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Il ghiacciaio che scompare
Se la crisi climatica fosse una rappresentazione teatrale, Giorgio Elter sarebbe seduto ai posti del palchetto centrale. Dai suoi campi scoscesi, questo coltivatore dai tratti squadrati fissa la vetta del Gran Paradiso, che si staglia imponente di fronte a lui. Il panorama è di una bellezza inaudita: un cerchio di monti rocciosi che stringe la vallata come in un cuneo. Un bosco che si arrampica verso l’alto. Un borgo di vie acciottolate che pare uscito da una cartolina. Ma lui non è estasiato dal paesaggio, anzi. Indicando il ghiacciaio, indurisce gli zigomi. E, con la rudezza legnosa del montanaro, descrive il dramma che si consuma davanti al suo sguardo. «Lo sto vedendo scomparire in tempo reale. Si è ritirato di 400 metri in dieci anni.»
L’azienda agricola di Elter è una finestra naturale sul fronte del riscaldamento globale. Ai margini di Gimillan, 2 chilometri da Cogne e 1800 metri sopra il livello del mare, si estende su terreni declinanti che affacciano direttamente sulla vetta, all’altro lato della vallata. In linea d’aria saranno un paio di chilometri. Ma in altura queste distanze si annullano. Pare quasi di toccarlo, quel ghiacciaio, allungando la mano.
Siamo in piena estate, a ridosso di Ferragosto. Non c’è folla in questo paesino di case di pietra avvinghiato alla montagna. Qualche isolato escursionista che si ferma a riempire la borraccia alla fonte; un pugno di clienti nel rifugio-ristorante, che aspetta il pranzo crogiolandosi al sole sulle sdraio. Tutti sono rapiti dalla vista inebriante, pochi vivono il tormento che leggo negli occhi di Elter.
Per chi è cresciuto in questa valle come in tutte le valli alpine, il ritiro della fronte del ghiacciaio è la manifestazione più evidente di una perdita irreparabile, che chi vive in pianura fa fatica a cogliere nella sua interezza. Giorgio indica un punto lontano, ormai coperto da rocce scure. «Soltanto due anni fa, lì c’era il corpo glaciale. Oggi ci sono pietre, domani ci sarà il bosco.» Mostrando il torrente straripante che scende verso valle, rovescia l’immagine opulenta del presente in un futuro di penuria e di angoscia. «In questa stagione non dovrebbe essere in piena. Fa troppo caldo, lo zero termico è sopra i 5000 metri e il ghiaccio si fonde a una velocità inconsueta. Quella è tutta acqua che se ne va per sempre.»
L’agricoltore parla senza enfasi, con un tono monocorde, brutalmente dissonante rispetto a ciò che racconta. Fa pause lunghissime, che io tento di riempire con osservazioni goffe, domande ripetitive, elucubrazioni fuori luogo. Sono in realtà le nostre percezioni a essere dissonanti: è la differenza tra l’uomo di montagna e quello di pianura, tra chi vive in trincea e chi si avventura in prima linea per una visita puramente occasionale. L’apparente tiepidezza è il frutto della consuetudine, di un’assuefazione che ricorda quella del medico legale troppo abituato a frequentare la scena del delitto. Ed è con la stessa imperturbabilità di un coroner esperto che Elter mi descrive la dinamica di quanto sta accadendo. «Quei ghiacciai non sono solo paesaggio. Sono sorgenti di acqua fossile che non saranno più a disposizione di chi vive in pianura. In un futuro prossimo, i fiumi saranno sempre più secchi.»
Il fenomeno va avanti da anni. Ma non da secoli. Dal suo palchetto privato, Giorgio ha visto e continuerà a vedere il ghiaccio ritrarsi, il bosco alzarsi di quota, le fioriture anticipare, le specie cambiare. Sta insomma assistendo a uno spettacolo che normalmente richiederebbe millenni, e che invece si sta svolgendo di fronte a lui nell’effimero intervallo temporale della sua umanissima esistenza sulla Terra. Dai campi di questa azienda agricola poco sotto i 2000 metri di altezza, la crisi climatica si mostra quasi violenta, con una chiarezza plastica che lascia sgomenti.
Processo all’Europa
Giorgio Elter ha cinquantasei anni. È nato a Torino ma vive a Cogne da sempre. Nipote del direttore della miniera di ferro, ha passato buona parte della sua vita qui, dove si è sposato e ha messo al mondo quattro figlie. Perito agrario e forestale, da più di dieci anni ha creato un’impresa familiare su 4 ettari di terreno, vendendo i suoi prodotti in una bottega del paese. «La nostra è un’azienda genuinamente a chilometro zero. O meglio: a chilometri due, tanta è la distanza tra i campi e il negozio.» Giorgio coltiva patate, pomodori, ortaggi. Girando per i suoi campi, che lui ha sottratto all’abbandono su impulso di un amico scomparso prematuramente, mi mostra le varietà. Mentre risaliamo i terreni in declivio, strappa le erbe infestanti a mano. Osserva le piante, a volte le accarezza. Mi racconta le diverse colture che ha messo a dimora, recuperando anche semi e tecniche antiche. «La nostra produzione è al cento per cento biologica. Non usiamo nessun prodotto chimico e, essendo gli unici a coltivare su questo territorio, non subiamo contaminazioni.»
Ma la sua vera vocazione è un’altra. Raccoglie e coltiva erbe spontanee e ne estrae oli essenziali. Da autodidatta ha scoperto un universo a cui si dedica con destrezza e passione. Quando parla delle sue erbe, i lineamenti ruvidi si allentano. Gli occhi si illuminano. Diventa più loquace, come se la descrizione di un territorio che per lui stesso è sperimentazione lo renda più propenso alla condivisione. Mi porta nel laboratorio. Mi fa vedere i bollitori, i distillatori a vapore. Mi descrive tutti i passaggi del processo per cui, da qualche chilo di lavanda o di salvia, ricava gocce di prezioso olio. Mi spiega le funzioni antibiotiche del timo, quelle curative dell’arnica e dell’alloro. Apre poi la porta del piccolo magazzino: su scaffali ordinati sono allineati grandi contenitori di vetro con le varie essenze indicate su un’etichetta. Accanto ci sono bottigliette più piccole, pronte per la vendita. Ne prende in mano alcune e continua a espormi nel dettaglio le proprietà di ogni singola sostanza. Somiglia a un alchimista d’altri tempi, impegnato a distillare dalle piante l’essenza stessa della natura.
Giorgio è uomo di montagna. In montagna si muove, registrandone i cambiamenti giorno per giorno: non solo di quel ghiacciaio che, aggrappato alla cima del Gran Paradiso, si riduce anno dopo anno. Ma anche la reazione delle piante, degli animali che salgono di quota, dell’ecosistema che muta. «Sta cambiando tutto molto in fretta. Gli eventi estremi si fanno sempre più frequenti: le grandinate ci distruggono i raccolti, le ondate di calore ce li bruciano. Ormai è diventato difficilissimo coltivare fragole e lamponi a queste quote, come abbiamo sempre fatto. Fa troppo caldo. Così, la programmazione diventa aleatoria. Il clima è impazzito. O meglio, lo abbiamo fatto impazzire.»
In un ideale processo in cui l’essere umano fosse messo alla sbarra dalla natura, Giorgio sarebbe convocato come persona informata dei fatti. Con le sue rade ma taglienti parole, sarebbe un eccellente testimone dell’accusa. «Abbiamo portato avanti un modello di sviluppo che non ha rispettato il pianeta. Oggi ne stiamo pagando il prezzo.»
E in effetti sono qui con lui proprio perché è in corso un processo simile, pur se nella forma più canonica di dibattimento tra esseri umani: insieme ad altri nove cittadini, Elter ha citato in giudizio alla Corte di giustizia europea le principali istituzioni dell’Unione, il Parlamento e il Consiglio, denunciando l’inadeguatezza del target di riduzione delle emissioni climalteranti entro il 2030. «Ridurre del 40 per cento le emissioni di gas a effetto serra è un obiettivo privo di ambizioni.»
Gli altri ricorrenti di questa causa collettiva provengono da Germania, Portogallo, Romania, Francia, Svezia, oltre che da Paesi non europei toccati particolarmente dal riscaldamento globale, come Kenya e isole Figi. È stata l’organizzazione non governativa tedesca Protect Planet a lanciare l’azione e a interessare il Climate Action Network, un consorzio di organizzazioni ambientaliste. Scelti i cittadini interessati, è stato messo a loro disposizione un pool di avvocati. Per la posizione particolare della sua azienda, Elter si è imposto come candidato naturale. E così, da un giorno all’altro, si è trasformato in una sorta di testimonial della lotta ai cambiamenti climatici. Ha partecipato a decine di conferenze stampa. Ha incontrato giornalisti di tutta Europa, che si sono arrampicati fin quassù per intervistarlo, riempiendo la sua vita fatta di silenzi e solitudini con i rumori e le intemperanze della città.
Fa un po’ impressione immaginare quest’uomo schivo e taciturno nei panni del grande accusatore dell’Unione Europea. Lui lo sa e dice di essersi prestato a indossare quest’abito inusuale perché la situazione è «grave». «Quando mi è stato proposto di aderire alla causa, ne ho parlato in famiglia e abbiamo capito che non potevamo tirarci indietro.»
In primo grado, il ricorso è stato respinto. Un appello è in preparazione, ma intanto la miccia è stata accesa. Giorgio sa che la sua è soprattutto un’azione di comunicazione e sensibilizzazione. Così, oggi si offre volentieri per mostrare i segni di un mutamento che dal suo osservatorio speciale è più che mai evidente. Lui non è un tecnico, né uno scienziato. Non fa previsioni né analisi. Il suo orizzonte temporale di riferimento non è il 2050 o il 2100. È il presente. Perché il cambiamento climatico sta accadendo ora e riguarda tutti noi. E quel ghiacciaio che si fonde davanti ai suoi occhi ne è una dimostrazione icastica, di cui lui non è altri che un portavoce, una sorta di Caronte di montagna per sguardi cittadini poco abituati a ragionare sulla natura e sui suoi mutamenti troppo repentini.
Nel ventre del gigante che si scioglie
Per avere una visione davvero in presa diretta del ritiro dei ghiacciai devo però abbandonare la Valle d’Aosta, attraversare il traforo del Monte Bianco, e sbucare in Francia. Subito al di là del confine, Chamonix mi accoglie con l’aria tipica e un po’ scontata della località turistica di montagna: botteghe che vendono formaggi e vini del luogo, ristoranti che offrono fonduta e salumi speziati, negozi sportivi con attrezzature da scalata. Punto di partenza per le spedizioni alpinistiche da più di duecento anni, la cittadina ha sviluppato la propria fortuna intorno al mito del Bianco. La vetta più alta dell’arco alpino è onnipresente, ritratta su manifesti, cartoline, persino su tazze e magliette proposte dai numerosi venditori di souvenir.
Per le strade si aggirano torme di turisti. Si accalcano in lunghe file di fronte ai rivenditori di gelati. Affollano i negozi gonfi di aria condizionata, alla ricerca di un po’ di sollievo dall’afa asfissiante. Ma la maggioranza confluisce verso una piccola stazione ai margini della cittadina. Da qui si prende un trenino rosso a cremagliera per andare in quota e ammirare da vicino quella mer de glace («mare di ghiaccio») che rappresenta il principale ghiacciaio del Monte Bianco e il secondo più grande di tutto l’arco alpino.
La meta è tra le più gettonate di Francia e d’Europa: ogni anno attira quasi un milione di visitatori. Sul mio treno ci sono turisti venuti da mezzo mondo: giapponesi, arabi, molti europei. I più non hanno alcuna attrezzatura da montagna e ai piedi indossano infradito o scarpe da ginnastica. Un piccolo gruppo di alpinisti, ben riconoscibile dalle cime e piccozze attaccate allo zaino, è osservato dagli altri con un misto di curiosità e ammirazione. Paradossalmente sono loro la presenza incongrua nel vagone, nonostante stiamo andando alla base di uno dei maggiori ghiacciai delle Alpi.
Il trenino sale a strattoni lungo il bosco in pendio e in mezz’ora ci lascia al capolinea di Montenvers, 900 metri di dislivello più su. La stazione è un affaccio naturale incastonato su un panorama davvero maestoso: si vedono distintamente le guglie dei Drus e, un po’ più lontano, le cime granitiche delle Grandes Jorasses, che costituiscono la parte più settentrionale del massiccio del Bianco. Di fronte al bar e all’immancabile negozio di souvenir, un glaciologo con microfono ad archetto intrattiene centinaia di persone stravaccate al sole. Quasi tutti ascoltano distrattamente, mentre divorano panini o si spalmano crema solare sulle gambe. Lui descrive nel dettaglio le cime del complesso, indicandole a una a una. Fornisce qualche rudimento di geologia. Poi indica la strada per raggiungere quella che è la maggiore attrazione del luogo: la famosa «grotta di ghiaccio».
Oltre al viaggio in trenino, il pacchetto proposto alla stazione di Chamonix comprende la visita a questa caverna, che ogni anno viene scavata alle pendici del ghiacciaio. Il punto di ingresso è sempre diverso e sempre più lontano: il corpo glaciale si ritira, costringendo i custodi a cercare nuove location e a rinnovare le infrastrutture per arrivarci. La cabinovia che una volta portava dalla stazione del treno fino al limite delle nevi eterne oggi ti scarica su una spianata di rocce appuntite. Da lì la mer de glace nemmeno si vede. Così è stata eretta una scalinata di ferro che, inoltrandosi nel fondo della vallata, arriva al punto dove la fronte del ghiacciaio si è accoccolata nascondendosi tra le falesie. Qui sorge la grotta: per raggiungere il nuovo ingresso bisogna scendere 480 scalini.
Percorrere quelle centinaia di gradini equivale a compiere una vera e propria discesa nelle viscere del riscaldamento globale. Cartellini fissati sulle rocce indicano il livello del ghiacciaio nel 1985, nel 1990, e poi via via fino al 2015. L’arretramento è impressionante: dal 1990 la mer de glace è retrocessa di 700 metri e in diversi punti ha perso fino a 100 metri di spessore. Ogni anno vengono aggiunti nuovi gradini, per cercare di rincorrere un ghiacciaio che scappa sempre più indietro. Il processo sembra senza sosta: secondo uno studio dell’Università di Grenoble, si ritirerà probabilmente di un altro chilometro e mezzo nei prossimi vent’anni. I responsabili del luogo stanno quindi pensando di costruire un’altra funivia e portare i visitatori più a monte, dove pianificano di scavare le nuove grotte.
Avanzo lungo i gradini a rilento, seguendo la fila di turisti. Si fermano in continuazione per farsi selfie tentando di inquadrare il ghiacciaio sullo sfondo. Ma il ghiacciaio non c’è, il bianco ha lasciato spazio a una lingua di detriti e rocce. Così, anziché fotografare quel mare di ghiaccio sempre più boccheggiante, si concentrano sui cartelli. Scattano foto ricordo con l’indicazione del livello intorno al loro anno di nascita. Si mettono in posa con la faccia stupita di fronte alle scritte. E si interrogano sul futuro. «Abbiamo fatto bene a venire. Tra qualche anno probabilmente sarà troppo tardi» commenta una coppia davanti a me.
Io sto pensando la stessa cosa. La sequela di cartelli è il segno inconfutabile di un’estinzione in atto. Un fenomeno che sta avvenendo di fronte ai nostri occhi con una velocità innaturale. Questa scalinata del cambiamento climatico restituisce in modo immediato la sensazione che vive ogni giorno Giorgio Elter. Lui, dal suo palchetto, osserva il ghiacciaio del Gran Paradiso nelle sue modifiche progressive; qui l’evoluzione è servita in pillole anche a chi viene a passare un singolo giorno in alta quota.
Negli occhi sgranati intorno a me leggo una sensazione mista: da una parte, sgomento per il futuro e per l’emergenza climatica che quassù si tocca davvero con mano; dall’altra compiacimento per essere riusciti a vedere quello che ai posteri non sarà più visibile. È il cosiddetto turismo della last chance, dell’«ora o mai più». Un turismo che attira anche i non esperti: a giudicare dai fisici non propriamente atletici, la stragrande maggioranza dei visitatori non ha mai fatto un’escursione in montagna in vita sua.
La scalinata è affollatissima. Tra foto e pause tecniche di riposo, impiego una buona mezz’ora per raggiungere l’ingresso della grotta. La parte esterna è ricoperta da grandi teloni bianchi, destinati a rallentare la fusione della massa glaciale. Il bianco fa aumentare l’albedo, ossia la capacità di riflettere i raggi del sole, riducendo così la possibilità di incamerare calore e mantenendo le temperature più basse. Ma mi pare una misura disperata, un palliativo somministrato a un malato terminale condannato comunque a perire. Il ghiacciaio ci sta abbandonando, come dimostrano gli scrosci d’acqua che cadono copiosi sull’ingresso della grotta. Una tettoia di ferro è stata installata per proteggere i visitatori ed evitare che si bagnino.
Dentro, lo spettacolo è fiabesco: le pareti di ghiaccio riflettono una luce diafana, quasi irreale. C’è una luminosità fredda, che rende evanescenti i contorni delle figure. Il vociare della folla si confonde in un suono ovattato che rimbalza all’interno con uno strano effetto di eco. La cavità si snoda su due cunicoli ed è lunga un centinaio di metri. Foto d’epoca agganciate alle pareti ricordano com’era il ghiacciaio nel XIX secolo e ritraggono i primi esploratori meravigliati dalla sua maestosità. Le immagini mostrano i segni di un passato ormai scomparso: una volta la mer de glace arrivava alle porte di Chamonix, lambendo le stesse abitazioni. Ha poi cominciato a ritrarsi lentamente, liberando spazi che sono stati occupati a poco a poco dalla vegetazione. Finché, dal 1980 in poi, la fusione ha preso una velocità inconsueta. Si vedono grafici con le temperature medie estive, sempre più alte. Fotografie con l’indicazione del livello altimetrico del ghiacciaio nel 1820, in un’area ormai del tutto colonizzata dagli alberi. Immagini che raffigurano l’entrata della caverna nel passato: solo trent’anni fa, nel 1989, sorgeva ancora a ridosso della funivia.
Nata per celebrare i fasti dell’alpinismo e la grandiosità dei ghiacci, oggi la grotta assume il significato opposto: è un monumento funebre. E la sensazione è proprio quella di trovarsi a una cerimonia collettiva, a cui nessuno vuole mancare: la fila che si snodava alla stazione di Chamonix per salire sul treno a cremagliera non era per venire ad ammirare il massiccio del Bianco e la grotta di ghiaccio, ma per assistere a quest’orazione di massa. I turisti dell’«ora o mai più» per nulla al mondo vogliono mancare l’occasione di vedere lo spettacolo irripetibile della morte in diretta di un paesaggio naturale.
Mi guardo intorno. La folla straripante continua a mettersi in posa all’ingresso della grotta. Sono combattuto. Da una parte, questa Disneyland del ghiacciaio che fonde, con il suo corredo di foto ricordo, è disturbante. Pare l’espressione di un voyeurismo macabro, qualcosa di comparabile alle gite sui luoghi dei grandi disastri con selfie accluso. Mi sento un po’ a disagio. Ma d’altronde anch’io ho percorso la scalinata dell’orrore per vedere il ghiacciaio moribondo. Anch’io ho scattato foto dei cartelli. Anch’io in definitiva ho fatto tutto questo – prendere il treno a cremagliera, salire sulla funivia, seguire la folla sui gradini – per partecipare al funerale pubblico.
Dall’altra parte, però, le nostre facce angosciate – la mia e quella di ogni singolo componente della folla salita quassù – raccontano che quella grotta e quella scalinata svolgono una funzione di divulgazione incredibile.
Non c’è manifestazione più evidente del surriscaldamento globale del ritiro della neve eterna. Ma i ghiacciai sono lontani dalle città, difficili da raggiungere. Osservarli in foto non ha la stessa forza che vederli con i propri occhi. La scalinata e la grotta di ghiaccio hanno questo ruolo: metterli a portata di sguardo, mostrare al mondo quello che sta accadendo, in modo accessibile. A tutti. Perché i turisti dell’ultima occasione racconteranno ai loro amici quello che hanno visto. Ne parleranno con i loro familiari. Si interrogheranno sul futuro. Il gestore del sito, Benjamin Claret, nipote di colui che nel 1946 ebbe per primo l’idea di costruire questa cavità nelle viscere del ghiacciaio, lo ha ripetuto in diverse interviste: «I visitatori oggi vengono qui a vedere gli effetti del cambiamento climatico. È triste ma necessario».1
Per quanto ridotto a spettacolo o forse proprio per questo, il percorso che si snoda davanti a me dà senso al lavoro di migliaia di scienziati in tutto il mondo e spunta le armi di quanti negano l’evidenza di un pianeta che si surriscalda. Con la forza evocativa di un pugno nello stomaco, rappresenta un monito eloquente e inquietante. E alla fine assume un significato più alto, di opera che spinge il genere umano a riflettere su se stesso e sul suo rapporto con una natura che si sta modificando sotto i suoi occhi.