16

La porta si chiuse. Caro vi appoggiò la fronte e sospirò. L’unico modo per mandarlo via era comportarsi come una stronza senza cuore. Era stato divertente, ma adesso aveva da fare. Per cui, grazie tante e arrivederci a mai più.

Era stato difficilissimo recitare quella parte. Già fremeva per rivederlo. Aveva voglia di urlare e spaccare tutto.

“Piantala” si disse. “Non puoi permetterti una crisi. Cresci, accidenti. Cresci!”

Ricordava bene cos’era successo a Tim. Un tipo tosto, almeno per gli standard della gente normale. Arti marziali, addestramento militare, porto d’armi. Aveva cercato di aiutarla. Mark e i suoi tirapiedi l’avevano catturato e torturato a morte.

Entrò nella minuscola doccia. Il rigagnolo d’acqua tiepida fece fin troppo presto a diventare ghiacciato, ma lei non vi badò. Si vestì meccanicamente e fece i bagagli, in modo da essere pronta a partire. Quello che non poteva portare con sé finì nella spazzatura. Viaggiare leggeri e non lasciare tracce: una regola fondamentale della sua attuale esistenza. Purtroppo, ne aveva infranta un’altra, e adesso doveva pagarne le conseguenze.

Il bus la portò in centro con una buona mezz’ora di anticipo. Farsi un giro a piedi non era una buona idea, dato che non aveva neppure perso tempo a camuffarsi, ma si sentiva troppo rabbiosa per badarci. Vagabondò senza meta, con la pioggerella di Seattle che le bagnava il volto senza trucco, i capelli. Al diavolo.

Tornò puntuale alla caffetteria, ma alle nove non c’era traccia di Bea. Si sedette a un tavolino e attese. I minuti parevano interminabili. Nove e dodici. Nove e venti. Finalmente, alle nove e tre quarti, scorse una piccola figura avvolta in una vecchia giacca a vento avvicinarsi alla porta. Il cappuccio alzato le impediva di capire se era Bea, ma poi intravide un volto pallido e tirato e una ciocca di capelli neri. Le fece cenno di raggiungerla e l’altra si avvicinò cautamente.

— Sei certa che non ti abbiano seguita? — le chiese la sua amica.

— Sì, per quanto sia possibile esserlo — rispose lei. — Lieta di vederti.

— Ho tenuto d’occhio la situazione per un po’, nascosta in un portone dall’altra parte della strada — le rivelò Bea. — Temevo che fosse una trappola.

— Come vedi, ci sono solo io. Vuoi un caffè? Qualcosa da mangiare?

— No. Non mangio praticamente nulla, ormai — rispose Bea. — Non da quando… sai, la storia di Luke.

— Neppure io — confessò Caro. — È come se avessi dei mattoni nello stomaco.

— Sì, conosco la sensazione. — Bea si sedette, lanciando un’occhiata nervosa al locale. — Todd continua a chiedermi di te. Credo sospetti che tu voglia coinvolgermi nel giro della coca. Quanto vorrei che fosse così semplice!

— Bea, non abbiamo molto tempo. Dimmi del video.

La vide passarsi una mano sul viso. Sembrava che avesse delle difficoltà a concentrarsi. — Luke era a Chicago per un servizio di sicurezza — cominciò. — Il suo capo aveva un appuntamento che all’ultimo minuto era stato spostato in un altro hotel. Ricordo che mi chiamò a colazione, imprecando perché questo avrebbe compromesso le misure di sicurezza. Si era portato una videocamera per registrare l’incontro, come faceva sempre, e mi diede la password per accedere al suo server, casomai gli fosse capitato qualcosa, chiedendomi di riferirla anche a suo fratello.

Un’amara risata le sfuggì. Caro cercò di stare calma.

— Ricordo di aver pensato che era una paranoia inutile, ma quel giorno stesso Luke scomparve e il suo capo venne trovato con una pallottola in testa. E così, mi collegai al server e scaricai il video.

— E l’hai visto?

— Sì. — Bea si guardò di nuovo intorno. — Non ho mai creduto al soprannaturale — continuò piano. — Ho sempre pensato che fossero idiozie. Ma poi ho osservato quel tizio dire qualcosa a Luke e lui è rimasto paralizzato. Sembrava si fosse trasformato in una statua, come per magia.

Caro ci pensò sopra. — Forse era stato drogato?

Bea scosse la testa. — So quello che ho visto. Quel tizio ha sparato al capo di Luke davanti ai suoi occhi. Lo prendeva in giro. Poi sono arrivati i suoi complici, hanno messo Luke in una cassa e l’hanno portato via. Lui era un esperto di sicurezza, conosceva ogni tipo di arte marziale, ma è rimasto immobile tutto il tempo.

— Hai mai dato quella password a suo fratello?

— No. Non ne ho avuto il coraggio. Sarebbe andato subito alla polizia — spiegò Bea sulla difensiva. — E questo equivaleva a dire a quel tizio che io sapevo tutto. Mi avrebbe uccisa, Caro. Senza dubbio teneva d’occhio Luke e la gente a lui vicina.

— Ma il video dimostra che Luke è innocente e che il colpevole è Mark. Perché non mostrarlo alla polizia? Così potranno catturarlo.

Bea scosse la testa. — Te lo sto spiegando. Sarebbe un suicidio. Qualche giorno dopo, qualcuno è entrato nel mio appartamento. Ha portato via il computer: sono sicura che era lui e che cercava il video. Solo per caso avevo nella borsa la chiavetta su cui l’ho salvato — le spiegò, tacendo un attimo e guardandosi intorno. — Da allora vivo nascosta. Ma se mi hai trovata tu, lo stesso può fare lui. Magari seguendo te.

Caro ignorò quell’ultima affermazione. Non c’era alcun bisogno di alimentare la paura di Bea. — Hai la chiavetta con te? Potrei duplicare il video.

— Sei impazzita? Non la porto certo con me — scattò Bea. — L’ho spedita al lago.

— Lago? Che lago? — le chiese Caro, la voce tesa per la frustrazione.

Bea scosse la testa. — Non posso aiutarti. Già la mia vita è difficile così com’è.

— Ma potremmo lavorare insieme — le ripeté Caro. — Quel tizio ha ucciso i miei amici. Voglio che sia fatta giustizia, ma per riuscirci ho bisogno di aiuto. E anche tu ne hai bisogno, quindi perché non ci sosteniamo a vicenda?

Bea gemette. — Tu non capisci. C’è qualcosa di…, non so, qualcosa di soprannaturale in quel tizio. La prigione non basta. Non saremmo mai al sicuro.

— Forse no — concesse Caro. — Per cui, dobbiamo ucciderlo.

Bea smise di colpo di agitarsi. La guardò allibita, poi disse: — Parli sul serio?

— Non sono un’assassina — le assicurò lei. — Ma sono stanca di vivere nel terrore. Voglio liberarmi di lui e se questo è l’unico modo… — concluse, scrollando le spalle. — Insomma, cos’abbiamo da perdere?

Bea si accasciò contro lo schienale della sedia. — Tu sei impazzita!

— Forse sì. Ma a questo punto non m’importa più di nulla. Sei con me oppure no?

Gli occhi di Bea si riempirono di paura, ma anche di cauta speranza. — Hai perso la testa. Tu mi farai uccidere.

— Siamo sopravvissute fino adesso. Riconosciti qualche merito.

— Hai già un piano? — le chiese Bea con un sussurro.

— Non ancora — ammise lei.

— Oh, questo è davvero incoraggiante! — esclamò l’altra, allungando il collo per osservare la strada e l’interno della caffetteria. — Oh, no! Ci stanno guardando!

Caro lanciò una rapida occhiata in giro. Sul marciapiede stava passando una giovane mamma col figlio nel passeggino. Un tizio grassottello approfittava del riparo offerto da una tettoia per mandare un messaggio col cellulare. Una coppietta seduta vicino alla vetrata si sbaciucchiava sopra due fumanti tazze di caffellatte. — Non mi sembra — le rispose. — Dimmi di questo lago.

— Non qui. Non possiamo stare qui. — Bea si alzò di scatto. — Vediamoci fuori. Mi avvierò lungo la strada.

Imprecando, Caro attese che uscisse, pagò il conto e la seguì, raggiungendola a metà dell’isolato. — Che lago, Bea? — incalzò. — Dimmelo e basta.

— Zitta! E non chiamarmi così. Sono Marika adesso.

— Okay, Marika. Dove hai mandato quella dannata chiavetta?

— Aspetta. — Bea puntò lo sguardo a destra di Caro. — Quei due ci seguono! — Lei fece per voltarsi, ma Bea le colpì il braccio. — Non guardarli, idiota! Ti hanno seguita. Ti hanno seguita, cazzo!

Prese a correre sul marciapiede affollato, mentre lei si girava cercando il tizio con la coda di cavallo. Non lo vide, ma poi si accorse di due uomini che si affrettavano verso di lei con degli auricolari nelle orecchie. Il modo in cui la guardavano, deciso, spietato, non lasciava dubbi sulle loro intenzioni.

Si diede alla fuga il più rapidamente possibile. Bea era già molto più avanti: la scorse lanciarsi in un incrocio trafficato, mentre arrivava un SUV

Freni e pneumatici stridettero. Vi fu un tonfo terribile e il corpo di Bea venne scagliato in aria. Caro gridò quando la vide atterrare sul parabrezza, mandandolo in frantumi. Poi rotolò a terra giusto un attimo prima che un’altra macchina inchiodasse. Ma non abbastanza prontamente: l’impatto fu così violento da spingere il SUV in avanti. Altri vetri rotti. Grida, urla, un concerto di clacson.

Cominciò a formarsi un folto capannello. Caro corse ancora più veloce, zigzagando tra le auto ferme, urtando la gente, fino a quando raggiunse Bea. Era adagiata sull’asfalto, le braccia aperte, gli occhi vitrei. I capelli su una parte del cranio erano uno scuro ammasso di sangue.

Cercò di avvicinarsi ancora, un grido d’orrore mozzato in gola. Un braccio la cinse alla vita. Si ritrovò sollevata a mezz’aria e allora prese a dibattersi, a scalciare…

— Calmati! Sono io. — Era la voce di Noah.

Caro smise di lottare, assolutamente confusa. — Come? Tu? Cosa ci fai…

— Prima liberiamoci di quei due — le disse, rimettendola a terra. — Corri!

— Ma non posso lasciare Bea.

— La tua amica è morta, Caro. — Noah la trascinò con sé e non appena si aprì un varco la sospinse in avanti. — Vai!

Il suo ordine risuonò secco come uno sparo. Caro si lanciò in una corsa frenetica attraverso le strade, i vicoli, i parcheggi. Lui la condusse dietro un palazzo in ristrutturazione, ancora circondato dalle impalcature, facendole cenno di nascondersi tra due camion parcheggiati contro un muro. Poi le strinse il volto e le diede un rapido bacio. — Stai qui. Non muoverti.

Lei tirò il fiato, annaspando. — Cosa vuoi fare?

— Sshh. Non una parola. Nasconditi. — La sospinse indietro tra i camion e si avviò in fretta nella direzione da cui erano venuti.

Caro restò immobile e confusa per un istante; quindi sentì qualcuno avvicinarsi di corsa e arretrò, infilandosi nello spazio tra i camion e il muro per guardare dall’altra parte e capire cosa stava succedendo.

Vi fu un tonfo, poi un grido, seguito da diverse imprecazioni. Rumore di pugni e qualcun altro che urlava. Si sporse un poco e intravide i due tirapiedi che la seguivano. Un altro stava arrivando di corsa.

Erano tre contro uno! Doveva aiutare Noah, adesso.

A terra c’erano delle sbarre di ferro arrugginite. Ne prese una e per buona misura raccolse anche un mattone. Tornò dietro il camion: i passi si facevano sempre più vicini, il trambusto della lotta più forte. Si preparò a colpire…

Sì! Uno degli aggressori finì a terra davanti a lei. Caro balzò fuori e si avventò su di lui urlando mentre gli abbatteva il mattone sulla testa. Ma il tirapiedi si voltò e alzò la mano per deviare il colpo: ci riuscì solo in parte e un nuovo grido di dolore gli sfuggì. Provò a centrarla con un pugno e Caro indietreggiò… Accanto a lei vi fu un improvviso movimento. Venne sollevata e posata più lontano, poi vide Noah avventarsi sull’uomo a terra e tirargli un tremendo gancio in faccia. In un baleno spezzò il braccio dell’assalitore, gli fracassò un ginocchio col tallone e lo finì con un colpo al torace.

Il tirapiedi restò immobile, il volto una maschera di sangue, braccio e gamba piegati a un’angolazione innaturale.

Caro alzò lo sguardo. Noah non era neppure spettinato. Un’occhiata dietro le sue spalle rivelò gli altri due aggressori stesi a terra, più o meno nelle stesse condizioni del primo.

Lasciò cadere la sbarra e lui le strinse un polso. — Dovevi restare nascosta! — tuonò.

— Non sono sopravvissuta in questi mesi facendo ciò che mi dicevano gli altri.

Riuscì a cogliere un cenno d’apprezzamento prima che la prendesse per mano e si avviasse. — Andiamo via di qui.

— Agli ordini.

Ripresero a correre e s’infilarono in un magazzino. Lui la trascinò nell’enorme sotterraneo e lo attraversò fino a fermarsi davanti a un montacarichi. Caro non aveva idea di dove fossero, ma Noah sembrava saperlo. Premette il pulsante e mentre aspettavano la cinse tra le braccia, stringendola forte. Lei sentiva il battito del suo cuore nelle orecchie e il suo calore che la avvolgeva. Nulla poteva confortarla di più.

Purtroppo, adesso che la situazione si era calmata, l’intera sequenza di eventi prese a scorrerle in testa. Bea catapultata per aria. Bea stesa a terra, sanguinante e immobile. Con un gemito, affondò il volto nel torace di lui.

— Stai bene? — le chiese Noah, rafforzando la stretta.

— Sì.

Lui borbottò poco convinto, ma le porte del montacarichi si aprirono. Salirono al piano superiore e Noah riprese a marciare, con lei che lo seguiva cercando di non inciampare. Alla fine si ritrovarono all’esterno, sotto una gelida pioggerella che le diede la pelle d’oca; proseguirono in un dedalo di vicoli e all’improvviso Caro sentì scattare le sicure delle portiere di una macchina. Svoltarono l’angolo e vide la Porsche.

— Cintura — disse Noah non appena salirono. E mentre lei armeggiava con quel dannato aggeggio, infilò le chiavi nel quadro e accese la macchina.

Solo quando svoltarono in un viale Caro si accorse delle macchie scure che lui aveva sulla manica della giacca. — Noah, ma sei ferito!

— Non è mio il sangue — le assicurò.

Sollevata, Caro si appoggiò allo schienale. — Come diavolo hai fatto a… a…

Un sorriso enigmatico gli piegò le labbra. — Oh, non è stato nulla di eccezionale. Erano solo in tre.

— Solo in tre? — ripeté lei, stupefatta. Solo in tre un corno! — Ho capito. Una volta facevi parte di qualche corpo speciale. È per questo che hai tutte quelle cicatrici?

— Questo non è il momento di fare domande. Ti sto portando a casa mia. E stavolta parleremo.

— Non credo proprio — gli rispose, convinta. — Rallenta. Voglio scendere.

— No, Caro. Devi dirmi chi ti sta cercando e perché.

Lei sprofondò nel sedile, troppo esausta per protestare. E anche troppo confusa: si sentiva sciogliere per lui fin da quando l’aveva visto, ma adesso si rese conto con un fremito rivelatore di non averlo mai davvero visto.

Non fino a quel momento.

— Fuggita? — gridò Mark al cellulare. — E come diavolo ha fatto?

Carrera si schiarì la voce ed esitò. — Ho mandato a prelevarla tre dei miei uomini migliori. Ma è intervenuto un tizio. Combatteva come una furia e li ha colti di sorpresa.

— Tu però non sei andato.

— No.

— Tre professionisti addestrati e armati e lei è riuscita a fuggire. Di nuovo. — Mark sentiva il programma di combattimento girare a pieno ritmo, con quel fastidioso, nauseante ronzio. — Dove sei adesso?

— All’ospedale — ammise Carrera. — Due dei ragazzi hanno un ginocchio e un braccio fratturati…

— Cosa vuoi che me ne freghi? — tuonò Mark. — Perché non sei fuori a cercarla?

— Stavo giusto…

— Uscendo da quel dannato ospedale? Buona idea — disse lui, stavolta con voce bassa e letale. — Datti da fare. Trovami Caroline Bishop.

— Sì, cercherò di…

— E stavolta non fatevi sorprendere! — Mark infilò il cellulare in tasca, sforzandosi di riprendere il controllo. Gli ci volle qualche minuto per riuscirci, poi tornò a dedicarsi a ciò che stava facendo: testare il prodotto.

La cava abbandonata che aveva scovato serviva egregiamente allo scopo, chiusa com’era su tre lati e lontana dalla strada e dalle case. Non c’era nessuno nel raggio di diversi chilometri e i suoi sensi potenziati non avevano trovato neppure una fonte di calore. Non vedeva l’ora di partire per Seattle e prelevare Caroline, ma doveva essere realistico. Qualcuno era intervenuto, permettendole di fuggire. Una volta attivati tutti gli schiavi soldato, gli avrebbe scatenato contro milleduecento assassini addestrati. Meglio studiare le tecniche di controllo, almeno per ora.

Afferrò il coperchio della cassa, fissato con i chiodi, e lo strappò via con rabbia. Poi estrasse l’unità di controllo degli schiavi. Non era granché elegante come progettazione, giusto un grosso, ingombrante elmetto. L’attivatore andava inserito in una consolle d’amplificazione portatile che inviava i comandi via wireless dritti agli impianti inseriti nei cervelli degli schiavi.

Con quel dispositivo era possibile gestire diversi schiavi contemporaneamente. Inoltre, prevedeva svariate modalità di combattimento. C’era anche la FMC, Fine Motor Control, una diavoleria che forniva al comandante il totale controllo sul sistema nervoso del soldato, ma per sfruttarla ci volevano ulteriori istruzioni e attrezzature. Troppo complicata per adesso. L’avrebbe studiata in seguito.

Fremeva dalla voglia di vedere cos’era capace di fare il suo giocattolo.

Lanciò un’occhiata fuori dal furgone. Brenner era in fondo alla cava e stava sistemando i due manichini che lui aveva recuperato nel caveau di Kitteridge. Erano in gomma morbida, per simulare la carne, e avevano persino sangue finto che scorreva in condotti chirurgici. Uno raffigurava una giovane donna, l’altro una bambina di cinque anni con una bambola sottobraccio, un dettaglio che lui trovava perverso e stimolante. Quei bastardi della Obsidian si credevano molto in gamba!

Una volta finito di sistemarli, Brenner restò lì a guardarli. Nella sua firma energetica, all’altezza del fegato, pulsava un malsano bagliore grigioverde. Era paura.

La rabbia di Mark tornò a divampare, davanti a quel nuovo segno di progettazione difettosa. Gli schiavi non dovevano provare alcun sentimento, solo un entusiastico desiderio di servire il loro comandante. Ma lui intendeva correggere l’errore a modo suo.

Si avvicinò a Brenner e studiò le modalità offerte dall’amplificatore. Quella che lo allettava di più era indicata con TOT DES. Total Destruction. La distruzione totale premendo un tasto. Gli piaceva.

Indicò il manichino della donna. — Il tuo primo obiettivo — gli disse. — Vai!

Premette il tasto e l’effetto fu immediato. Brenner gettò indietro la testa e ruggì come un leone, poi si lanciò sul manichino, lo scaraventò a terra e cominciò a strappargli gli arti, per poi staccargli la testa. Il sangue finto, che circolava sotto pressione, schizzò fuori a fiotti, inzuppandolo da capo a piedi.

Dopo averlo fatto a pezzi, Brenner si avventò sul manichino e iniziò a sbranarlo.

Mark era così ipnotizzato dallo spettacolo da lasciarlo fare per un po’. La Bachmann l’aveva avvertito che tenere troppo a lungo gli schiavi nella modalità di distruzione totale poteva danneggiarli, ma forse un tuffo nella ferocia assoluta sarebbe servito a rimettere in riga Brenner. Stava sbranando quella donna come un cane rabbioso. Mark annuì soddisfatto e schiacciò il tasto STOP.

Brenner crollò di schianto, annaspando tra le pietre della cava.

Quando la sua firma energetica tornò normale, Mark gli ordinò di alzarsi e indicò il manichino della bambina.

— Il tuo secondo bersaglio — gli disse. — Vai!

Premette di nuovo il tasto TOT DES e Brenner partì all’assalto ruggendo come prima, ma poi barcollò e si fermò. Sembrava bloccato da un muro: muoveva le braccia e chiudeva le dita in cerca di un bersaglio da fare a pezzi, però non avanzava.

Mark imprecò ferocemente. Che schifo di programmazione! Quell’essere inutile riusciva ancora a resistere agli ordini. E insistendo, si rischiava di attivare l’autodistruzione, e allora tutte le sue fatiche sarebbero state inutili.

Annullò il comando, estrasse l’attivatore e lo impostò sulla sofferenza massima.

Lasciò che Brenner urlasse e si contorcesse per almeno dieci minuti. Quasi non gli importava più di danneggiare il giocattolo. Quindi pose fine alla punizione, gli concesse un attimo per tirare il fiato e indicò di nuovo il manichino. — In piedi! — tuonò. — Quello è il tuo bersaglio. Vai.

Premette il tasto sull’amplificatore e Brenner balzò sulla bambina con un grido rauco. Cominciò a farla a pezzi, ma le urla che lanciava non avevano nulla di trionfante. Erano grida di dolore e disperazione.

Mark lo studiò attentamente e dopo un po’ decise che, purché funzionasse, Brenner poteva soffrire quanto voleva. I suoi conflitti personali erano irrilevanti finché la programmazione teneva. E, a quanto pareva, era così. Perciò andava tutto bene.

Attese con sommo divertimento che l’assalto si esaurisse e quando la bambina fu ridotta a un sanguinolento, irriconoscibile ammasso di carne e ossa, annuì e lo fermò.

Un silenzio inquietante calò nella cava. Persino gli uccellini non cantavano più.

— Vai laggiù e lavati — ordinò Mark, indicando la pozza in fondo alla cava. — Ci sono degli abiti puliti nel furgone.

Brenner si alzò in piedi. — Callie — gracchiò, la voce bassa e rauca.

— Ti ho detto di scordartela — ringhiò Mark. — Se fosse qui, ti ordinerei di ucciderla. E tu lo faresti, quindi chiudi il becco e vai a pulirti!

Brenner lo guardò. I suoi occhi azzurri erano un concentrato di puro odio.

Ma a Mark non dava fastidio. L’odio andava bene. L’odio ti mandava avanti.

Nessuno lo sapeva meglio di lui.