14

Dalle città insostenibili alle città resilienti

Se gli agricoltori sono gli osservatori più attenti dei cambiamenti climatici perché li vivono sulla propria pelle e sulle proprie attività, sono le città i luoghi in assoluto più vulnerabili. Per varie ragioni: perché sono più densamente popolate. Perché hanno infrastrutture meno attrezzate all’adattamento. E perché sono, per loro stessa natura, luoghi poco sostenibili: consumano grandi quantità di energia e di risorse senza generarne alcuna.

Ragionando in termini di «impronta ecologica», l’indicatore che misura il territorio usato da una determinata popolazione per ottenere le risorse che consuma e smaltire i rifiuti che produce, le città sono autentici parassiti: occupano il 2 per cento della superficie terreste, assorbendo il 75 per cento delle risorse globali e scaricando nell’ambiente la stessa quantità di rifiuti.

La loro responsabilità sul cambiamento climatico è pure gigantesca. Secondo un team internazionale che ha preso in esame tredicimila città in tutto il mondo, i cento maggiori centri urbani del pianeta sono responsabili del 18 per cento delle emissioni totali di gas climalteranti.39 Ovviamente questo accade perché la maggioranza della popolazione mondiale vive in città: oggi, secondo stime delle Nazioni Unite, il 55 per cento degli esseri umani è concentrato in aree urbane; una percentuale destinata a salire al 68 per cento entro il 2050.40 Cent’anni fa la città più grande del mondo era Londra e aveva 6,5 milioni di abitanti. Oggi la capitale britannica non è nemmeno tra le prime trenta. La prima megalopoli del pianeta è Tokyo, la cui area metropolitana conta 37 milioni di abitanti. Seguono New Delhi (29 milioni), Shanghai (26 milioni), San Paolo e Città del Messico (22 milioni). Una tale concentrazione di persone richiede un gigantesco sforzo logistico e organizzativo, anche perché questi cittadini per la loro stragrande maggioranza non sono produttori di cibo ma puri consumatori: basti pensare che, se ogni abitante della Grande Area di Tokyo dovesse consumare un uovo al mattino, sarebbe necessario far entrare in città 37 milioni di uova ogni singolo giorno.

In confronto alle grandi megalopoli asiatiche, africane o del Sudamerica, i nostri agglomerati urbani sono piccoli villaggi: nella classifica globale, Roma, la città italiana più popolosa, è posizionata ottantanovesima, subito dopo una serie di metropoli cinesi che molti di noi non avranno mai sentito nominare, come Changsha, Kunming, Changchun, Xinbei e Shantou.41 Ma non per questo le nostre città sono meno esposte agli effetti dei cambiamenti climatici. Se l’Italia è un hotspot, gli effetti di questa maggiore esposizione si misurano anche sui suoi centri urbani, che subiscono l’impatto di quell’incredibile aumento di fenomeni estremi segnalato dallo European Severe Weather Database: sempre più frequentemente le piogge torrenziali fanno esondare fiumi e torrenti, fasi di caldo estremo aumentano i decessi per malattie cardio-respiratorie, venti di forte intensità sradicano alberi e manufatti, diventando anch’essi potenziali fattori di rischio.

A differenza di chi vive in campagna, chi abita in città percepisce il mutamento in modo più frammentario, meno virulento, un po’ perché la sua attività lavorativa non è direttamente legata alle incertezze del clima, e quindi subisce disagi temporanei ed episodici, un po’ per quel consueto meccanismo di rimozione che spinge a ignorare un problema di difficile soluzione finché questo non si mostra in tutta la sua imprescindibile evidenza.

In generale le città saranno sempre più esposte a ondate di calore e fenomeni estremi. E in realtà già lo sono, come mostra un’interessante infografica realizzata dal «New York Times» su elaborazioni di dati del Climate Impact Lab, un gruppo di ricerca interdisciplinare che studia gli impatti dei cambiamenti climatici.42 L’infografica proposta dal giornale statunitense interpella ognuno di noi con una semplice domanda: «Quanto è più calda oggi la tua città rispetto a quando sei nato?».43 Ebbene, nell’anno della mia nascita, quarantacinque anni fa, a Roma c’erano in media sette giorni in cui la temperatura superava i 32 gradi centigradi. Oggi ce ne sono trentadue. Nel 2054, ce ne saranno tra i quaranta e i sessanta. Altre città sono ancora meno fortunate: Giacarta, che negli anni Sessanta aveva quattro mesi di temperature eccedenti i 32 gradi, alla fine del secolo le avrà per tutta la durata dell’anno. E si tratta di stime prudenti, che hanno considerato il cosiddetto «scenario 4,5» dell’IPCC, con aumenti di temperatura nel 2100 intorno ai 2 gradi rispetto al periodo preindustriale.

Queste stime ci dicono quanto sia sempre più urgente riflettere sul futuro delle città e sul loro duplice ruolo nel produrre cambiamento climatico e nel subirne prioritariamente le conseguenze. Riflessione che si sta sviluppando in tutto il mondo e che in Italia trova espressione in alcuni piani di adattamento che le amministrazioni comunali più attente hanno elaborato e applicato negli ultimi anni.

Una delle più all’avanguardia da questo punto di vista è Milano, che sta portando avanti un’azione tesa ad assorbire gli urti del clima ripensando nel complesso le sue politiche edilizie, i trasporti, l’intera organizzazione dello spazio urbano. La mente dietro questo processo è Piero Pelizzaro, che dal 2017 ricopre il titolo altisonante di Chief Resilience Officer della città di Milano, ossia di consigliere del sindaco incaricato di elaborare strategie per aumentare la resilienza della città nel nuovo contesto. Piero si occupa da più di dieci anni di adattamento. Ha dato il suo contributo ai principali piani climatici delle città italiane: da Bologna a Mantova, da Reggio Emilia a Torino, da Padova alla regione Abruzzo. Di formazione economista, si è specializzato allo Stockholm Environment Institute sotto la guida del guru della resilienza Johan Rockström. Si è quindi dedicato a questo tema, prima come esperto del terzo settore in alcune Ong, poi come libero professionista in Climalia, una società di servizi da lui co-fondata, ora come responsabile della resilienza a Milano. Non ancora quarantenne, fa parte di quella generazione cosmopolita, aperta al futuro, pienamente europea, che nel nostro Paese ha difficoltà a trovare un reale spazio d’azione e che spesso decide di mettere a frutto le proprie competenze all’estero, ingrossando le fila dei cosiddetti «cervelli in fuga». «Per quanto orribile sia l’espressione, mi posso definire un cervello di rientro» dice lui ridendo mentre discutiamo delle prospettive della città metropolitana di Milano nel suo ufficio in pieno centro a due passi dal Duomo.

Poiché la sua è una figura nuova, ha avuto difficoltà a far capire ai colleghi quali fossero le sue competenze e cosa fosse stato chiamato a fare. Anche perché è piombato sull’amministrazione comunale come un meteorite dallo spazio: il ruolo di Chief Resilience Officer è emanazione di un progetto della Fondazione Rockefeller su cento città resilienti in tutto il mondo, che inizialmente ha sostenuto l’operazione, pagando anche il suo stipendio. Più che come una figura esterna alla macchina del comune, lui si considera un facilitatore di politiche innovative. Ed è anche per questo che ha scelto di non avere un bilancio ad hoc, ma di usare le risorse dei vari assessorati, in modo da coinvolgere tutta l’amministrazione nel percorso che è chiamato a condurre. Perché questo è secondo lui un prerequisito per la resilienza: «Rompere i silos all’interno dei quali siamo confinati e diventare consapevoli della nostra interdipendenza».

Piero è dovuto partire da zero. Per Milano, come per la quasi totalità delle città e del territorio italiano, non esisteva un quadro conoscitivo, un profilo climatico locale che tenesse conto della storia passata e delle proiezioni future. Questo è stato il primo passo che ha compiuto, mutuando un’esperienza pilota condotta in Emilia-Romagna. Ha quindi ottenuto una fotografia molto esaustiva dello stato della città metropolitana, con temperature, piovosità, eventi estremi. Me la illustra, aggiungendo una previsione modellistica al 2050, con l’ausilio di alcune mappe.

Ancora una volta, come è capitato con le carte della Sicilia che mi ha fatto vedere il professor Piccione o con quelle di scale di temperature mostrate dal fisico Michele Brunetti al Cnr di Bologna, le immagini sono perturbanti: si vede la città immersa in una grande morsa rossa, con piccole parentesi blu sparse qua e là. «Dal 1901 a oggi la temperatura media a Milano è aumentata di circa 2 gradi centigradi, più di quella globale, che si è fermata a più 1,2. E si stima che da qui al 2050 potrebbe crescere di ulteriori 2 gradi. Vuol dire che dal 1901 al 2050 si potrebbe registrare un aumento medio della temperatura intorno ai 4 gradi centigradi.» Il dato mette Milano in testa a tutte le classifiche nazionali: è la città che si riscalda più velocemente e quella con le prospettive di maggior incremento. Questo record è determinato da una serie di fattori, di carattere sia morfologico sia urbanistico: l’agglomerato urbano è compatto, intensamente occupato da edifici di cemento, oltre a essere lontano dall’azione mitigatrice del mare. Inoltre ha un’incredibile densità di popolazione, che è anche in costante aumento: «Producendo l’11 per cento del Pil nazionale, Milano ha un’incredibile forza attrattiva: ogni anno richiama trentamila persone in più, che vanno ad affollare una città poco estensibile».

A quanto si vede dalle sue mappe, le temperature in superficie variano in estate dai 27 ai 41 gradi. Ma il dato diventa parecchio più allarmante se si spacchettano le misurazioni a livello dei vari componenti. «Abbiamo verificato in alcune aree della città che, quando un muro di un edificio arrivava a 35 gradi, si toccavano i 50 misurando l’asfalto, e addirittura i 70 o 75 gradi sulle autovetture parcheggiate.» Sono le cosiddette «isole di calore»: l’asfalto nero trattiene i raggi solari e fa aumentare la temperatura, così come le macchine ferme, che sono veri e propri termosifoni di ferro. Tutte le città hanno un microclima più caldo rispetto alle circostanti zone periferiche e rurali, tanto che ormai le rilevazioni sono sdoppiate e indicano le stazioni in centro città distinte da quelle in aree extraurbane. Per un agglomerato di medie dimensioni, si stima che tra centro cittadino e zone rurali si possano registrare anche 5 gradi di differenza, che diventano 10 nelle grandi città.

«È su questi aspetti che dobbiamo agire, utilizzando altri materiali per la costruzione di edifici e strade, riducendo il numero di autovetture in circolazione, sviluppando insomma una città meno soggetta alle isole di calore.» È per questo che Piero ha lanciato il progetto ForestaMi, che prevede la piantumazione nell’area metropolitana di Milano di tre milioni di alberi entro il 2030, per assorbire CO2 e al contempo rinfrescare l’aria. È per questo che il comune ha finanziato la creazione di tetti verdi e di pareti di piante lungo le facciate dei palazzi, favorendo la riproduzione su più ampia scala del famoso Bosco verticale creato dall’architetto Stefano Boeri al Centro direzionale. «Gli alberi in generale contribuiscono a migliorare la qualità dell’aria e ridurre la temperatura nell’arco dell’anno.» Ed è anche per questo che oggi le ristrutturazioni di case e palazzi devono avvenire secondo un criterio di riduzione di impatto climatico che prevede proprio l’installazione di tetti e pareti verdi, debitamente sostenuti da bonus fiscali e incentivi comunali.

Altro nodo centrale è quello della mobilità, che va ripensata nell’ottica di rendere l’automobile privata un elemento estraneo al panorama urbano. «Tutte queste macchine sono insostenibili, sia dal punto di vista della città, perché la riscaldano furiosamente, sia dal punto di vista individuale. Da economista io dico una cosa: chi compra oggi un’auto fa un investimento pessimo, anche perché nella maggior parte dei casi questa rimane per l’80-90 per cento del tempo ferma. E produce calore.» Così il comune sta incentivando il trasporto pubblico, quello ciclabile o quello in condivisione. Lo fa in modo non punitivo e senza dichiarare guerra aperta alle macchine, mediante una trasformazione graduale degli spazi urbani: strutture per il bike sharing e spazi verdi sostituiscono i parcheggi. Piazze pedonali modulano un nuovo vissuto cittadino dal quale pian piano le automobili sono espulse.

Piero è consapevole che i suoi discorsi si scontrano con abitudini consolidate, mentalità plasmate da decenni di individualismo e una cultura urbana tradizionalmente non molto attenta al bene comune, oltre che poco incline a ragionare sugli effetti immediati della crisi climatica. Così, moltiplica i suoi interventi, tenta di coinvolgere la cittadinanza, si impegna a fondo in questa sua battaglia. «Cerchiamo di costruire un percorso il più possibile partecipato.» Nel suo ruolo di stratega della resilienza urbana, pone poi un’attenzione particolare a un’altra questione che considera cruciale: che il processo sia equo. «Perché se non lo governiamo, il rischio è che si sviluppi una gentrificazione climatica: chi ha le possibilità finanziarie, andrà a vivere in luoghi meno esposti, si doterà di strumenti di adattamento. Chi è più povero si beccherà gli effetti delle isole di calore, delle piogge alluvionali, dei venti.» Per rendere l’idea, mi mostra un altro grafico: si vede una linea ascendente che mostra l’incremento di notti tropicali, quelle cioè in cui la temperatura supera i 21 gradi. «Negli ultimi cent’anni, siamo passati da quindici a cinquanta notti tropicali l’anno. Chi ha i soldi, non avrà disagi perché installerà un impianto di aria condizionata. Chi ha meno disponibilità invece soffrirà. Noi dobbiamo fare in modo che non soffra nessuno e che il caldo sia mitigato con azioni sull’arredo urbano e sull’edilizia.»

A sentirlo, pare un visionario. Sembra anni luce avanti rispetto a una politica che stenta a riconoscere il problema, che si esprime spesso per sentito dire, e che al massimo elabora risposte tiepide, del tutto inadeguate rispetto all’entità della sfida. Anche lui parla di un processo di generale rimozione, quasi di amnesia collettiva. E pure lui cita l’ondata di calore del 2003: «In Europa ci sono state 70.000 vittime, più morti di una guerra. Eppure nessuno se ne ricorda».

Piero non è un catastrofista. Al contrario: è un pragmatico ottimista. Crede nella capacità di resilienza dei sistemi complessi come quello umano ed è convinto che questa crisi possa essere un’occasione per ripensare un modello di sviluppo che sta mostrando i suoi limiti. Pensa però che per uscire dal vicolo cieco, per invertire la tendenza, bisogna cambiare attitudine: infondere fiducia, ricreare un senso di comunità, ridare un significato pieno al concetto di bene comune. «Spesso in questo Paese si parla all’infinito dei problemi che ci affliggono. Sarebbe bello mutare prospettiva e cominciare a guardare avanti: immaginare soluzioni.» Milano sta provando a farlo, con tutte le difficoltà che questo comporta. Il percorso non è lineare, ma lungo e accidentato. È anche una corsa contro il tempo: perché bisogna adattare le città a trasformazioni repentine, immaginare nuove modalità di gestione degli spazi urbani, nuovi sistemi di trasporto, persino una nuova organizzazione del lavoro. Insomma, un mutamento totale di paradigma, che sia all’altezza della sfida che ci attende nei prossimi anni, e che probabilmente non abbiamo ancora compreso fino in fondo.

Sorradile, il borgo ultra sostenibile nella Sardegna interna

Milano è la capofila di una rete di città che in varia misura stanno immaginando politiche di adattamento e di contrasto al clima che cambia. Costituito nel 2019, questo «Green City Network» riunisce vari capoluoghi di provincia e centri di minori dimensioni sparsi per tutta la penisola. Ci sono tra gli altri Parma, Pordenone, Bari, Venezia, Torino, Napoli, Cisterna di Latina, Casalecchio di Reno. E poi c’è Sorradile, un borgo di quattrocento anime in provincia di Oristano, nella Sardegna più profonda e selvaggia. Incastonato in mezzo all’Altopiano del Barigadu, tra colline di querceti e macchia mediterranea, il paese è una finestra naturale e incantevole sul lago Omodeo, che con i suoi 29 chilometri quadrati è l’invaso artificiale più grande d’Italia, nato da una diga costruita negli anni Venti.

Lo raggiungo in macchina con Paolo Capece, un agronomo dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa), che a Sorradile sta creando un «giardino fenologico», un particolare orto botanico in cui l’evoluzione di alcune specie vegetali viene utilizzata come strumento di studio dei mutamenti climatici. Paolo è un esperto di fenologia, la scienza che studia il rapporto tra fattori climatici e manifestazioni stagionali delle specie vegetali. Si è formato in Giappone, dove questa disciplina è molto sviluppata anche in virtù del culto nazionale per l’hanami, la stupenda fioritura dei ciliegi che ogni primavera è accolta con entusiasmo dal Paese intero. In pratica, mi spiega, «la fenologia analizza il modo in cui la temperatura, le precipitazioni, l’umidità, le radiazioni solari influiscono sul germogliamento, sulla fioritura, sullo sviluppo dei frutti». Il giardino di Sorradile che mi sta portando a vedere servirà proprio a questo: monitorare l’andamento delle piante a queste condizioni di altitudine, latitudine ed esposizione e confrontarlo con quello di loro cloni in analoghi giardini in tutta Europa.

Per raggiungere questo paesino sperduto impieghiamo quasi tre ore. E non perché sia particolarmente lontano. Ma perché, per una beffarda ironia del destino, finiamo nel mezzo di un evento estremo. È un giorno di pioggia intensa, che riduce la visibilità e rallenta il traffico. Sulla statale che collega Sassari a Oristano, procediamo a passo d’uomo. Dopo un po’ rimaniamo bloccati: le macchine davanti a noi sono immobili. Alcune tornano indietro, viaggiando contromano sulla corsia di sorpasso e creando un groviglio presto inestricabile. La situazione è uno stallo completo, in cui siamo tutti fermi dentro gli abitacoli senza capire cosa stia realmente accadendo. Dopo circa mezz’ora, una pattuglia della polizia municipale ci intima di fare dietrofront e anche piuttosto in fretta, perché poco più avanti un fiume è esondato. Ci mettiamo quindi anche noi contromano sulla statale tra le auto in fuga e prendiamo una strada molto più lunga ma decisamente più sicura per raggiungere il paesino dell’entroterra.

Quando arriviamo, ancora diluvia. Paolo mi fa vedere il giardino. È uno spazio di circa 500 metri quadrati, che affaccia sul lago e che entrerà in funzione proprio la settimana successiva alla mia visita. Sono già stati approntati i camminamenti per i visitatori, le aiuole, le barriere frangivento. Mancano solo gli alberi, che stanno arrivando dalla Germania. Ogni componente deriva infatti da piante madri conservate in un giardino centrale a Berlino. L’insieme di questi cloni costituisce una rete di osservazione: dallo studio dell’andamento di questi alberi identici alle varie latitudini possiamo ricavare dati importanti sul clima generale. Osservando poi il mutamento anno per anno dei comportamenti in ogni giardino, otteniamo una serie climatica di un determinato luogo. «Le piante non mentono e sono molto più affidabili degli esseri umani. I loro stati fenologici sono indicatori precisissimi.»

Questo monitoraggio permette di costruire un profilo dei cambiamenti climatici del territorio. «Se una pianta fiorisce prima, vuol dire che il clima è cambiato» mi spiega. Io lo ascolto e cerco di immaginare questo giardino che ancora non c’è, in cui le singole specie vegetali dovranno svolgere le stesse funzioni degli astrusi strumenti che mi ha mostrato Luigi Iafrate a Roma in cima alla torre Calandrelli. Capece mi conferma che il paragone non è incongruo: «Devi pensare che questa sarà una stazione meteo-climatica con le radici».

Finita la visita, saliamo al paese. Il borgo è incassato sul fianco di una collina e risplende nella sua parte antica di sfumature rosse di trachite, la roccia vulcanica del luogo una volta usata nell’edilizia. La vista spettacolare sul lago è oggi un po’ sbiadita dalla giornata avversa. Lungo la strada principale sorge il municipio, dove vado a incontrare il sindaco. Pietro Arca è un signore distinto, sulla settantina, dal lungo percorso politico: dopo aver guidato il comune di Oristano negli anni Novanta, è tornato a Sorradile, e oggi è al suo terzo mandato da primo cittadino. Negli ultimi dieci anni, è riuscito a proiettare questo minuscolo borgo in prima fila tra i comuni impegnati nell’adattamento ai cambiamenti climatici. Mi racconta con entusiasmo le tappe di questo percorso, davvero stupefacente per un paese di poche centinaia di abitanti, affetto come tutte le aree interne dai mali dello spopolamento e dell’assenza di lavoro. Sorradile è stato il primo comune della Sardegna a stilare un piano di adattamento e un bilancio ambientale. Ha sviluppato politiche di risparmio idrico, di raccolta differenziata e di recupero dei rifiuti. Ha aderito alla rete europea contro i pesticidi e al circuito delle città verdi. E ha accolto con entusiasmo la proposta del giardino fenologico ideato da Capece.

Arca è un politico navigato. Sa che la sensibilità ambientale può essere elemento distintivo. Permette di attrarre turismo e risorse europee, che sono quelle con cui ha potuto realizzare i vari progetti. Ha capito che la sfida climatica è enorme e ineludibile, ma può essere anche un’opportunità per creare sviluppo e occupazione. «Bisogna interpretare lo spirito del tempo. Capire che la tutela del clima porta lavoro oltre che benessere.»

Il sindaco mi racconta soddisfatto dei benefici di una politica di attenzione all’ambiente, della valorizzazione della biodiversità, di come la qualità della vita sia aumentata nel suo paese, che conta diversi centenari e ha indici di longevità altissimi. Non considera il suo comune troppo piccolo per pensare in grande. «Siamo come nani sulle spalle di quei giganti che sono la nostra storia, la nostra cultura, i nostri bellissimi paesaggi.» Ma il suo messaggio ha difficoltà a decollare nei paesi vicini. Invitato a convegni in tutta Italia, è guardato con una certa indifferenza dalle sue parti. «Continuo tuttavia a sperare che il nostro caso possa fare scuola e servire da esempio per altri.»

Con le sue casette rosse, l’aiuola curatissima che ti accoglie in una rotatoria all’ingresso, il giardino fenologico che affaccia sul lago, Sorradile ha scelto l’adattamento per guardare al futuro. È una scelta virtuosa perché in controtendenza rispetto al sentire comune: il contrasto ai cambiamenti climatici non è vissuto come un costo, ma come una risorsa; la sostenibilità ambientale un valore da rivendicare con orgoglio, non un peso sulle finanze cittadine.

Poi ovviamente Sorradile non ha gli stessi problemi di Milano. Non deve fronteggiare le isole di calore, il sovrappopolamento, l’eccesso di automobili. Non ha una popolazione che aumenta di trentamila unità ogni anno. Eppure, in un certo senso, le due realtà hanno un punto che le accomuna: Milano vuole servire da esempio per le grandi città, Sorradile per i borghi delle aree interne. L’opera di Arca si muove nello stesso solco di quella di Pelizzaro: entrambi lavorano per un futuro più sostenibile. Ognuno nel suo specifico contesto. Ognuno con le difficoltà della sfida, enormemente più ampia per una metropoli come Milano, diversamente complessa, in quanto più marginale, per un paesino come Sorradile. Ma l’una e l’altro hanno la stessa ambizione: che il loro lavoro serva da apripista per un’azione che diventi davvero collettiva.

Il piano di adattamento che non vede la luce

A fronte delle strategie locali messe in piedi da Milano e da vari altri comuni fino al piccolo Sorradile, spicca l’assenza di una cabina di regia nazionale per affrontare quello che è universalmente considerato il maggiore pericolo dei nostri tempi. In questo processo di rimozione collettiva che coinvolge buona parte dell’opinione pubblica e dei responsabili politici, l’Italia appare oggi imprigionata in una bolla di immobilismo del tutto inadeguata rispetto all’urgenza della situazione.

Nessuna strategia operativa è stata messa in moto, nessuna pianificazione è stata avviata. Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), un documento di quattrocento pagine elaborato nel 2017, giace per ora sepolto in qualche cassetto al ministero dell’Ambiente.44 Tra i diciassette Stati europei che hanno già messo in campo un’azione coordinata contro l’emergenza non c’è il nostro, che pure è uno di quelli più toccati dal fenomeno. Se non, come abbiamo visto, il più toccato: perché è più esposto agli eventi estremi che aumentano. Perché conosce incrementi di temperatura più marcati che altrove. Perché le nostre città sembrano destinate a diventare fornaci: secondo una ricerca di un team internazionale, fra soli trent’anni Milano e Torino avranno lo stesso clima di Dallas.45

Sembra una reazione controintuitiva: tutti gli studi indicano che bisogna intervenire con tempestività se si vuole evitare il peggio. Eppure nel nostro hotspot nazionale si fa poco o nulla per invertire la tendenza e adattarsi alla nuova situazione. Gli effetti degli eventi estremi rischiano di esacerbare processi erosivi e mettere ancora di più in ginocchio il nostro territorio già fragile. A oggi, l’Italia è lo Stato europeo più colpito dal dissesto idrogeologico: secondo l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), oltre 620.000 delle quasi 900.000 frane censite negli anni in Europa sono avvenute nel nostro Paese.46 È il portato di una morfologia complicata, delle nostre mille colline e montagne frastagliate. Ma è anche il risultato di un’urbanizzazione spesso condotta senza criterio, di un consumo di suolo ipertrofico, di anni di incuria e cementificazione selvaggia. Tutti elementi che saranno inevitabilmente inaspriti dalla variante climatica.

Gli studiosi che ho incontrato concordano: il rischio è altissimo; i costi economici, sociali, umani sono potenzialmente devastanti. Secondo stime contenute nello stesso Pnacc, nel 2050 solo gli eventi alluvionali potrebbero causare perdite annue comprese tra 4,5 e 11 miliardi di euro, per arrivare nel 2080 a una cifra compresa tra i 14 e i 72 miliardi. In un altro recente studio d’impatto, la Fondazione per lo sviluppo sostenibile ha paventato per la seconda metà del secolo una diminuzione dell’8 per cento del Pil italiano, indicatore che peraltro non computa i danni ambientali e sociali associati al fenomeno.47

Su chi ricadranno questi costi? Non soltanto sulle prossime generazioni, come spesso si dice. Ma su noi tutti: perché gli effetti dei cambiamenti climatici si stanno già abbattendo sul nostro Paese, anche se spesso vengono classificati in modo diverso e meno categorico. Gli eventi estremi già si stanno moltiplicando, le ondate di calore si stanno già manifestando, i mari si stanno alzando, le api stanno scomparendo. Tutto questo avviene sotto i nostri occhi, a una velocità molto maggiore di quella che percepiamo. Forse ancora in modo troppo lento per spingerci all’azione immediata. Ma abbastanza rapido per avere ripercussioni anche su di noi che siamo in vita oggi. Alcuni studi suggeriscono che l’inazione rispetto al clima sia dovuta al fatto che colpisce individui e comunità «spazialmente o temporalmente lontani»; abitanti di piccole isole del Pacifico o generazioni di nostri pronipoti che ancora non esistono sul pianeta Terra.48 Questo non è più vero: i mutamenti del clima hanno conseguenze su di noi, misurabili e quantificabili. E l’azione non è più rimandabile.

L’ho visto attraversando tutto il Paese, ascoltando decine di scienziati, agricoltori, esperti, cittadini. Perché accanto a un’Italia che non reagisce, che si ostina a ignorare o a minimizzare il problema, ce n’è un’altra che si mette in gioco, concepisce e attua strategie di adattamento, considera quella posta dal clima una sfida da cogliere e non un incubo da esorcizzare. C’è l’Italia di Sorradile e di Milano, quella degli agricoltori che osservano i loro terreni e provano a adeguarsi alle mutate condizioni, quella degli studiosi che mettono in fila i dati e cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica. Quella che guarda al futuro con un pizzico di angoscia ma anche con la voglia di agire per cambiare rotta.

Se è vero che nulla sarà più come prima, come mi ha detto un eminente scienziato, è tempo di cercare un nuovo afflato collettivo, muoversi in quanto comunità per invertire la tendenza e adattarci al nuovo contesto. Perché, seppur necessarie, le azioni individuali non basteranno: non saranno le singole città con i loro piani di adattamento, non saranno le persone che smettono di viaggiare in aereo o di mangiare carne a fermare da sole questa macchina impazzita che viaggia veloce verso il baratro. La situazione richiede iniziative radicali: politiche che favoriscano la conversione energetica e industriale, piani di adeguamento e salvaguardia del territorio, strategie generalizzate per un tipo diverso di mobilità, nuovi criteri di produzione e consumo alimentare. Occorre ripensare un modello complessivo, che fino a oggi ha considerato l’ambiente una semplice risorsa a cui attingere e su cui scaricare i propri scarti.

Non sarà un passaggio indolore. Qualcuno ci rimetterà, dovrà rivedere i propri obiettivi, rimodulare le proprie aspettative. Probabilmente ognuno di noi dovrà riconsiderare il proprio stile di vita. Ma, se ben gestita, questa crisi potrà rivelarsi un’opportunità. Nei momenti di maggiore difficoltà le comunità riescono a mettere in campo risorse inaspettate e riacquisire fiducia nel futuro. Per questo è ora di rimuovere il rimosso. Mettere il cambiamento climatico al centro del dibattito pubblico trattandolo per quello che è: una crisi acuta, che si sta manifestando qui e ora. E che come tale richiede azioni immediate. Perché quello che stiamo vedendo nelle nostre città e nei nostri territori potrebbe essere solo l’inizio.