21

Noah non riusciva a smettere di gridare. Sbatté contro un muro, poi contro la credenza. Il vassoio dei panini finì a terra e andò in frantumi. Lui inciampò e cadde in ginocchio. Un torrente di lacrime gli usciva dagli occhi, drenando almeno in parte la sostanza che continuava ad accecarlo.

Stupido idiota. Si era fatto abbindolare come un poppante!

Si rialzò e barcollando mosse verso la cucina. Il programma di combattimento gli inondava le vene di adrenalina, l’AVP girava impazzito, ma doveva mantenere la calma, lavarsi gli occhi e leccarsi le ferite. Dopo avrebbe pensato a come risolvere quel guaio.

Ma non appena entrò, la violenta aggressività stimolata dagli impianti prese il sopravvento. Si scordò del lavello, degli occhi, di tutto, e con una manata poderosa spazzò il piano cucina, riducendo in mille pezzi tutto quello che c’era sopra.

Lui non vi badò neppure. Gli occhi gli bruciavano terribilmente. Doveva lavarli. Doveva riportare il sistema sotto controllo.

“Datemi la chiavetta. L’ho trovata io e ho pagato un prezzo altissimo per riuscirci.”

Le parole di Caro gli tornarono in mente, ma allontanò subito il rimorso. Viscida serpe, sbattergli in faccia le tette per farlo ansimare come un cagnolino e poi fregarlo così. Nuova rabbia lo pervase per la propria stupidità.

Si sciacquò gli occhi e quando il bruciore passò un poco si accorse di come gli pulsava la testa. Un nuovo, violento picco lo scosse mentre si tastava il bitorzolo che lei gli aveva lasciato colpendolo con uno dei suoi dannati candelabri da riccone. Ah, sì, era stata davvero in gamba. Ma non sapeva che lui aveva una soglia del dolore molto alta e una capacità di ripresa miracolosa grazie ai potenziamenti inseriti nel suo genoma.

Si spostò in bagno e prese il collirio, sentendosi disgustato da se stesso. Con tutte le sue funzioni cerebrali ottimizzate, con tutta la sua esperienza, si era fatto fregare come un bambino e la risposta migliore che aveva saputo dare era stata distruggere la cucina.

Quando riuscì a guardarsi allo specchio aveva due semafori al posto degli occhi, però le capacità di guarigione potenziate erano già all’opera. L’insopportabile pulsare alla testa si era ridotto a un’emicrania. Pian piano, la vista si stava schiarendo.

Ripose il collirio nell’armadietto e scorse la chiavetta che Zade vi aveva riposto. Ancora una volta, si erano intesi alla perfezione. Non potevano perdere una prova così importante. Quel video andava analizzato fotogramma per fotogramma, ma non davanti a Caro. Non immaginava certo che la situazione gli sarebbe sfuggita di mano in quel modo.

Alla fine riuscì a riprendere il controllo, isolando la furia omicida in uno scomparto della mente. La strada da seguire era semplice: ritrovare Caro e starle attaccato come un’ombra, tenerla al sicuro e al contempo proteggere Hannah e gli altri dalla sua possibile vendetta. In breve, doveva mostrarsi più astuto di quanto era stato finora.

Si toccò di nuovo il bernoccolo e ritirò le dita sporche di sangue rappreso. Aveva un aspetto terribile, e con gli occhi ridotti in quel modo non poteva mettere le lenti a contatto. Per cercare Caro, avrebbe dovuto aggirarsi solo con gli occhiali protettivi e le luci stradali che filtravano dai lati bastavano per tenere l’AVP in costante allerta, col programma di combattimento che lo riempiva di furia omicida. Il mix perfetto per combinare un guaio.

L’alternativa era avvertire gli altri e lasciare che gliela riportassero loro. Sarebbe stato meno rischioso per tutti. Peccato solo che gli sarebbe andato il sangue alla testa a star lì ad aspettare senza far nulla.

No, Caro avrebbe dovuto affrontarlo conciato com’era adesso. Uscì dal bagno e marciò verso l’atrio per prendere le chiavi della Porsche, ma non le trovò. Un altro picco del sistema lo riempì di pura rabbia quando si accorse che la macchina non c’era. Chiaramente, l’aveva usata lei per fuggire. Tornò in sala, recuperò dal cassetto le chiavi del SUV Mercedes e si fermò un attimo per inserire la chiavetta nel laptop e copiare il video. Poi la rimise in tasca e uscì frettolosamente di casa.

Data l’ora tarda, non ci impiegò molto per raggiungere il quartiere dove abitava Caro. Poco prima di svoltare nella sua strada, però, scorse la Porsche. L’aveva parcheggiata in zona rimozione forzata, accidenti a lei!

Il portone della topaia in cui viveva era aperto. Drogati e senzatetto si aggiravano nell’atrio, ma si ritirarono nell’ombra non appena lo videro. Ormai, doveva sembrare una sorta di mostro assetato di sangue; si lanciò di corsa su per le scale, salendo quattro gradini alla volta. Metà delle luci erano spente e le altre lampeggiavano, schermate da una marea d’insetti bruciati.

Freddie era di nuovo steso in corridoio e russava. Noah lo scavalcò, sempre più allarmato. La porta dell’appartamento di Caro aveva qualcosa che non andava. Sembrava inclinata a un angolo diverso da tutte le altre.

Appena la raggiunse capì che era stata scardinata. La spinse e guardò dentro. Senza luce, e soprattutto senza Caro, quella casa perdeva ogni magia, restando solo un bugigattolo cadente.

Lo scandagliò con l’AVP. Sul pavimento notò le chiavi della Porsche, poi una scarpa e infine il lupo di legno che le aveva regalato lui, spezzato in due.

Entrò e prese le chiavi, poi studiò la vecchia sneaker grigia, un tempo bianca, che lei portava quel giorno. Poteva essersi cambiata le scarpe, ma dov’era l’altra? Noah diede una rapida occhiata in giro e non la vide. Quindi raggiunse il letto, alzò il materasso e trovò la busta con i soldi che le aveva dato per la danza. Quando scorse il fascio di banconote ancora intatto, il mondo gli crollò addosso.

Caro non sarebbe mai andata via senza prendere i soldi. E con una scarpa sola?

Estrasse il cellulare e lanciò il programma che gli permetteva di monitorare il suo segnalatore, augurandosi che lei indossasse ancora lo stesso giaccone. Una mappa riempì lo schermo. Un’icona si muoveva sull’autostrada che portava verso nord. Procedeva a gran velocità. Una macchina. Caro era su una macchina.

Uscì come una furia e si fermò accanto a Freddie. Si chinò e lo scosse senza troppi riguardi. — Svegliati!

Freddie sobbalzò. — Eh? Cosa? — gracchiò. Il suo volto si riempì di paura quando lo vide. — Tu? Io… io non ho fatto nulla, amico, lo giuro.

Noah lo afferrò per il bavero e lo sollevò da terra con una mano sola, poi si protese in avanti, nonostante il terribile puzzo che emanava. — Chi ha preso Caro? Dimmelo!

Gli occhi di Freddie si fecero grandi per la paura. — Caro? Chi è Caro?

— La ragazza che vive lì — gli rispose, indicando la porta. — So che la guardi con la bava alla bocca ogni volta che rientra. Qualcuno l’ha portata via. Hai visto chi era?

Freddie si guardò intorno, disorientato. — I suoi pusher! Sono stati i suoi pusher — si affrettò a rispondergli.

— Che diavolo dici? — tuonò Noah, scuotendolo come avrebbe fatto un cane con un ratto.

— Be’… era sconvolta. Trascinava i piedi e la tenevano in due. Doveva essere della roba davvero eccezionale. Io ho provato a chiedere se ne avevano un po’ da lasciarmi, ma uno di quei bastardi mi ha tirato un calcio — spiegò, massaggiandosi il fianco.

— Com’erano? — gli chiese Noah. — Bianchi, neri, asiatici, sudamericani? Quanti anni avevano? Com’erano vestiti? Dimmelo!

Freddie lo guardò terrorizzato. — Uno di loro era pelato — sbottò. — Quello più piccolo. E aveva anche il pizzetto. L’altro era enorme, un tizio davvero grosso. Tutti e due bianchi.

— Cosa ti ha fatto pensare che fossero degli spacciatori? I loro vestiti?

— Non ricordo com’erano vestiti — rispose Freddie. — L’ho pensato per via di te.

— Per me? — Noah lo guardò sorpreso. — E perché mai?

— Avanti, su. Aveva appena guadagnato un bel malloppo e aveva voglia di sballarsi un po’…

La mano libera di Noah partì d’istinto in un ceffone. Freddie si mise a piagnucolare, tirandosi indietro il più possibile e implorando pietà.

Lui lo lasciò cadere sul pavimento, si voltò e cominciò a correre.

Era sepolta viva sotto tonnellate di terra. La testa le stava esplodendo e non riusciva a respirare. Alzava e abbassava il petto, ma non inalava… abbastanza… aria.

Il confine tra incubo e veglia restò confuso per un po’. Vacillava, arrivando quasi a riprendere i sensi per poi ripiombare nell’incubo. In sottofondo sentiva un rumore costante. Le sembrava di muoversi, ma era tutto così caotico!

Quindi il rumore cessò. Era in una macchina. La consapevolezza prese con forza il sopravvento, portando con sé l’orribile pensiero di cosa l’aspettava adesso.

Sentì un forte cigolio, e le tolsero qualcosa dalla testa. Un cappuccio. Una mano le affibbiò uno schiaffo, lei gridò e si accorse di avere un bavaglio sulla bocca. Alzò lo sguardo e scorse il volto di un uomo, molliccio e grottesco da quell’angolazione. Era pelato, con le guance paffute, il pizzetto e delle borse sotto gli occhi. — Svegliati! — le gridò, lasciandole intravedere una capsula metallica.

Era in un portabagagli con le mani legate dietro la schiena. L’uomo che torreggiava su di lei l’afferrò e la tirò fuori, sbattendola contro la fiancata. Caro sentì le gambe cedere e sarebbe caduta se lui non l’avesse sorretta, ma poi le affibbiò un altro ceffone. — Resta su, idiota — le sibilò, voltandola e tagliando la cinghia che le legava i polsi. Caro gridò per il dolore quando il sangue riprese a circolare.

Un secondo tizio, stavolta enorme, la strattonò per un braccio. — Avanti, muoviti.

Venne trascinata lungo uno sterrato che attraversava un fitto bosco, fino a una baracca nascosta dalla vegetazione. Era uno squallido prefabbricato posato su blocchi di cemento, privo di veranda e con una scaletta di metallo che conduceva all’entrata.

L’uomo pelato salì e bussò. — Siamo noi. Apri.

La porta si aprì e lei venne trascinata dentro. Ma sbatté gli stinchi contro l’ultimo scalino e perse l’equilibrio, cadendo a terra. Quattro paia di stivali la circondarono; li guardò e cercò di reprimere il terrore.

Uno dei rapitori la sollevò e la sospinse lungo uno stretto corridoio che puzzava di muffa. Poi aprì una porta e la scaraventò dentro. Caro vide una piccola finestra che dava sul bosco e una branda di ferro battuto. Il materasso era coperto da teli di plastica. Chiuse gli occhi e chiamò a raccolta tutto il suo coraggio.

Una brusca spinta la spedì sul letto. Lei si accorse di aver perso la giacca. Il telo di plastica era freddo e umido contro la schiena nuda. In quel momento il tizio pelato entrò nella stanza. — Vattene — ordinò al suo compare. — Lasciaci soli.

Attese che l’altro uscisse e poi le sorrise, con la capsula metallica che mandò un bagliore nella notte. Prese una sedia e si sedette davanti a lei. — Buonasera, Caroline.

Caro faticò a ritrovare la voce. — Lavorate per Mark Olund? — gli chiese, vedendolo aggrottare la fronte. Quindi, dato che non rispondeva, si affrettò ad aggiungere: — Ditegli che non ho quello che cerca.

Lui tornò a sorriderle. — Non è un mio problema — disse. — Io sono stato pagato solo per scovarti e tenerti qui finché lui non arriva, cosa che succederà presto.

— Mi ascolti…

— Nulla di ciò che dirai mi farà cambiare idea, perciò risparmia il fiato. Te la vedrai direttamente con lui. E gli darai tutto ciò che vuole, stanne certa.

Caro guardò quegli occhi vuoti e spietati. Le ronzavano le orecchie. Il suo peggiore incubo stava per trasformarsi in realtà. Aveva cercato in ogni modo di sfuggirgli, ma aveva perso la partita.

Non era affatto certa di poter aprire la cassaforte della Bachmann. L’ultima volta che si erano incontrate l’aveva incitata a cambiare la sequenza d’immagini di default e impostarne un’altra, dicendole che era non solo ridicolo conservare quella di fabbrica, ma anche pericoloso. Poteva mettere a rischio l’incolumità e persino la vita di tecnici e addestratori, considerando chi erano i clienti e i segreti che simili casseforti contenevano. Ma Lydia era riluttante. Che stupida, nevrotica donnetta!

— Mi dicono che hai ammazzato uno dei miei colleghi — riprese il suo aguzzino. — Con un taglierino. Difficile credere che una come te sia riuscita in una simile impresa, però a quanto pare è vero. Ti stava scopando? Tanti abbassano la guardia in quei momenti, ma io no.

Sorprendendola, si chinò in avanti e le premette una mano sulla faccia, tappandole il naso. E quando Caro dovette aprire la bocca per respirare, la invase con la lingua, viscida, grande, disgustosa; l’affondò fino in gola e lei ebbe un conato. Allora il bastardo si ritrasse, ridendole in faccia. — Sei fortunata che Olund ti voglia integra. Ma quando avrà finito con te, dovrai vedertela con me. E poi con tutti gli altri.

Si alzò, andando verso la porta.

— Sempre che di te resti qualcosa — aggiunse dalla soglia. — Ho ben presente cosa può fare alla gente. Sa tutto della sofferenza e del dolore e credo che stavolta abbia in serbo qualcosa di speciale. — Una nuova, agghiacciante risata gli sfuggì. — Spero solo che mi lasci guardare.