo la fuga, io ho disturbato il segnale che emettevano e li abbiamo estratti uno a uno. — Rabbrividì. — Erano parecchi.
— Santo cielo — gemette Caro.
— Io ne avevo quattro per ogni spalla, sei nelle braccia e qualcuno nelle gambe. I ragazzi ancora di più.
Una parte di lei si ritrasse inorridita, però la curiosità vinse. Si sedette sul letto accanto a Hannah e le chiese: — Perché?
— Perché con i ragazzi sono come impazziti — le rispose. — Li hanno riempiti d’impianti di ogni tipo. Vedi, nessuno sapeva di noi. Non eravamo neppure esperimenti scientifici, ma giocattoli di cui potevano disporre a piacimento. E così, quegli psicopatici si sono sfogati.
Caro non riusciva a pensare a qualcosa di adeguato da dire, e Hannah non sembrava aspettarselo. Restò in silenzio, persa in qualche orribile ricordo, poi parve scuotersi. — Scusami — mormorò — non volevo rattristarti con queste vecchie storie. Scendo di sotto a vedere a che punto è la cena, okay?
Lei annuì e quando la porta si chiuse, rimase seduta per un po’ sul letto cercando di assimilare quel terribile racconto. Quindi, sospirando, cominciò a scegliere tra gli indumenti sparsi sul letto. Jeans, una bella felpa, calze, mutandine. Un reggiseno della misura giusta. Ottimo.
Si alzò e si vestì, poi ammirò allo specchio la sua nuova figura. Quei vestiti la facevano sentire meravigliosamente bene. Taglie perfette, tessuti caldi e morbidi. Hannah aveva azzeccato persino il suo numero di scarpe. Peccato solo che sembrasse ancora uno straccio. Volto pallido e smagrito, lividi sparsi, segni sui polsi lasciati dalle cinghie di plastica. Tuttavia, era più vicina a com’era una volta di quanto lo fosse mai stata in quell’ultimo anno.
Dentro, però, faticava a riconoscersi. Era cambiata. La Caro di un tempo non esisteva più. Per tanti mesi si era sentita così vuota, ma dopo aver conosciuto Noah provava un senso di… be’, poteva arrivare a definirlo “speranza nel futuro”. Ma solo se si permetteva il lusso di pensarci.
Bene, meglio non pensarci allora. Sperare equivaleva un po’ a sfidare la fortuna ed era meglio non attirare l’attenzione di quella dea tanto capricciosa.
Scese le scale e puntò verso la luce, le chiacchiere e il profumo che venivano dalla sala da pranzo. Tutti sedevano intorno al tavolo, cosparso di vaschette d’alluminio colme di specialità messicane.
Rivedere Noah le dava sempre una nuova scossa. Assorbiva avidamente ogni sensuale dettaglio di lui, il volto scolpito, il corpo agile e possente, l’espressione dura ma paziente, gli occhi luminosi. Appariva più grosso, più intenso e carismatico di chiunque lo circondasse.
Lui tese il braccio e le prese la mano, tirandola verso la sedia accanto alla sua.
— Finalmente sei arrivata — disse Zade. — Adesso possiamo mangiare? Questo profumo mi sta uccidendo.
— Scusatemi. Avrei dovuto scendere prima — ammise lei.
— Sei scesa al momento giusto — dichiarò Noah, stringendole le dita sotto il tavolo. La sua mano era così grande, forte, calda. Le faceva formicolare la pelle. — Adesso basta lamentele e diamoci dentro.
Le pietanze erano deliziose, ma lei non riuscì a mangiare granché e neppure a seguire la conversazione. Si accorse di come tutti prendevano bonariamente in giro Noah, che si limitava a sorridere e a rimpinzarsi di tacos con una mano, mentre con l’altra le carezzava la coscia sotto il tavolo. Un contatto che le richiamava alla mente ogni erotico dettaglio dell’amplesso appena consumato nel bagno, scombinandole i pensieri e rendendola un po’ ansante.
Alla fine la conversazione si spostò sul suo spray al peperoncino, in bella mostra su una cassettiera insieme a tutto ciò che aveva nelle tasche del giaccone, la parrucca, il bite, il cappello… Mancava il cellulare, però. Era nella tasca nascosta ed evidentemente non l’avevano trovato.
— Dov’è il mio giaccone? — chiese.
Tutti smisero di chiacchierare. Fu Noah a risponderle. — Giù in garage, in un sacco della spazzatura. Non ne hai più bisogno. Hai un piumino molto più caldo.
— Decido io cosa mettere e non mettere — lo informò, seccata. Si alzò e senza aggiungere altro scese in garage, recuperò il sacco accanto al bidone dell’immondizia e lo aprì. Il suo giaccone era lurido, sporco di sangue; tuttavia ci teneva, l’aveva modificato lei e intendeva conservarlo.
Lo rivoltò e infilò le dita nella piccola tasca nascosta, estraendo il cellulare. La batteria era al minimo, ma bastava per controllare messaggi e chiamate. Sei telefonate senza risposta e un messaggio sulla segreteria, tutti del suo capo.
Compose il numero della segreteria mentre saliva le scale. La voce di Gareth era così agitata da essere quasi irriconoscibile. “Senti, non so in che casino ti sei cacciata, ma una banda di gangster mi ha appena aggredito in casa mia. Volevano il tuo indirizzo, e mi spiace ammetterlo ma ho dovuto darglielo. Quindi, se sei a casa fuggi e se sei in giro non tornarci più. E poi… ah, odio dovertelo dire perché tu mi piaci davvero, ma i tuoi guai sono troppo grandi per me. Quindi, per favore, sparisci e non farti più vedere.”
La registrazione finì. Lei lasciò cadere il giaccone, scioccata.
— Scusami. Non avevo visto il cellulare — disse Noah, avvicinandosi.
— Ho una tasca segreta — gli rispose, la voce assente.
— Va tutto bene? Sembri sconvolta — constatò lui, studiandola con attenzione.
— Gareth. Il mio capo alla Bounce — gli spiegò, tirando il fiato. — I tirapiedi di Mark l’hanno malmenato a casa sua. Ha dovuto dargli il mio indirizzo. Ecco perché mi aspettavano nel mio appartamento. Mi ha chiamata per avvisarmi, poi mi ha lasciato un messaggio.
Lui tese la mano. — Fammelo sentire.
La sua espressione si fece pensierosa mentre lo ascoltava.
— Come fa Mark a rintracciarmi sempre? — gemette lei. — Tim, Bea e adesso Gareth. Non capisco come sia possibile! Non avevo alcun collegamento con lui. Non sapeva il mio vero nome. Mi pagava in nero. Come diavolo ha fatto quel bastardo?
Noah guardò subito il cellulare. Lo aprì, estrasse la scheda e la batteria e le posò sul bancone. Poi, però, parve colpito da un’idea improvvisa. — Hai fatto qualche lavoro artistico per la Bounce?
— Sì, certo — rispose lei. — Ma non come designer. Nulla che fosse riconducibile a me, neppure col nome falso. Non sono una stupida!
— Però hai fatto dei lavori artistici, cose che sono entrate nel loro catalogo.
— Certo. È anche un negozio di costumi. Io faccio costumi. E maschere.
— E, ovviamente, il catalogo è pubblicato in rete — affermò lui, annuendo. — Ecco come ti rintraccia. Se ha visto anche solo una volta i tuoi lavori, riconosce il tuo stile. È così unico che anch’io lo riconoscerei.
Caro lo guardò a bocca aperta. — Maledizione, Gareth si fidava di me e adesso anche lui è in pericolo!
— Non credo — la rassicurò Noah. — Non c’è motivo per cui debbano prendersela ancora con lui. Secondo il messaggio, gli ha dato quello che volevano e se ne sono andati. Adesso quei bastardi sono morti e Mark ha altro a cui pensare. Gareth non gli serve più. — Le carezzò i capelli e aggiunse: — Ma non parliamone ora. Tu devi riposarti.
— Riposarmi? — sbottò lei. — Ma certo, come no? Uno psicopatico potenziato minaccia e uccide tutti coloro con cui entro in contatto, vuole rapirmi e farmi aprire una cassaforte per impossessarsi di un’armata di mutanti assassini… e io dovrei riposare?
Noah reagì con un’alzata di spalle. — Be’, anche noi siamo dei mutanti assassini, solo dalla parte giusta. — Le passò un braccio intorno alle spalle e la strinse a sé. — Mark ci contatterà su quella chat. Fino ad allora, abbiamo tempo. Ci penseremo dopo che avrai dormito per almeno dodici ore.
La riportò di sopra, in camera da letto, e accese una lampada identica a quelle che aveva a casa sua: un chiarore simile a quello delle braci in un camino illuminò la stanza.
Si tolse le lenti a contatto, poi puntò su di lei quei magnifici occhi dai bagliori color ambra.
Solo che stavolta la stava analizzando. Lei se ne accorse e la sensazione le risultò insopportabile. — Smettila, Noah.
— Sto solo guardando la tua aura — le disse. — Sei così bella senza le lenti a contatto. Bella e selvaggia.
“Selvaggia.” Quella definizione la calmò. Tirò il fiato e guardò gli occhi sconcertanti che splendevano nella penombra. “Selvaggia” le richiamava alla mente la luna piena, grandi spazi, venti impetuosi. Un lupo che correva nella neve.
E forza. Una forza inarrestabile che le veniva da dentro.
Lui riusciva a farla sentire in quel modo. Le dava sostanza, l’aiutava ad affrontare il mondo a testa alta, le mandava una scossa di pura energia in tutto il corpo.
Noah naturalmente se ne accorse. Un’immediata passione si accese sfrigolando tra loro. Quella magia così potente da non bastarle mai. Caro si tolse le scarpe e le calze, poi si abbassò i jeans attillati dimenando i fianchi. La felpa li seguì a ruota e alla fine restò davanti a lui in reggiseno e mutandine. — Vieni — gli disse.
Lui si avvicinò di un passo. — Sono qui per te — affermò. — Puoi avermi quando vuoi.
— Bene — gli mormorò, tirandolo a sé. — Allora ti voglio adesso.
— Bella lingerie — commentò Noah. — Ma ti preferisco senza.
— Allora toglimela.
Qualunque cosa volesse aggiungere venne tacitata da un famelico bacio.
Si fermarono giusto il tempo necessario perché lui si sfilasse il maglione. Quindi la premette contro di sé, slacciandole il reggiseno e godendosi apertamente la sensazione dei suoi capezzoli turgidi che sfregavano contro i duri pettorali. Le infilò i pollici nelle mutandine, gliele abbassò e la sospinse verso il letto.
Lei rimbalzò sul materasso e Noah s’inginocchiò per toglierle gli slip. Poi si chinò in avanti e prese a tempestarle l’interno della coscia di baci ardenti, carezzandole la pelle con mani calde. Quel contatto le suscitò una scia di scintille che si sparsero ovunque, strappandole un sospiro.
— Voglio amarti con la lingua — le mormorò, passando il pollice sulle pieghe bollenti, divaricandole e fermandosi proprio all’apice. Quel magnifico tormento la fece bagnare. La risposta istintiva del suo corpo alla passione di lui.
Noah la violò con le dita e poi le ritirò, lucide, scivolose, roventi. Un gemito di pura soddisfazione gli sfuggì quando se le portò alla bocca e le leccò. — Sei così dolce — mormorò. — Il tuo sapore è incredibile.
Dopodiché chinò la testa, omaggiandola ardentemente con le labbra e con la lingua, carezzando e amando ogni piega.
E Caro poté solo arrendersi, tanto persa in quel paradiso erotico da non riuscire neppure a pensare, aprendosi sempre di più a ogni fervido assalto.