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Il Delta, ai margini del margine

Se il Po è diventato marginale, il suo Delta è il margine del margine, l’avamposto estremo di una dimenticanza che qui si esprime in tutta la sua feroce contraddittorietà. Territorio di sconfinata bellezza, fatto di luci e colori abbaglianti che si riverberano nelle acque salmastre, è anche l’emblema della proverbiale incapacità italiana di valorizzare i propri gioielli. I canneti che ne disegnano i contorni, gli uccelli che ne popolano le sponde, le valli da pesca gonfie di vongole, gli scanni di sabbia che il fiume deposita in mare e trasforma in barriere contro la sua intrusione sono tutti elementi distintivi di questo luogo davvero unico. Patrimonio Unesco dell’umanità, riserva naturale e santuario impareggiabile di biodiversità, il Delta rimane un territorio disadorno, lontano dai flussi del turismo e carente di infrastrutture di collegamento.

«Siamo come una montagna rovesciata, l’unica area interna d’Italia con lo sbocco al mare» mi dice Eddy Boschetti, presidente della sezione del Wwf di Rovigo e grande conoscitore di queste zone, che definisce «dense di storia e di disgrazie». Mi dà appuntamento all’ostello Amolara, una costruzione in stile neoclassico alla periferia di Adria, dove accanto a un ristorante è ospitato il cosiddetto «Museo dei sette mari», così chiamato in onore di Plinio il Vecchio, che nel I secolo dopo Cristo definì appunto «Septem Mària» il reticolo di corsi d’acqua e lagune costiere che al tempo occupavano l’area. Il territorio decantato dallo scrittore latino era molto diverso da come si presenta adesso: il Delta del Po era parecchio più a sud, all’altezza di Comacchio, nell’attuale provincia di Ferrara. La città di Adria, che oggi mantiene poco o nulla delle glorie passate, era un terminale di commerci internazionali e un porto tanto fiorente da dare il nome al mar Adriatico, su cui allora affacciava. Anno dopo anno, l’accumulo di detriti portati dal grande fiume ha progressivamente interrato il porto, spostando il Delta verso nord. Finché, nel 1604, i notabili della Serenissima, preoccupati di vedere la Laguna interrarsi a sua volta, lo hanno ricacciato indietro, tagliando il fiume a Porto Viro e modificandone il corso. Nuove terre sono state inondate, altre sono affiorate: il Delta ha ripreso a estendersi vigorosamente a sud della Laguna e i ricchi veneziani hanno eletto questi territori a loro riserve private di caccia. Solo molto tempo dopo, quando il vapore e il carbone portati dalla Rivoluzione industriale avrebbero permesso di dispiegare mezzi portentosi, le paludi sarebbero state bonificate in modo estensivo. Qui, all’ostello Amolara, siamo letteralmente al centro di quella storia: il museo è stato eretto sul luogo dove, nel 1870, è entrata in azione la prima idrovora, avviando l’imponente opera idraulica e ingegneristica che ha strappato al mare ettari di terra e trasformato gli acquitrini in campi coltivabili.

All’interno del piccolo museo – che i gestori del ristorante hanno gentilmente aperto per noi, tardivi visitatori serali – si vedono mappe antiche, strumenti usati per prosciugare i terreni, foto d’epoca, ricostruzioni dell’evoluzione degli insediamenti umani e degli ambienti naturali. «Siamo un territorio plastico» mi dice Boschetti mentre mi accompagna per le sale. E non c’è definizione più appropriata per questa terra di mezzo in perenne bilico tra il fiume e il mare, plasmata da entrambi e da entrambi ugualmente minacciata. Il Delta è per sua natura un’area instabile, in costante mutazione, sotto la spinta dell’accumulo detritico che il fiume porta da monte e dell’azione erosiva che il mare oppone da valle. Quelle acque dolci e salate, che si mescolano nelle valli lagunari, sono al contempo elemento di identità e ragione di ansia per i locali, che da tempo immemore hanno imparato a convivere con questa duplice precarietà. Nel territorio che plasticamente e continuamente muta, si è sempre esposti al pericolo, che può venire tanto dal fiume che si dilata e straripa quanto dal mare che aggredisce le fragili coste.

Nel 1951 il pericolo è venuto dal fiume. Il Po è esondato e ha travolto tutto, portando con sé una scia di morte e distruzione: 101 vittime accertate, 7 dispersi, 180.000 sfollati. Insieme al taglio idraulico fatto dai veneziani nel XVII secolo, il 14 novembre 1951 è una data spartiacque, perché ha segnato il destino tragico del Polesine, che da allora si autocommisera ed è dipinto come sfortunato e reietto dai suoi stessi abitanti, che in massa l’hanno abbandonato. «Siamo i primi migranti climatici della storia» dice serissimo Boschetti, mostrando come il lessico di oggi possa adattarsi a perfezione alle tragedie di ieri. Dall’alluvione alla fine degli anni Cinquanta, da qui sono partite 20.000 persone all’anno. Un terzo della popolazione della provincia ha deciso di dirigersi verso le città operaie del triangolo industriale o verso altri Paesi europei, rafforzando l’idea di un territorio derelitto, incapace di sostenere la propria gente e condannato da sempre e per sempre all’irrilevanza.

Quella del Polesine è una storia di sconvolgimenti violenti, prodotti dall’uomo e dalla natura, e di un popolo condannato a restare alla periferia. Alla periferia della Serenissima, quando Venezia era il centro del mondo; alla periferia d’Italia dopo la Seconda guerra mondiale, quando l’alluvione e la fame costrinsero migliaia di persone a lasciare questi luoghi; alla periferia oggi dell’operoso Veneto, che ha puntato altrove per il suo sviluppo fulminante, fatto di piccole industrie d’eccellenza, fatica, dedizione e spalle curve ad accumulare schèi. Nel Delta non c’è nulla di ciò. La zona è depressa e i suoi stessi abitanti sembrano vivere immersi in una bolla di fatalismo. «È una pianura violentata dalla storia e rimasta ai margini di assi di sviluppo che si sono concentrati altrove» dice Boschetti. Ma anche quando la ricchezza è finalmente arrivata, grazie alla produzione delle vongole che consente di metter via milioni, la percezione non è cambiata: il Polesine si vede ancora come il parente povero del ricco Veneto e i suoi cittadini mantengono una certa malinconia di fondo che gli deriva dal considerarsi i meno fortunati, quelli rimasti, quelli che non ce l’hanno fatta.

Anche il turismo è incapace di decollare per questa sindrome da figli di un dio minore. Nell’immaginario nazionale il Delta del Po è identificato con la provincia di Ferrara, che pure è solo lambita dall’ultimo ramo della foce, il Po di Goro, ma che ha saputo costruire una narrazione felice, attraente per l’esterno, istituendo un parco regionale del Delta del Po fin dal 1988. La provincia di Rovigo, dove il Delta effettivamente è situato, ci è arrivata invece dieci anni dopo, nel 1997, e ancora sconta questo ritardo strutturale. I due enti dovrebbero unirsi e dare vita a un unico parco interregionale, ma le differenze di campanile impediscono questo salto di qualità. E ognuno quindi lavora per sé, confermando ancora una volta che il Po è frontiera, lembo estremo di mondi distanti e decisamente poco inclini al dialogo.

Tutte queste cose me le dice Sandro Vitali, che è un figlio del Delta a tutto tondo, non solo perché qui è nato e qui vive, ma perché ha provato di persona gli stati d’animo che oggi mi descrive. Mi racconta che anche lui da ragazzo sognava di trasferirsi a studiare a Milano e fuggire da queste «terre di noia e di miseria». Poi, un’estate, facendo il garzone di bottega per uno zio che andava in giro a consegnar gelati, ne ha scoperto la bellezza. Così non è più partito e oggi si batte affinché quest’area marginale riconquisti una sua centralità. Vado in giro con lui e con il suo collega Nicola Donà, a sua volta impegnato in un’opera di valorizzazione di questi territori. Fanno questo per mestiere: accompagnano turisti ed escursionisti in visita nell’area. Ma la loro è soprattutto una passione, frutto di un legame viscerale e autentico, tanto più straordinario in quanto in controtendenza con il sentire comune di questa provincia dimenticata. «Ogni volta che vado via, sono colto da una malinconia struggente: mi prende il mal di Delta» scherza Nicola.

I miei due anfitrioni mi mostrano i luoghi più noti e quelli più nascosti: il piccolo paese di Santa Maria in Punta, vera e propria porta del Delta, all’incrocio tra l’affluente principale e la sua prima diramazione, il Po di Goro; le lagune della Sacca degli Scardovari, regno delle vongole, delle cozze e, più recentemente, delle ostriche rosa, con i suoi capannoni di legno allungati sulle sponde; le valli di caccia, con i baracchini in mezzo all’acqua che i proprietari affittano a peso d’oro per consentire agli appassionati di far le poste alle loro ignare prede; l’isola della Donzella, cui si può accedere pagando pegno attraverso un ponte di barche. Nicola e Sandro mi guidano per decine di chilometri parlandomi del carattere, dei particolari, delle contraddizioni di ogni posto che attraversiamo.

Nel corso di una lunga giornata, mi conducono per strade dritte che emergono come dal nulla. Sono paesaggi geometrici, quasi dilatati, vie arginali lunghe e strette che in una raggiera irregolare ed enigmatica separano e connettono i cinque rami in cui si divide il fiume dalle varie aree di bonifica, ben al di sotto del livello del mare. Guidiamo come sospesi in aria: da una parte c’è l’acqua, dolce o salata che sia, pezzi di fiume, lagune o a tratti mare aperto; dall’altra le terre bonificate, che un’azione idraulica permanente e tenace protegge da un’inondazione altrimenti inevitabile.

Man mano che attraversiamo questi luoghi, entrambi lasciano gradualmente trasparire un altro carattere del Delta: un orgoglio innervato di pudicizia, che non viene mai ostentato, ma si nutre del fatto che chi è di qui sa in fondo di vivere in un posto unico. E invita i forestieri a scoprirlo piano piano, senza la fretta delle grandi città, immergendosi nelle sue sacche, perdendosi nelle sue nebbie, vagolando tra i suoi canneti per trovare l’anima profonda di questo luogo speciale che non si dà a tutti.

I due colleghi sembrano complementari. Sandro, che ha poco più di cinquant’anni, è magro, non troppo alto. Ha un paio di occhiali con cordino, che gli conferiscono un’aria da intellettuale di provincia, quale in effetti è. Autenticamente radicato nel proprio territorio, di cui conosce minuzie e splendori, incarna alla perfezione quella tipologia di abitante del Delta che lamenta di essere ai margini ma insieme un po’ se ne compiace. Della coppia, è il politico: assessore di un comune della zona, membro del direttivo del Parco, mi racconta la storia della provincia, dall’alluvione alla riforma agraria, fino al boom delle vongole e a quell’abbozzo di industrializzazione rappresentato dalla centrale termoelettrica di Porto Tolle, costruita negli anni Ottanta e oggi chiusa. Nicola, di dieci anni più giovane, è un gigante dalla barba rada e vistosamente non curata, capace di alternare grandi divagazioni a lunghi espressivi silenzi. È un uomo di terreno, che sembra più interessato alla natura che alla storia dei luoghi, alla flora e alla fauna più che al capitale umano. Quando gli chiedo di persone, eventi, accadimenti, risponde con rapide frasi di circostanza. Quando invece passiamo al mondo animale, si anima di botto, come se si trovasse proiettato nel suo personale e più intimo elemento. Ornitologo autodidatta, mi parla di nidificazioni, di prede e predatori. È una specie di enciclopedia aviaria vivente. Mentre guida, mantiene costantemente gli occhi rivolti verso l’alto. Mi segnala i fenicotteri rosa, le poiane, i guardabuoi, i gheppi, i marangoni minori. A un certo punto, d’improvviso, si ferma a un lato di una strada stretta che affaccia su una valle di caccia. Tira fuori dal portabagagli un binocolo potentissimo e lo fissa a un piedistallo. Me lo porge. Guardo dentro e vedo migliaia di uccelli che banchettano sull’acqua. Sono divisi in gruppi, apparentemente si ignorano tra loro. Lui mi indica le anatre, gli aironi, qualche cormorano. «Siamo nel pieno della stagione migratoria» mi dice quasi commosso. «Uno dei periodi più belli.»

Da uomo di terreno e appassionato di volatili, Nicola ha assistito al mutamento delle traiettorie e allo slittamento dei periodi migratori. Ha visto cambiare le interazioni, arrivare specie mai viste prima. «Da una decina d’anni sono comparsi gli ibis del Nilo. Sono belli. Saranno sacri, ma sono un po’ bastardi: mangiano qualsiasi cosa e in particolare i pulcini degli aironi.» Quest’evoluzione, che «sta avvenendo rapidamente», la monitora anno per anno, studiando il comportamento dei suoi amati uccelli, vere e proprie vedette delle trasformazioni climatiche, perché «capaci più di ogni altro organismo di adattarsi, spostarsi, migrare là dove trovano le condizioni più congeniali ai loro bioritmi».

Ma più che nel cielo, il clima che cambia ha effetti dirompenti sulla terra. Agisce in modo aggressivo sulle aree umide, su quel tenue equilibrio tra acqua dolce e salata che in questi luoghi rappresenta la chiave di volta dell’esistenza stessa. Nicola mi porta al Po di Maistra, l’unico ramo del Delta a nord del fiume principale. In mezzo all’acqua penzolano, come spaventapasseri afflosciati, una serie di pioppi rinsecchiti. «È il sale che li sta divorando dal di dentro.» Andiamo a vedere un campo poco distante: i terreni sono inariditi, quasi bruciati. Tutto intorno, è un tripudio di un arbusto di colore rosso ruggine. «È la salicornia, che come dice il nome cresce dove c’è una salinità superiore all’un per cento.» L’avanzata di questa pianta pioniera è il segnale di un altro aspetto: che il mare si sta riprendendo le terre, invadendo il fiume, penetrando sotto le falde e rendendo improduttiva l’agricoltura. È un’evoluzione che si fa sempre più critica ed è il risultato di un doppio e opposto movimento: da una parte il livello del mare si alza; dall’altra il fiume diminuisce di portata, in pratica abbassandosi e accogliendo al proprio interno l’acqua salata in risalita. Se un tempo il pericolo era il Po che si ingrossava, ora il principale nemico è il cuneo salino. Il grande fiume arriva spesso qui con portate troppo basse e non riesce a opporsi alla forza di rientro dell’acqua del mare, che appunto si incunea.

La lotta impari contro il sale

«Questa è oggi la grande emergenza» mi dice l’ingegner Giancarlo Mantovani, direttore del Consorzio di bonifica Delta del Po e vero e proprio generale sul campo della guerra contro il cuneo salino. Sulle sue robuste spalle, grava la sopravvivenza di questo territorio di 40.000 chilometri quadrati, che l’essere umano ha sottratto al mare e che il mare costantemente vuole riprendersi. Nel suo ufficio di Taglio di Po, non lontano dal luogo dove i veneziani più di quattro secoli fa hanno deviato il fiume, mi mostra su una grande mappa il sistema di idrovore che copre come una rete tutto il territorio. È il consorzio che lui dirige a regolarne azione e intensità. «Ogni anno spendiamo 2 milioni di euro d’elettricità per pompare via l’acqua.»

Sentendo parlare Mantovani, colpisce lo scarto tra l’immagine del Delta selvaggio e poco popolato e gli sforzi sovrumani che dietro le quinte vengono dispiegati per preservarlo. Questo luogo apparentemente puro, dove la natura sembra vergine e incontaminata, è in realtà uno dei territori più artificiali e manipolati d’Italia. Per evitare che scompaia è necessaria una monumentale azione idraulica, con cui ogni giorno vengono sfidate le leggi della fisica e della gravità. Le idrovore portano via l’acqua che si accumula sui campi e che risale dalle falde: la sollevano letteralmente, facendola defluire nei canali o nel fiume al di là degli argini. «Senza quest’intervento permanente saremmo sommersi nel giro di neanche un mese.»

Ma se il mare avanza, se risale e da sotto si incunea, tutti questi sforzi saranno vani. Ed è per questo che, secondo il direttore, è cruciale agire con tempestività. Perché ogni volta che diminuisce la portata del Po a monte, il Delta è sottoposto a una minaccia che può rivelarsi fatale. «Nel 2006, il cuneo è arrivato a 30 chilometri dal mare. Avevamo acqua salata anche qui a Taglio di Po. Il che è drammatico per l’agricoltura ma anche per l’uso civile. Perché la nostra acqua potabile da lì viene.»

Per farmi capire l’entità del rischio, Mantovani mi parla dell’evoluzione delle portate del fiume. Il parametro di riferimento è la stazione di Pontelagoscuro, vicino a Ferrara, dove si colloca l’inizio del tratto deltizio. È una semplice equazione: quando la portata lì scende sotto i 450 metri cubi al secondo, qui c’è rientro di acqua salata.

Il direttore mi fa vedere tre fotografie, in cui è indicata in colore arancione la risalita del mare nei vari rami del Delta. Negli anni Cinquanta, queste linee erano molto ritratte: il cuneo si era spinto al massimo a 2-3 chilometri dalla foce. Negli anni Settanta sono più pronunciate: 10 chilometri. Negli anni Duemila aggrediscono gran parte dell’area, rientrando fino a 30 chilometri e coinvolgendo un territorio di 30.000 ettari. «Quando accade, ci sono crisi idriche locali perché manca acqua potabile e danni strutturali all’agricoltura, con fenomeni di desertificazione dei terreni.» Detto in altri termini: il sale distrugge per sempre i campi agricoli, che vengono invasi dalle cosiddette «piante alofite», cioè adatte agli ambienti marini, come la salicornia che mi ha mostrato Donà.

La risalita dell’acqua salata lungo i rami del Delta è il risultato più evidente degli sconvolgimenti creati dal clima che muta. È la conseguenza dei più accentuati e prolungati fenomeni di magra che mi sono stati descritti nei tratti superiori del fiume. Ma si tratta ancora una volta di un fenomeno multifattoriale, i cui effetti si misurano secondo uno schema che si ripete sempre uguale: più il territorio è fragile, più questi effetti saranno devastanti. E in quest’area per sua stessa natura vulnerabile, i danni si moltiplicano in modo esponenziale.

Il Delta è il terminale ultimo del modello di sfruttamento sconsiderato e di scarsa cura del fiume che ho visto più a monte; è il luogo dove tutti i nodi vengono al pettine. Perché l’acqua che è stata sottratta nei vari tratti qui non arriva; così come non arriva quella trattenuta negli invasi per la produzione di energia elettrica o nei laghi. «Se ognuno dei 174 invasi alpini cedesse un metro cubo d’acqua al secondo, i fenomeni di magra sarebbero più gestibili» mi dice Mantovani. «Se l’agricoltura fosse meno esigente, avremmo più acqua.» In definitiva il Delta paga lo scotto di scelte fatte letteralmente sulla sua testa, senza essere consultato.

E paga anche lo scotto di scelte industriali realizzate in un periodo storico in cui la parola d’ordine era «sviluppo a tutti i costi» e l’impatto ambientale era considerato una preoccupazione secondaria di sparuti movimenti di nicchia. Dagli anni Trenta all’inizio degli anni Sessanta, da questo territorio sono stati estratti miliardi di metri cubi di metano e gas naturale. Svuotando queste riserve sotterranee, si è creato un vuoto, che ha fatto letteralmente scivolare verso il basso tutta l’area interessata. Questo fenomeno, meglio noto come «subsidenza», ha portato il terreno e l’alveo del fiume ad abbassarsi anche di tre metri e mezzo, rendendo più facile l’intrusione del mare. Insieme alle magre del fiume, l’effetto combinato della subsidenza e dell’eustatismo – ossia dell’innalzamento del livello marino – rendono il cuneo salino una vera e propria calamità.

Ed è una calamità che va affrontata con i mezzi adatti ai nostri tempi. Mantovani mi mostra il sistema di barriere anti-sale costruite a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta in alcuni tratti del Delta del Po e più a nord alla foce dell’Adige. Sono paratie che si alzano per bloccare l’avanzata del mare ogni volta che il fiume è troppo basso. «Ma non sono più efficaci. A quei tempi le hanno costruite pensando a una portata minima di 500 metri cubi al secondo a Pontelagoscuro. Quel livello, che all’epoca non era nemmeno lontanamente immaginabile, oggi è la norma.»

Il direttore prende un grafico con i dati delle portate nel mese di luglio negli ultimi sedici anni: nel 2003 il Po è stato più basso di 450 metri cubi al secondo venticinque giorni su trentuno, nel 2005 ventitré, nel 2006 tutti i giorni del mese, nel 2007 ventitré, nel 2012 quattordici, nel 2015 quindici, nel 2017 quattro. In neanche trent’anni la situazione è cambiata in modo radicale. I vecchi sistemi di sbarramento sono ormai residui di un’epoca antica, e la velocità con cui sono diventati obsoleti non può che essere un campanello d’allarme di un mutamento che sta avvenendo davanti a noi con una virulenza tanto potente da risultarci quasi inconcepibile.

Oggi il Consorzio ha progettato la costruzione di un’altra paratia alla foce del Po di Pila, vicino al mare, che attraverso un sistema idraulico di vasi comunicanti farebbe defluire acqua dolce in tutti gli altri rami. «Con un modello matematico abbiamo calcolato che questa barriera aumenta la portata di circa tre volte e consente di evitare la risalita del cuneo salino anche con 200 metri cubi al secondo a Pontelagoscuro» mi dice Mantovani mostrandomi i prospetti del progetto sulla mappa. Si tratta di un livello davvero minimo, sotto il quale si è andati solo una volta, nel 2006.

«Ma se il trend continua e si arriva al di sotto di quella portata?» gli chiedo.

«A quel punto credo che il problema non sarà più il cuneo salino, ma la vita stessa nella Pianura Padana.»

Sembra una prospettiva lontana, ma non lo è affatto. Se in trent’anni è successo quello che è successo, come si fa a escludere che la tendenza non proseguirà immutata nei prossimi trenta? Le proiezioni dei climatologi indicano che da qui al 2100 il mare potrà sollevarsi fino a 1,30 metri. Dove arriverà il cuneo salino? Quanto si ridurrà il fiume, anche come effetto del mancato apporto nevoso, delle derivazioni irrigue, della sottrazione di sabbia e sedimenti? Le paratie concepite dal Consorzio sono un classico strumento di adattamento, che i poteri pubblici giustamente mettono in piedi per proteggere i territori nell’immediato. Se il progetto verrà realizzato e risponderà alle aspettative, riusciranno con ogni probabilità a rallentare la risalita del cuneo salino. Ma la sfida appare molto più ampia. Le acque incerte del Delta, insieme all’andamento erratico di tutto il fiume, sembrano dirci una cosa semplice. Serve una strategia di adattamento generale. «Un cambiamento di paradigma» come afferma Meuccio Berselli. È necessaria insomma una rivoluzione copernicana per prepararsi a un futuro che non si prospetta per nulla facile, i cui sintomi sono già oggi perfettamente visibili.

La rivoluzione in bicicletta

Chi da anni prospetta questa rivoluzione copernicana è Paolo Pileri, urbanista visionario, ambientalista iperattivo e professore al Politecnico di Milano. Quando lo vado a trovare al termine delle mie peregrinazioni lungo il Po, mi accoglie con una serie di frasi acute capaci di dar forma ai pensieri ancora disarticolati che ho elaborato nei vari tratti di fiume. Esordisce così: «Il Po è un grande moribondo, ferito a morte da decenni di una crescita economica avida che ha letteralmente voltato le spalle a questa bellezza». Pileri non è il classico professore chiuso nel recinto dell’accademia. È un uomo di campo e di passione. Va sul territorio, si sporca le mani. Guarda, ascolta ed elabora proposte concrete. Così, più di dieci anni fa, ha avuto un’idea talmente innovativa che all’epoca in pochi l’hanno capita: una pista ciclabile che collega Venezia a Torino lungo il corso del grande fiume. «All’inizio mi hanno preso per un pazzo o al massimo per un ciclo-attivista fricchettone» dice ridendo. La VenTo, questa la geniale sigla trovata per il tragitto, è un progetto di turismo lento, ma «anche un modo per riscoprire i luoghi, riallacciare le persone a un paesaggio che avevano rimosso e del quale era ed è ovvio non occuparsi».

Il rimosso è la chiave interpretativa che governa le nostre frenetiche vite, secondo Pileri. «Nessuno qui a Milano sa indicare un solo paese che affaccia sul Po. Nessuno conosce i suoi affluenti.» Il Po scomparso è quello che ho visto a Boretto, quello di cui ho braccato le ramificazioni nel Delta, quello che ho seguito faticosamente lungo il suo corso arginale, spesso perdendolo effettivamente di vista. È il fiume diventato luogo di accumulo di esternalità per lo sviluppo di un grande centro, che lo usa come discarica o come pozzo artesiano, secondo una logica estrattiva che lo sta portando alla morte.

È in generale il rapporto centro-periferia a richiedere un ripensamento, mi dice il professore. «Perché oggi parlano tutti di smart city, citano Milano come una città modello. Ma questa città è “intelligente e cool” grazie a 7 milioni di metri cubi di cemento costruiti tra Pavia e Piacenza, dove si concentra tutta la logistica su cui si regge il modello. Chi non ha i mezzi per stare nella smart city, vive tra gli scarti che essa produce. Lo stesso vale per il Po e per le aree che dal fiume sono bagnate o attraversate.» E allora ritorna il tema centrale emerso nelle mie divagazioni tra argini e golene, in compagnia dei vari custodi del fiume che me ne hanno mostrato pregi e difetti, antiche bellezze e moderne oscenità: il Po quale duplice periferia, territorio ai margini che, come le colonie negli imperi dell’età moderna, è sfruttato e deprivato delle proprie ricchezze.

Gli effetti del clima mutevole diventano quindi un prisma attraverso il quale si mostrano i nervi scoperti di un modello ormai alle strette. Come sottolinea Pileri con un’immagine altamente evocativa: «Più che di cambiamenti climatici, parlerei di cambiamenti cultural-climatici. Il clima che impazzisce ci dice principalmente una cosa: che il re è nudo».

Il re nudo è il modello lineare di sfruttamento, che considera l’ambiente una tavola imbandita a cui servirsi a proprio piacimento. Oltre che per la VenTo, Pileri si batte da anni affinché venga approvata in Parlamento una legge sul consumo di suolo, vera e propria emergenza in Italia. I due temi sono strettamente legati tra loro. Perché il Paese che ogni giorno converte 15 ettari di terreno in aree edificate è lo stesso che ha trasformato il Po in una ridotta e marginale, che si può tranquillamente sacrificare sull’altare di un effimero progresso.

Pileri mantiene l’ottimismo della ragione, che è stata la spinta propulsiva per portare avanti il suo progetto contro ogni logica temporale. Sono dieci anni che incontra ministri, amministratori, comunità locali, cercando di affermare la sua idea di modello di sviluppo diverso, più sostenibile. Dieci anni in cui si è scontrato con porte chiuse, pacche sulle spalle, mancanza di fondi e continue procrastinazioni. Lui non ha mollato e la sua creatura sta cominciando a prendere forma. Il tragitto è oggi in fase di realizzazione, con qualche tratto finanziato. Soprattutto, la VenTo è sulla bocca di tutti lungo il fiume: me l’hanno raccontata a più riprese nel Delta, me ne ha parlato entusiasta anche Landini, che mi ha mostrato alcuni tratti disegnati da Pileri e da altri attivisti sull’argine di Boretto, in un’azione dimostrativa di ciclo-guerriglia (il professore fa anche queste cose ed è probabilmente la ragione per cui si intende bene con il Lando). Me l’hanno citata anche i più istituzionali Meuccio Berselli e Giancarlo Mantovani. Insomma, esiste, almeno nella mente delle persone che vivono sul fiume e per il fiume. L’importante, ripete Pileri, è che non sia concepita come un banale «progetto di bicicletta». La VenTo deve essere un simbolo di una comunità che reagisce e di un Paese che, invece di chiudersi a riccio e continuare a negare la realtà del clima che cambia, coglie i segnali mandati dal grande fiume come un’occasione per ripensarsi e per ripensare il rapporto con il territorio.