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Il mare che invade la terra

Il cuneo salino che risale il Po e divora le terre è solo uno degli effetti di quello che ormai è un fenomeno più che evidente: l’innalzamento del livello del mare. Lo si può osservare in tutta Italia, in lidi che appaiono sempre più ristretti, erosi dall’avanzata impetuosa dell’acqua, quasi costipati tra battigie microscopiche e edifici pericolosamente a bordo spiaggia.

Lo vedo in modo cristallino al Lido di Spina, in provincia di Ferrara. «Quando ero bambino la sabbia arrivava fin lì, dove si intravede quella secca» dice indicandomi un punto lontanissimo Marino Rizzati, presidente del circolo locale di Legambiente. È ottobre. Una brezza leggera soffia sugli stabilimenti, chiusi e dismessi fino alla prossima estate. La spiaggia sembra una trincea: enormi sacchi di sabbia innalzati sulla battigia, a proteggere una duna sbreccata dall’azione corrosiva del mare. Al largo, una barriera di pali di legno tenta di opporsi alla spinta delle onde. Un po’ più indietro, sulla duna che sovrasta il litorale, una fila di ceppi piantati al suolo aspetta di essere ricoperta di terra per costituire un ulteriore argine rialzato.

Marino è un uomo affabile, di una cortesia soave, che quando parla sa trasmetterti una saggezza antica fatta di studi e conoscenze. Ha passato tutta la vita qui, gestendo una libreria e conducendo alcune battaglie ambientaliste di nicchia e di sostanza, come quelle contro la cementificazione dei litorali o contro l’invasione della plastica in mare. Andato in pensione, l’ex libraio fa oggi opera di sensibilizzazione ambientale nelle scuole sugli effetti dei cambiamenti climatici.

E dei cambiamenti climatici questi lidi ferraresi sono un’avanguardia. Stretti su una striscia di terra tra il mare e le valli di Comacchio, si situano decisamente in prima linea. Il mare avanza e li risucchia piano piano. La spiaggia scompare. Le villette a schiera costruite non lontano dal bagnasciuga sembrano destinate a finire sotto l’acqua. Si alzano barriere. Si edificano sponde. Si impilano sacchi di sabbia. Ma la guerra sembra persa in partenza: nulla riesce a opporsi all’ascesa travolgente del mare.

Il Lido di Spina, insieme agli altri lidi ferraresi, è una delle decine di territori che finiranno probabilmente sommersi nei prossimi decenni. L’innalzamento del livello del mare, dovuto alla fusione dei ghiacciai ai circoli polari e all’espansione termica dell’acqua, sta condannando senz’appello diverse aree italiane. Se la situazione di Venezia è sulla bocca di tutti, meno si parla di chilometri e chilometri di coste, stabilimenti, ma anche paesi, strade, linee ferroviarie, che nel giro di un tempo abbastanza breve potrebbero essere inondati. Dal Gargano al litorale laziale, dal Poetto di Cagliari alle riviere della Versilia, il profilo costiero del nostro Paese sembra destinato a cambiare e le grandi spiagge che conosciamo a ridursi o a scomparire. In queste aree del ferrarese il fenomeno è particolarmente critico: gran parte della zona è già per sua natura sotto il livello del mare. L’acqua che avanza non divorerà solo le spiagge, ma sommergerà aree molto più vaste, vanificando l’opera di bonifica portata avanti e mantenuta negli ultimi centocinquant’anni.

«Questi sono territori estremi, caratterizzati da un perenne conflitto con una natura impetuosa. Qui, nel Medioevo, quando c’era un’alluvione fuggivano tutti sugli Appennini e il territorio cambiava forma» racconta Rizzati. Lembo di terre umide e malariche, rifugio di briganti leggendari come il «Passator cortese, re della strada, re della foresta» cantato dal Pascoli, oggi ambiente d’elezione per l’airone cinerino e l’anguilla del mar dei Sargassi, la zona di Comacchio ha sempre vissuto al limite tra terra e acqua. Circondata da fiumi e incalzata dal mar Adriatico, è stata costantemente soggetta ad alluvioni, inondazioni, mutamenti tanto repentini quanto devastanti. Le prime opere locali di bonifica qui risalgono all’anno Mille, quando i monaci dell’abbazia di Pomposa tagliarono canali per far scolare l’acqua dai terreni più alti verso quelli più bassi e paludosi. I vari poteri che si sono succeduti, dagli Estensi allo Stato Pontificio, passando per Napoleone e l’occupazione austriaca, hanno cercato di governare l’andamento di queste acque moleste e malmostose, scavando condotti, deviando fiumi e torrenti, costruendo cavi di connessione. A partire dall’Unità d’Italia, insieme alle operazioni che avvenivano più a nord nel Delta del Po, si sono bonificati meccanicamente ettari ed ettari, che la riforma agraria degli anni Cinquanta ha distribuito a un popolo di braccianti straccioni e senza terra.

Nei decenni successivi, nel pieno del boom economico, al limite di questi territori fragili si sono sviluppati i lidi, diventando mete predilette prima per le domeniche estive dei cittadini di Ferrara e dintorni, poi vere e proprie stazioni balneari dove trascorrere l’estate intera. Al di là delle terre bonificate e delle valli lagunari, il mare una volta temuto è diventato terreno di gioco e di piacere, luogo turistico in cui celebrare una nuova raggiunta prosperità. Si è cominciato a edificare: una casa, poi un’altra, strade di raccordo, servizi. Alla fine degli anni Sessanta, a Lido di Spina è stata persino costruita una seggiovia bi-posto, con cui convogliare direttamente in spiaggia gli ospiti di un campeggio vicino, in un trasporto volante di circa un chilometro. È durata poco: nel giro di sette anni, si è dovuto smontare l’impianto perché la salsedine lo stava divorando.

Quei lidi instabili, stretti lungo la via Romea tra il mare e le valli lagunari, si sono trasformati in veri e propri paesini, nuclei di seconde case per i ferraresi o per i veneti desiderosi di avere un pied-à-terre estivo sulle rive dell’Adriatico. Eccoli quindi che si snodano di fronte a me: Lido di Spina, Lido degli Estensi, Porto Garibaldi, Lido degli Scacchi, Lido di Pomposa, Lido delle Nazioni e Lido di Volano. Sono tutte cittadine intermittenti, tanto piene di vita d’estate quanto disabitate il resto dell’anno, allorché piombano in un letargo plumbeo, ovattato, quasi mortifero.

Girando per le sue strade squadrate, Lido di Spina è una città fantasma. Le villette che si susseguono sono vuote e spente. I negozi bui. I bar chiusi. Non una macchina si aggira tra i viali alberati. L’unica presenza incombente è il mare, che pare vicinissimo. Alcuni edifici sembrano quasi rasenti l’acqua, saranno a meno di un centinaio di metri. «Ma una volta erano a duecento» mi dice Rizzati. E questa affermazione dà la misura di quello che potrà accadere, qui come in decine di altri luoghi che sono stati costruiti a bordo spiaggia.

Risaliamo in macchina e andiamo alla punta estrema dei bagni ferraresi, a una ventina di chilometri di distanza. Il Lido di Volano, mi dice Marino, «è il più modesto, quello dei poveri, perché più distante da Comacchio». Il paesaggio è più selvaggio. Ci sono meno case, una pineta ingarbugliata e densa divide il paesino dagli stabilimenti. Ci fermiamo in uno dei bagni, l’ultimo. Anche qui in spiaggia le onde battono contro i frangiflutti di legno e sacchi di sabbia sono collocati lungo la costa per proteggere la duna. Anche qui Marino indica un punto lontano, persino più lontano di prima, per mostrarmi il luogo in cui da bambino giocava facendo castelli di sabbia.

Rizzati ha settantadue anni. Nel corso del tempo ha visto evolvere il territorio, le dune ritrarsi, il mare invadere nuovi spazi. È incredibile constatare come il paesaggio sia così cambiato nell’arco di una singola vita umana. E, per di più, senza che ci sia stato un evento estremo, un terremoto, un’alluvione, uno tsunami. È una semplice e graduale evoluzione: il mare avanza, la spiaggia arretra, l’acqua minaccia i bagni e probabilmente li sommergerà. Gli argini che vengono alzati, le barriere di legno e di sabbia che vengono costruite appaiono ben poca cosa rispetto alla potenza della natura.

Marino sottolinea, come altri prima di lui, che gli effetti dei cambiamenti climatici sono tanto vistosi e visibili quanto poco dibattuti. «Sembra che sia meglio non parlarne, per non seminare il panico. Al più sono visti come una fatalità.» Ma per lui questi lidi sull’orlo del baratro, specchio di una calamità che pare inevitabile, sono tutt’altro che una fatalità. Sono piuttosto il risultato di scelte precise, di orientamenti determinati, di un atteggiamento di scarsa attenzione nei confronti dell’ambiente e del territorio. «Sono state fatte speculazioni enormi, frutto di politiche miopi. Si è costruito là dove non si doveva. E oggi sembra che la natura voglia riprendersi questi territori, che sono stati violentati dall’essere umano.»

Sulla spiaggia dove stiamo, sorge solitario un baracchino chiuso. Affaccia direttamente sul mare. Quando arriva sulla battigia, l’onda si schianta a neanche 30 metri di distanza. «Vedi quel chiosco?» mi dice Marino, con il suo tono pacato. «Per edificarlo hanno appianato una duna. Quando invece lo si poteva costruire proprio sopra il dosso, che era un argine naturale. Ma i bagnanti vogliono stare direttamente sul mare. E così, di fatto, i proprietari si sono condannati da soli.»

Questi lidi sono figli dell’euforia degli anni Ottanta, quando tutto sembrava possibile, grazie al turismo che ha portato in queste zone paludose e depresse una ricchezza mai vista prima. Qui come in tutta la linea marittima si è edificato senza freni e senza una minima pianificazione. Il cemento ha inondato la costa. Ma poi l’eccitazione è rientrata. Oggi i lidi vuoti perché fuori stagione appaiono come una proiezione del futuro, il segnale già visibile di una catastrofe fin troppo annunciata. Lungo la strada, una schiera di villette con il cartello VENDESI appeso al cancello, costruite subito prima della crisi del 2008, giace come un monumento inerte a un mondo in via d’estinzione. «Nessuno ormai è così pazzo da comprare da queste parti.»

Continuiamo a guidare lungo le strade deserte che uniscono i vari lidi. Marino mi mostra gli effetti delle ultime tempeste di vento. «Qui nel 2017 una tromba d’aria ha divelto decine di alberi. Un altro evento di questo tipo è avvenuto lo scorso marzo, un altro ancora poche settimane fa. Queste cose prima non succedevano: anche questi sono effetti dei cambiamenti climatici.» Al Lido di Volano, i resti degli alberi caduti giacciono ancora sulla spiaggia. L’acqua sbatte contro i tronchi afflosciati e piegati dal vento, cui le onde hanno mangiato le chiome.

In questo lembo di terra, il mare che si alza è un pericolo vero. Per il momento, a rischiare sono questi lidi e tutta l’economia turistica che ci ruota intorno. Ma nel futuro la situazione può diventare ben più grave. «Qui siamo sotto il livello del mare. Basta qualche decina di centimetri in più e finiamo tutti sott’acqua» sottolinea Marino preoccupato. Dopo i lidi sarà il turno delle cittadine più vicine, come Comacchio. Poi di tutta la provincia. In un certo senso, aggiunge l’ex libraio con il suo sorriso lieve, composto anche quando vuol essere sarcastico, «è un bene che abbiano costruito quegli edifici, perché sono come argini artificiali, per qualche tempo ci proteggeranno dalle onde».

«È come se ci trovassimo in un grande catino»

Su una grande mappa della provincia trovo la plastica conferma alle parole di Rizzati. «Le aree blu sono quelle sotto il livello del mare. Il 44 per cento dell’intero territorio, con depressioni che raggiungono anche i meno 4,5 metri» mi dice Mauro Monti, direttore del Consorzio di bonifica della pianura di Ferrara. Questo ingegnere sulla cinquantina è il corrispettivo di Giancarlo Mantovani, il direttore del Consorzio del Delta del Po che ho incontrato in provincia di Rovigo. I due sono l’espressione dei loro rispettivi territori: tanto il rodigino è serio e puntiglioso nel compendiare in modo allarmato i rischi futuri dell’area che gestisce, quanto il ferrarese mantiene un atteggiamento scanzonato, continuamente propenso alla virata ridanciana per sdrammatizzare. Chiamato a dirigere il Consorzio di bonifica più grande d’Italia – «Sono 4000 chilometri di canali, quattro volte la distanza in linea d’aria tra Aosta e Trapani» –, Monti ha problemi diversi rispetto al collega più a nord. Il cuneo salino non è la questione principale da queste parti, lo è invece il mare che si alza ed erode le coste.

Nel suo ufficio al centro della cittadina estense, mi mostra sulla mappa il reticolo quasi inestricabile di canali che aggrovigliano il territorio e i livelli altimetrici delle varie zone, dove il blu indica appunto che ci si trova al di sotto del mare. Il record è di Jolanda di Savoia, così chiamata in onore della principessa che qui venne in visita all’inizio del Novecento, pochi anni dopo che la cittadina fu creata dal nulla al posto delle acque torbide della palude. Nel comune c’è il punto abitato più basso d’Italia: i 68 residenti della frazione di Contane vivono 3,44 metri sotto il livello del mare. «Quello è il punto più estremo, ma in generale possiamo dire che tutto il territorio è un grande catino, limitato a nord dal Po, a sud dal Reno e a est dal mar Adriatico.»

Il direttore mi guida per la provincia mostrandomi le idrovore che pompano l’acqua. Mi fa visitare l’impianto di Sant’Antonino a Cona, fondato negli anni Venti, a cui è stato recentemente affiancato un complesso più moderno. Mi spiega come funziona: la struttura alza l’acqua del canale di scolo e la getta con un salto di quasi 5 metri nel Po di Volano, che la convoglia a gravità verso il mare. Per farmi capire meglio il meccanismo, mette in moto le macchine. Mentre osservo affascinato le turbine in azione, mi soffermo a guardare su un muro un bassorilievo realizzato dagli studenti di un liceo artistico di Ferrara. Vi sono raffigurati elementi del territorio e della sua storia: il castello, l’unicorno simbolo della bonifica estense, la spiga di grano emblema della fertilità, una carriola che simboleggia la fatica e il lavoro. Sotto è riportata una citazione della scrittrice statunitense Margaret Atwood: «Ricordati che per metà tu sei acqua. Se non puoi superare un ostacolo, giragli attorno come fa l’acqua». Questo rapporto ambivalente con l’elemento rappresenta bene l’identità di queste parti, dove l’acqua è vita, ma può essere morte. È linfa vitale per l’agricoltura, ma può essere flusso incontrollabile che si alza e travolge tutto. «Abbiamo fatto questo concorso nelle scuole per sensibilizzare gli studenti e far capire loro che viviamo in un territorio artificiale.»

Un territorio artificiale la cui esistenza dipende dall’azione costante dei canali, delle idrovore e dei numerosi manufatti di regolazione, come mi ripete più volte il direttore. Monti sa bene che quest’azione può diventare vana se il mare strabocca. Se supera le dune e la via Romea e si riprende quelle terre che l’essere umano gli ha sottratto. «Nei prossimi anni dovremo rinforzare gli argini a difesa mare. Questa sarà la priorità.»

Queste terre anfibie sono tra le più esposte, come ho visto chiaramente ai lidi insieme a Marino Rizzati. Ma il problema è più ampio: ai bagni di Ferrara costruiti a bordo mare corrispondono migliaia di situazioni analoghe lungo tutto l’Adriatico e in alcune zone del Tirreno. Nell’intera area costiera si è costruito senza freni e soprattutto senza un chiaro piano regolatore e uno studio di impatto ambientale. Secondo due ricercatori dell’Università dell’Aquila, Bernardino Romano e Francesco Zullo, l’urbanizzazione nella fascia adriatica a ridosso del mare è aumentata del 300 per cento in cinquant’anni, persino del 400 per cento in alcuni comuni.13 Questa montagna di cemento ha saturato territori fragili, che oggi sono più che mai vulnerabili all’avanzata del mare. Gestire queste aree sotto minaccia, adattarle per quanto possibile alla nuova situazione, sembra un compito immane, che richiede risorse gigantesche. Richiede soprattutto un’azione tempestiva, frutto di una discussione vera, articolata e aperta, al di là di quel fatalismo intimorito di cui mi ha parlato Rizzati.

Il Mediterraneo nel 2100, un’apocalisse annunciata

Per avere una visione più dettagliata di quello che sta avvenendo, e soprattutto avverrà, sulle nostre coste vado al Centro ricerche dell’Enea. Posta alla Casaccia, nella zona nord del comune di Roma a circa 30 chilometri dalla capitale, la sede dell’ente è una vera e propria cittadina, fatta di decine di edifici che si estendono su 90 ettari, una mensa, un servizio di navette interne per spostarsi tra i suoi viali alberati e una flotta di pullman aziendali che ogni mattina raccolgono i più di mille dipendenti in varie zone di Roma per portarli in sede e ricondurli a casa a fine giornata. Nato all’epoca della grande febbre nucleare come centro di ricerca per l’energia atomica, dopo il referendum del 1987 che ha sancito la chiusura definitiva delle centrali è stato riconvertito in Ente nazionale per le nuove tecnologie e per l’ambiente. Del suo passato conserva ancora alcuni edifici off limits e migliaia di scorie radioattive stoccate in capannoni.

Il laboratorio di modellistica climatica è uno dei più all’avanguardia in Italia. Di fatto, è il sancta sanctorum degli studi sul futuro del Mediterraneo. In collaborazione con il Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston, i ricercatori dell’Enea hanno sviluppato un modello che incrocia dati oceanografici, geologici e geofisici per fornire una previsione del comportamento del nostro mare.

Una mappa fisica dell’Italia mi accoglie all’ingresso, sbattendomi in faccia i risultati delle loro ricerche. Lungo le coste ci sono vari cerchi rossi. Sono le zone che finiranno sotto l’acqua entro la fine del secolo: tutta la penisola ne è punteggiata, insieme a diverse aree della Sicilia e della Sardegna. Rimango come ipnotizzato per alcuni minuti a fissare quei cerchi rossi. In totale, considerando un innalzamento del mar Mediterraneo tra 95 centimetri e 1,30 metri nei prossimi ottant’anni, 5686 chilometri quadrati di terreno saranno sommersi, un’area pari all’estensione della Liguria. Spiagge, campi agricoli, cittadine costiere, ma anche porti rilevanti come Venezia, Napoli, Cagliari e Palermo saranno costretti a modificare del tutto le proprie infrastrutture. La maggiore incidenza è proprio nella zona tra Veneto ed Emilia-Romagna, in quelle terre della Bonifica da cui sono appena tornato. È qui che si concentra più del 90 per cento degli allagamenti. Ma il fenomeno riguarda gran parte di noi, perché più della metà della popolazione italiana vive nei pressi delle coste. L’innalzamento del livello del mare ci costringe a un ripensamento generale di tutto un modello di gestione del territorio, che dal mare è circondato e che intorno al mare si è definito.

Per costruire le proprie previsioni, l’Enea ha adattato al contesto locale le stime fatte dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc), il gruppo di ricerca internazionale che studia i cambiamenti climatici. I ricercatori hanno creato un modello specifico per il Mediterraneo che combina diversi fattori, come la fusione dei ghiacci terrestri (soprattutto da Groenlandia e Antartide), l’espansione termica dei mari e degli oceani, l’intensificarsi di fenomeni meteorologici estremi, le maree, ma anche i movimenti tettonici verticali che caratterizzano l’Italia. Hanno quindi inserito questi dati in un megacalcolatore e ottenuto previsioni a breve e medio termine. Hanno fatto insomma su scala locale e molto più precisa quello che l’Ipcc fa su dimensioni globali. «È come passare da un videogioco degli anni Ottanta con i pixel enormi a una console moderna che offre una grafica precisa» mi dice il direttore del laboratorio Gianmaria Sannino.

Quello che emerge da questo zoom ad altissima definizione è un quadro per nulla rassicurante. Mi spiega Sannino: «Il Mediterraneo presenta caratteristiche del tutto peculiari: è di fatto un grande lago, compreso tra il deserto del Sahara e il massiccio alpino, che è uno dei più alti del mondo. La sua unicità lo porta a scaldarsi più rapidamente: dal 1856 a oggi, ha registrato un aumento di 1,4 gradi, con un incremento particolarmente significativo negli ultimi trent’anni. Si tratta di 0,4 gradi in più rispetto alla media degli oceani. Insomma, è quello che si definisce un “hotspot climatico”, un’area dove gli effetti dei cambiamenti climatici si manifestano in modo più vistoso».

Essendo noi proprio al centro di questo hotspot, siamo più esposti di altri Paesi alla nostra stessa latitudine. Il nostro essere su un «punto caldo» è dimostrato dall’aumento delle temperature più marcato della media e dall’incidenza più rilevante di fenomeni meteorologici estremi, oltre che dall’innalzamento del mare. Come dire: l’Italia è di fatto sulla linea del fronte del cambiamento climatico. Subisce e subirà impatti importanti. «Con questa situazione saremo chiamati a fare i conti. Noi studiosi dobbiamo comunicare in modo più efficace possibile i risultati delle nostre ricerche per contribuire alla consapevolezza e all’azione.»

Climatologo e oceanologo, Sannino è uno scienziato che si occupa di concetti complessi, modelli matematici, algoritmi, statistiche e curve di errore poco comprensibili ai più. Chiamato spesso a parlare nelle scuole o in altre occasioni pubbliche, ha elaborato una serie di esempi e di metafore per rendere intelligibile l’oggetto dei suoi studi. Dopo il confronto tra il vecchio Pac-Man anni Ottanta e la console della PlayStation di ultima generazione, mi illustra con un’altra immagine immediata le conseguenze del riscaldamento globale sulle acque marine. «Prendi un palloncino» mi dice. «Se lo gonfi e ci metti vicino un accendino, scoppierà all’istante. Se ripeti l’esperimento riempiendolo d’acqua, vedrai invece che non esploderà. Questo perché l’acqua ha una capacità di assorbimento termico mille volte maggiore dell’aria.»

Con l’esempio del gavettone, Sannino mira a spiegarmi il ruolo dei mari come «regolatori climatici». Sono loro ad assorbire una gigantesca quantità di calore, impedendo all’aria di scaldarsi eccessivamente. «La capacità termica dei mari e la loro propensione all’assorbimento di CO2 ci ha consentito di limitare i danni prodotti dalle emissioni dei gas serra.» In sostanza, dobbiamo ringraziare i mari perché stanno incamerando una quantità mostruosa di calore e anidride carbonica permettendoci di non finire arrostiti.

Questo loro lavoro non avviene tuttavia senza conseguenze: scaldandosi, i mari si dilatano. Salendo di temperatura, l’acqua aumenta di volume. Questo fenomeno, insieme all’apporto dato dalla fusione dei ghiacci terrestri, è all’origine dell’innalzamento del livello del mare che si sta registrando in tutto il mondo e che sta erodendo anche le nostre coste. Sannino mi descrive il sistema climatico come un modello complesso, in cui le interazioni tra ghiacci, mari, atmosfera e terra, oltre agli ecosistemi acquatici e terrestri, sono regolate da un delicato equilibrio che l’essere umano sta rompendo. «I mari che si scaldano ci stanno mandando un segnale importante: ci stanno dicendo che abbiamo immesso una quantità eccessiva di gas a effetto serra nell’atmosfera e che è necessario invertire rotta per evitare le conseguenze più drammatiche.» Secondo le proiezioni di modelli fatte dai ricercatori dell’Enea, al 2100 lo scenario peggiore non prevede solo un innalzamento di 1,30 metri del livello del mare, ma anche un incremento di temperatura delle acque di 5 gradi centigradi nell’hotspot Mediterraneo. «Se non si agisce con tempestività per ridurre le emissioni climalteranti, avremo a che fare con intense ondate di calore, che dureranno settimane intere. Il riferimento a cui dovremo abituarci è l’estate del 2003, quando la canicola estiva ha provocato in Europa decine di migliaia di vittime. Ecco, quella non sarà più l’eccezione, ma la norma.»

Il mare ci sta dicendo che il prossimo futuro sarà all’insegna del calore estremo, in modo particolare nel nostro Paese. Ma, mentre ci parla, si sta anche spegnendo, sta esalando quelli che potrebbero essere i suoi ultimi affaticati respiri. Per rendere l’idea, Sannino sfodera un’altra delle sue ficcanti metafore. Paragona il Mediterraneo a un essere vivente, che per sopravvivere deve bere e respirare. «A causa dell’evaporazione, il nostro mare perderebbe 90 centimetri all’anno e andrebbe quindi in sofferenza idrica. Questo non accade perché si abbevera da quella che è la sua bocca principale, cioè lo Stretto di Gibilterra.» Essendo più alto di circa 20 centimetri, l’oceano Atlantico scarica nel Mediterraneo un milione di metri cubi d’acqua al secondo. Il ricercatore mi mostra al computer una ricostruzione in 3D dello stretto, con i flussi di acqua che passano e rabboccano il mare. Quella fessura di 14 chilometri di estensione e di 280 metri di profondità è fondamentale per la sua sopravvivenza. «Quando si è effettivamente chiusa, cinque milioni di anni fa, gran parte dell’acqua è evaporata.» All’epoca, nel tardo Miocene, affiorarono isole e terre mai viste, il Mediterraneo si ridusse a un piccolo lago quasi esanime. Oggi abbiamo il problema opposto: il mare avanza. Negli oceani c’è più acqua di prima a causa della fusione dei ghiacci terrestri e dell’aumento della temperatura. Una volta entrata da Gibilterra, quest’acqua si riscalda ulteriormente. E qui veniamo al secondo problema: come ogni essere vivente, il nostro mar Mediterraneo deve respirare. E per respirare ha bisogno di ossigeno, che sottrae dall’atmosfera e diffonde negli strati più bassi quando le acque più fredde scendono perché più pesanti. Questo fenomeno, che va avanti da millenni e che permette l’ossigenazione del mare e la sopravvivenza della vita al suo interno, oggi è a rischio. «Il sistematico riscaldamento degli strati superficiali inibisce il rimescolamento dei vari strati d’acqua e, di conseguenza, l’apporto di ossigeno e sostanze nutritive per la vita marina.» Sannino mi mostra un grafico con le previsioni di ossigenazione legate alle temperature superficiali, in cui si vede una curva che si fa sempre più bassa e stretta. È l’encefalogramma quasi piatto del nostro mare. «Se continuiamo con il trend attuale, nel 2100 il mar Mediterraneo è destinato a diventare un bacino anossico, privo di ossigeno, come il Mar Morto.»

Il quadro che mi viene presentato al centro di ricerche dell’Enea è alquanto cupo: il nostro Paese travolto da ondate di calore devastanti e il nostro mare che sommerge terre e pianure con acque calde ed eutrofizzate, senza più vita al proprio interno. Sembra un film di fantascienza apocalittico. Ma come reagire a un fenomeno che pare irreversibile? Non sarà questa la ragione per cui ci ostiniamo a non affrontare la questione? Non sarà che siamo come annichiliti da un senso di impotenza? «L’unica cosa che si può e si deve fare è rallentare il trend. Rispettare gli obiettivi dell’accordo di Parigi per ridurre le emissioni, contenere l’aumento delle temperature globali entro i 2 gradi centigradi e cercare di governare un processo che è stato determinato da noi e che influirà pesantemente sul nostro futuro.»

Ma il futuro è già qui, perché il livello del mare è innegabilmente in salita, come ho visto con i miei occhi ai lidi ferraresi e come mostrano le immagini sempre più ricorrenti di spiagge che retrocedono in tutta la penisola. Perché le ondate di calore sono già all’ordine del giorno ogni estate, anche se non ancora nella misura catastrofica prospettata da Sannino. Perché i fenomeni meteorologici estremi sono sempre più frequenti e distruttivi. «Siamo nel pieno di una crisi climatica» mi dice il ricercatore salutandomi. «Il modo in cui decideremo di affrontarla determinerà la forma del nostro pianeta nei prossimi anni.»

I nuovi alieni che popolano il nostro mare

Tanto Gianmaria Sannino è un uomo di calcoli, che maneggia modelli e algoritmi per prevedere lo stato del nostro mare nei prossimi decenni, quanto Adriano Madonna è un uomo di terreno, o meglio di acqua, elemento in cui vive letteralmente immerso da più di mezzo secolo. Questo settantenne minuto ma vispissimo, che ricorda vagamente il pescatore Santiago magnificato da Hemingway nel Vecchio e il mare, ha trascorso una vita a scandagliare i fondali del Mediterraneo e a raccontarne glorie e delizie, prima come redattore del mensile specialistico «Il Subacqueo», poi come professore di Biologia marina all’Università Federico II di Napoli e di Scienze ambientali alla Scuola superiore di tecnologia per il mare – Fondazione Caboto di Gaeta. È in questa cittadina laziale attorcigliata intorno al suo golfo declinante verso la Campania che lo incontro in un pomeriggio ancora caldo di mezzo autunno. Qui vive, nel cuore del borgo antico, a poche decine di metri da quel mar Mediterraneo di cui mi descrive l’evoluzione, mischiando indistintamente aneddoti presi dalle sue continue scorribande subacquee con più serie digressioni di carattere scientifico.

Mi parla di nuove creature, che sembrano uscite da un libro di Jules Verne e che invece gli sono comparse davanti durante le immersioni o gli sono state segnalate da amici pescatori. Cita totani giganti, barracuda mutanti, pescecani e meduse superurticanti. Mi racconta come poco tempo prima sia stato pescato al largo di Formia un cucciolo di squalo bianco, «segno che questi animali si stanno spostando verso riva a caccia di cibo, perché i fondali sono sempre meno abbondanti». Menziona il fenomeno della crescente anossia del Mediterraneo, che mi aveva già descritto Sannino all’Enea. «Nei suoi livelli più bassi il mare è più povero, perché d’inverno le acque si raffreddano meno e non portano in profondità i plancton vegetali e gli zooplancton necessari alla sopravvivenza di molti animali marini. Così, specie che cercavano il cibo a 80 metri di profondità ora si spostano in superficie.»

Madonna illustra il cambiamento dal suo punto di vista di biologo marino, che studia gli ecosistemi e gli esseri viventi che li compongono. «È un dato di fatto che il Mediterraneo si sta tropicalizzando e che ormai si trovano animali che una volta non c’erano. Il paradosso è che oggi non sono le creature alloctone a doversi adattare, ma quelle autoctone, che hanno sempre più difficoltà a gestire le temperature crescenti.» Il professore è un vero e proprio appassionato di specie aliene marine, che elenca a partire dai loro singoli nomi scientifici. Mi parla così della Carybdea marsupialis, l’infida e velocissima cubo-medusa ormai diventata di casa nei nostri mari, con la sua testa minuscola e i tentacoli lunghi anche 2 metri, che se ti toccano possono mandarti all’ospedale per shock anafilattico. Mi racconta di pesci palla catturati nel golfo di Gaeta, pericolosi per la salute perché contengono una tossina cinquanta volte più velenosa del cianuro, resistente anche alla cottura («Prima o poi qualcuno ne mangia uno e ci lascia le penne»). Di alghe del mar dei Sargassi che sempre di più infestano i nostri mari («Ci sono sempre state, ma stanno proliferando in modo esagerato»). Di granchi corridori che hanno sostituito i granchi favolli nostrani, con grande scorno dei polpi che di questi ultimi andavano ghiotti (e che di conseguenza sono diminuiti di numero). Mi parla poi del barracuda mediterraneo, che è entrato dall’oceano Atlantico e ha mutato il proprio Dna, divenendo di fatto una specie a sé, diversa dal suo progenitore.

Tutti questi nuovi ospiti sono arrivati con l’acqua di zavorra delle navi, o più semplicemente dal canale di Suez o dallo stretto di Gibilterra. «E, arrivando, hanno trovato condizioni che hanno permesso loro di occupare nicchie ecologiche, scacciando altre specie.» La natura non prevede la convivenza pacifica tra due specie antagoniste: il granchio corridore caccia il favollo (e i polpi muoiono di fame), il barracuda mediterraneo caccia il dentice, e così via in un processo che modifica un equilibrio delicato di cui fatichiamo a misurare la portata.

È un flusso incontrollato e incontrollabile, che sta avvenendo a una velocità incredibile, a conferma di quello che mi ha mostrato Gianmaria Sannino con i suoi grafici, le sue tabelle, le sue animazioni 3D. «Il Mediterraneo si sta scaldando in modo molto rapido. Di solito, questi fenomeni di tropicalizzazione hanno durate bibliche» mi dice Adriano Madonna, affinando il suo sguardo di lupo di mare, anche lui sconvolto dai cambiamenti che gli stanno scorrendo davanti agli occhi. «Ho iniziato a notarlo negli anni Novanta, quando l’ecosistema marino ha cominciato a cambiare, i fondali a modificarsi, tutto un ambiente ad assumere una forma differente.»

Secondo un elenco stilato dalla Società italiana di Biologia marina, a oggi sarebbero più di duecento14 le specie aliene avvistate al largo delle coste italiane: fra queste, oltre a quelle già citate, il temibile pesce scorpione dalle lunghe spine velenose, originario del Mar Rosso e ormai diffuso in tutto il Sud Italia. O il pesce balestra, che ha denti affilati come tenaglie. O ancora: il voracissimo pesce coniglio, che bruca le alghe dei fondali desertificandoli. Finiscono nelle reti dei pescatori, che li osservano stupefatti, li ributtano a mare o li segnalano agli esperti. Nuovi avvistamenti si susseguono senza sosta, segno di un movimento che sembra non conoscere limiti. Nell’ottobre del 2019, l’equipaggio di un motopeschereccio ha tirato su esterrefatto al largo di Cervia una tartaruga liuto di 250 chili, normalmente presente nella fascia equatoriale dell’oceano Indiano o dell’Atlantico.

«Tutto avviene in modo troppo rapido, con una velocità alla quale non siamo preparati» insiste il professore. Poi aggiunge: «Il mare è lo specchio di quello che succederà sulla terra. Ora vediamo i pesci esotici, più o meno pericolosi. Ma quanto ci metteranno ad arrivare malattie tropicali?». Madonna appare trapassato da un senso di impellenza quando parla dei cambiamenti del mare e del clima. Ha una visione d’insieme, ampia, cosmopolita, che gli deriva da quello che scopre qui nelle sue acque, dove continua a immergersi anche d’inverno come se fosse un ragazzino, e in giro per il mondo nel corso di spedizioni scientifiche alle latitudini più remote. È andato alle Galapagos e, più recentemente, nella Terra dei Fuochi. «Lì, nelle terre estreme del pianeta, ho visto gli effetti devastanti del clima che cambia. Colonie intere di pinguini morire per il caldo o per la mancanza di cibo.»

Nei nostri territori antropizzati questa evoluzione è meno evidente ai più. Sono in pochi a vivere il mare come Madonna, a osservarlo e a registrarne i cambiamenti. Tutti gli altri, tutti noi cittadini ordinari, vediamo solo gli effetti più palesi, le spiagge ritirarsi, il livello delle acque alzarsi. Guardiamo il fenomeno con noncuranza. Senza capire che siamo di fronte a qualcosa di imponente. Che quelle spiagge che scompaiono, quelle meduse nuove che ci pungono, quelle tartarughe che paiono dinosauri, quelle creature degli abissi che emergono in superficie o quei pesci colorati e strambi che da altre latitudini penetrano attraverso i pertugi nel nostro mare semichiuso stanno a indicarci che quello che abbiamo di fronte è un processo epocale, che non siamo del tutto attrezzati ad affrontare.