Introduzione

Nel pieno dell’emergenza globale del Covid-19, una notizia è passata del tutto inosservata: quello del 2020 è stato in Europa l’aprile più caldo da quando si fanno rilevazioni. Questo era seguito all’inverno più caldo di sempre – con una media di +3,4 gradi rispetto al trentennio di riferimento 1981-2010.

Una primavera quasi estiva ci ha sorpresi all’interno delle nostre case, dove siamo stati costretti a rimanere blindati dalle misure di lockdown. Dai balconi e dalle finestre abbiamo guardato con occhio disattento la fauna e la flora prendere possesso delle nostre città spopolate – gli animali selvatici avventurarsi in spazi normalmente a loro preclusi, l’erba crescere rigogliosa sulle strade, gli alberi fiorire anzitempo. Il risveglio della natura sembrava stridere con il fluire lento delle nostre esistenze sospese. Esterrefatti dal trovarci nel mezzo di una crisi che ci ha travolti in modo inatteso, abbiamo più o meno ignorato i segnali con cui ci si confermava l’ampiezza dell’emergenza climatica – le temperature fuori norma, le fioriture anticipate, l’assenza di precipitazioni (-43 per cento di pioggia e neve rispetto alla media in Italia nell’inverno 2019-2020). Ci siamo concentrati su un presente angoscioso derubricando i sintomi del dissesto climatico a preoccupazione remota.

Eppure, le due crisi sono simili e strettamente correlate tra loro. Entrambe hanno carattere globale, perché minacciano il genere umano nella sua interezza. Entrambe interpellano il nostro modello di sviluppo: se il salto di specie (la cosiddetta «zoonosi») compiuto dal virus Sars-CoV-2 è figlio della deforestazione, della marcata urbanizzazione, dell’assottigliarsi del confine tra spazi selvatici e spazi abitati dagli esseri umani, il surriscaldamento globale è l’effetto di quello stesso approccio estrattivo che nell’ultimo secolo ha portato a disboscare aree enormi del pianeta, travolto gli eco-sistemi e moltiplicato in modo esponenziale le emissioni di gas climalteranti.

Tutte e due queste crisi mettono a nudo la fragilità dei nostri sistemi: tanto il Covid-19 ha mostrato i limiti delle politiche di smantellamento della sanità pubblica, quanto i mutamenti del clima hanno effetti più virulenti là dove i territori più aggrediti da noi esseri umani sono diventati più vulnerabili, meno preparati ad affrontare shock.

C’è poi una similitudine che ci riguarda ancora più da vicino: così come il virus ha colpito in modo particolarmente tragico il nostro Paese, lo stesso rischia di avvenire con la crisi climatica. Perché l’Italia è un hotspot. Per le caratteristiche morfologiche del nostro territorio e per la sua particolare posizione geografica, siamo più esposti dei nostri vicini europei agli effetti del surriscaldamento globale.

Terra bruciata si propone di raccontare proprio questo: quanto l’Italia sia al centro dell’emergenza climatica. In un lungo viaggio da Nord a Sud, dai ghiacciai alpini che si stanno ritirando alle coste erose dall’innalzamento del livello marino, dai campi agricoli squassati dall’avanzare delle specie aliene alle città sempre più arroventate, da Venezia funestata dalle acque alte alla Sicilia in via di desertificazione, la crisi sta colpendo duramente i nostri territori, con un andamento che non è lineare ma geometrico, ossia ha impatti socio-economici che crescono in modo sproporzionato e catastrofico una volta che alcune soglie vengono oltrepassate. Queste soglie sono vicine e gli effetti della crisi climatica non colpiranno le prossime generazioni in un futuro più o meno lontano, ma si stanno già ampiamente misurando, qui e ora.

Ciò che ho visto per un anno in giro per l’Italia, interloquendo con scienziati, agricoltori, pescatori, urbanisti, semplici cittadini, mi ha trasmesso il senso di un’urgenza irrevocabile. Tutte le persone che ho incontrato, ognuna dal proprio specifico punto di osservazione, mi hanno descritto e mostrato il mutare repentino dei territori in cui vivono. Questi incontri e questi viaggi sono la materia pulsante del libro che avete tra le mani e che, come ogni inchiesta giornalistica, si nutre dell’esperienza delle decine di donne e uomini che hanno accettato di accogliermi, di accompagnarmi in giro per le loro province, di mostrarmi i loro studi, dedicarmi parte del loro tempo. Tutti loro seguono con una certa angoscia gli andamenti climatici, si interrogano su quello che si potrà e dovrà fare. Di tutti loro porto qui un corale grido di allarme per quello che sta accadendo.

Questo libro descrive gli effetti presenti e quelli previsti per il futuro, le azioni di chi sta cercando di mettersi al riparo e di adattarsi alla nuova situazione, ma anche e soprattutto le non azioni di un Paese che non si sta attrezzando a dovere per affrontare l’emergenza. Perché la politica sta reagendo in modo incredibilmente tiepido agli allarmi che scienziati e cittadini lanciano da tempo: se a livello locale alcune città più sensibili stanno mettendo in atto misure di gestione del rischio, a livello nazionale il piano di adattamento ai cambiamenti climatici stilato nel 2017 giace più o meno inattuato.

Se la pandemia che abbiamo affrontato in questi mesi ci ha insegnato qualcosa, è che agire in emergenza è più oneroso che agire in prevenzione. Che affrontare le crisi quando non le si può più ignorare ha costi sociali ed economici infinitamente più alti rispetto ad affrontarle quando cominciano a manifestarsi. Questo è il lascito importante che dovremmo saper cogliere dal Covid-19: non solo la consapevolezza che il modello di sviluppo portato avanti fino a adesso non è più sostenibile, comporta rischi sistemici altissimi e va in larga parte ripensato. Ma anche che questo ripensamento va fatto per tempo, avendo una visione di futuro e agendo con una prospettiva che sia di lungo respiro.

Al momento gli orizzonti dell’azione appaiono invece largamente inadeguati rispetto alla situazione. I dati parlano chiaro: 1665 eventi atmosferici estremi verificatisi solo nel 2019, un aumento delle temperature medie in Italia che ha già sforato gli obiettivi di contenimento previsti dall’accordo di Parigi, un probabile dimezzamento di rese di colture come il mais, il grano e la barbabietola entro il 2050. In un gigantesco processo di rimozione, di questi aspetti poco o nulla si parla. Questi dati, che dovrebbero costituire il perno di un’azione collettiva, non sono elemento di discussione. Sono assenti dal dibattito pubblico – e di conseguenza non rappresentano elementi di priorità nell’azione politica.

Le pagine che seguono hanno l’ambizione di fornire qualche strumento per abbattere il muro di rimozione. Per stimolare un dibattito franco, costruttivo e non ideologico su una questione che non può più essere elusa. Perché l’ampiezza di quello che ho visto girando per l’Italia ha colpito me in primis, come giornalista e come cittadino. Perché la situazione è grave – e rischia di diventare gravissima. E perché è più che mai necessario convogliare le straordinarie risorse umane, morali, culturali di cui disponiamo per fronteggiare con forza questa crisi.

Lo dobbiamo ai nostri figli e nipoti, per garantire loro un futuro, ma anche a noi stessi per dare un senso a un presente che altrimenti rischia di sfuggirci di mano.