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Il Mose, il fantasma della Laguna
Parlare del Mose a Venezia equivale a evocare un fantasma. Il «Modulo sperimentale elettromeccanico», il cui suggestivo acronimo tradisce la speranza di fermare le acque e salvare la Laguna come Mosè fece con il popolo ebraico, è tema bollente in questi giorni di sventura. Concepita negli ultimi anni Ottanta e realizzata a partire del 2003, la barriera rimane tuttora una grande incompiuta. Il Consorzio Venezia Nuova, dominus incontrastato del progetto, assicura che è completo al 94 per cento ed entrerà in funzione alla fine del 2021, ma una sequela di test falliti ha rafforzato uno scetticismo da sempre diffuso contro questa megastruttura calata dall’alto e mai davvero spiegata a chi ne dovrebbe beneficiare: Venezia e la sua comunità. Il Mose è a oggi la più grande opera pubblica mai commissionata in Italia: quasi 6 miliardi di euro pagati per intero dallo Stato, che hanno alimentato un sistema di tangenti su cui la magistratura non ha ancora finito di indagare. Dopo gli scandali che l’hanno travolto, il Consorzio Venezia Nuova è stato commissariato. I lavori si sono ulteriormente rallentati. E il Mose è diventato esempio emblematico di un’Italia immobile e corrotta, patologicamente incapace di immaginare un futuro e bloccata in un eterno presente da cui ognuno cerca di ricavare il proprio personale tornaconto.
La sequela di eventi eccezionali di questi giorni ha fatto riesplodere le polemiche che da anni circondano la struttura. Polemiche sugli infiniti ritardi, i test di sperimentazione condotti in modo più o meno furtivo, le risposte evasive ai dubbi avanzati dai più autorevoli esperti di ingegneria idraulica.16 Molti veneziani reputano il Mose una vera e propria iattura, simbolo di un modello di gestione che ha abbandonato la città e l’ha trasformata in una mucca da mungere. Gli ambientalisti lo vedono come il fumo negli occhi, perché paradigma di una cultura che ha violentato la Laguna, distrutto il suo ecosistema e ora è capace di immaginare solo grandi opere altrettanto impattanti. I negozianti che alzano le paratie a ogni suono di sirena, insieme ai sempre meno numerosi residenti stabili, allargano lo sguardo sconfortati al solo sentir pronunciare la sigla di quattro lettere.
«Il Mose è il frutto di una visione ipertecnologica, che si è data un unico obiettivo: realizzare l’opera più all’avanguardia possibile per risolvere il problema una volta per tutte. È in un certo senso il contrario dell’antica saggezza veneziana, che ha fatto del graduale adattamento alle condizioni della Laguna la chiave di volta della sopravvivenza di questa città.» Questo giudizio tranchant è tanto più sorprendente poiché proviene da uno dei padri del Mose: già direttore della sala di controllo e del centro simulazioni del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Cecconi è stato per anni uno dei volti pubblici della grande opera. Messo in prepensionamento dai commissari perché a suo dire era «troppo indipendente», oggi ha creato Wigwam, un’organizzazione-laboratorio per la resilienza a Venezia, che «vuole favorire il dialogo tra cittadini e portatori di interesse per ragionare sul modello di città futura».
Cecconi è quanto di più lontano dal prototipo dell’ingegnere austero che vive immerso nel suo mondo di numeri e componenti. È un uomo dall’istantanea giovialità, capace di travolgerti con una vitalità debordante, a tratti persino eccessiva. In questi giorni particolari, in cui l’attenzione sulla marea è altissima, è iperattivo. Gira per Venezia come una trottola. Dispensa giudizi. Alimenta discussioni. Guida troupe di giornalisti italiani e stranieri, agganciandoli letteralmente in mezzo alla strada. Io lo incontro al Centro maree, dove piomba all’improvviso insieme a un professore americano chiedendo a Favaro di spiegare al suo ospite il funzionamento dei modelli predittivi. Mi racconta che sta accompagnando un gruppo di studiosi venuto dagli Stati Uniti e mi esorta a unirmi a loro per andare a vedere il luogo dove dovrebbe entrare in funzione il Mose. Non riusciamo a combinare. Ma è solo un rinvio: tre giorni e un paio di acque alte eccezionali dopo, mi carica di buon mattino sulla sua barca per una ricognizione «a 360 gradi intorno a declino e potenzialità di Venezia», come mi dice con una delle sue folgoranti frasi a effetto. L’obiettivo finale della nostra gita è il Mose: l’Arsenale prima di tutto, dove si trovano il cantiere e il centro operativo dell’opera, e poi il canale di San Nicolò, al Lido, dove dovrebbe entrare in funzione una delle quattro barriere preposte a chiudere la Laguna in caso di acqua alta. Ma il giro si rivelerà lunghissimo e istruttivo. Attraverso continue e ridondanti deviazioni, contorcimenti tra isole e canali, incisi verbali simili a quei sistemi di equazioni che si studiavano a scuola, la parentesi tonda dentro la quadra, la quadra dentro la graffa, il mio anfitrione mi offre uno spaccato di una Venezia alternativa, vista dall’acqua e non dalla terra, in cui la città e le isole satelliti mi si mostrano in tutto il loro carattere ambivalente, potentissime e decadenti al tempo stesso, eterne ma tutto sommato effimere, fragili eppure resilienti.
Con il suo fisico asciutto, la faccia squadrata, la parlata torrentizia, Cecconi somiglia in modo impressionante all’attore Robin Williams, e ancor di più per modi e atteggiamenti al personaggio-feticcio da lui interpretato, il professor John Keating dell’Attimo fuggente. Come l’estroso docente del carpe diem, l’uomo appare costantemente sopra le righe, carismatico e visionario, capace di suscitare nei suoi interlocutori un’epidermica ammirazione, che tuttavia non si dà mai del tutto ma mantiene invariabilmente un sottofondo di diffidenza. Esiste un parallelismo innegabile tra il personaggio del film-culto degli anni Ottanta e il ciarliero ingegnere che mi scorrazza sulla sua barca in lungo e in largo per la Laguna: sembrano entrambi animati da un’irruenza al limite dell’avventatezza, del tutto discordante rispetto allo spirito dei tempi in cui vivono, che li condanna a perseguire un’opera di costruzione del futuro tanto eroica quanto prevedibilmente fallimentare.
La giornata è di una bellezza commovente. Il sole freddo che si riflette sull’acqua inonda i palazzi di marmo del Canal Grande di quella luce vivida e brillante che rende Venezia davvero unica. Cecconi guida la barca e parla. Misura con un metro l’altezza di acqua e maree. Indica edifici, scatta fotografie. Mentre tiene il timone con una mano, con l’altra fa dirette che posta sulla sua pagina Facebook. Mostra – a me e ai suoi interlocutori digitali – gli effetti delle ultime acque alte: un pezzo di passerella che galleggia alla deriva; una coppia di anziani che asciuga in giardino attrezzi e indumenti da lavoro, estraendoli con cura da un magazzino inondato; un gondoliere che chiede un passaggio per raggiungere la sua barca legata a un palo di legno, rimasto isolato in mezzo al canale come uno spaventapasseri in un campo di girasoli. La città si sta leccando le ferite, sta contando i danni subiti e si prepara a un altro scossone. Oggi è un giorno di tregua ma per domani sono previsti di nuovo 150 centimetri.
Abbordiamo alcuni edifici storici. Vediamo il museo della Ca’ d’oro, la cui facciata finisce regolarmente sotto l’acqua, insieme al pavimento di marmo restaurato a inizio Novecento. «Sono a un livello tale per cui richiedono una continua azione di ripristino. È una lotta senza speranza.» Passiamo sotto al ponte di Rialto, da cui pende uno striscione affisso dagli attivisti dei Fridays for Future, che recita a grandi lettere: «Uniti contro i cambiamenti climatici, è tempo di agire». Parliamo degli effetti del livello delle maree che cresce sempre di più, del futuro di Venezia esposta alle conseguenze del clima, di una consapevolezza ormai diffusa che tuttavia non trova grande sponda nei responsabili politici. Sorridiamo dell’ultimo grottesco episodio citato da tutti i giornali: qualche giorno prima, il consiglio regionale del Veneto ha respinto una mozione dell’opposizione per decretare l’emergenza climatica, salvo finire subito dopo allagato dall’acqua alta.
Cecconi integra dettagli tecnici con continui riferimenti storici e letterari. Di ogni edificio conosce glorie e miserie, aneddoti e curiosità. Mi parla delle ricerche di Dario Camuffo, il professore dell’Università di Padova che ha avuto l’intuizione di usare i quadri del Canaletto come riferimento per studiare l’evoluzione di Venezia nel corso dei secoli. Poiché il pittore vedutista usava la tecnica della camera oscura, dalle sue opere emerge un’istantanea precisissima dello stato della città. Confrontando i quadri con le foto di oggi, Camuffo ha dimostrato che dal Settecento il livello dell’acqua si è alzato di 70 centimetri. Conducendo poi altre ricerche subacquee, ha dedotto che dall’Alto Medioevo c’è stato un innalzamento pari a 1,30 metri.17
Proseguiamo sul Canal Grande, abbagliati dai raggi del sole che si riverberano sulle acque. Ci fermiamo accanto a un altro palazzo, vicinissimo al Casinò. «Ti faccio vedere qualcosa di straordinario» mi dice con il consueto entusiasmo. Sull’orlo della facciata, una fila di teste di leone boccheggia a pelo d’acqua. «Quelle statue dalle diverse espressioni erano state costruite per dare lustro all’edificio. Guarda ora dove stanno, sono quasi invisibili. Il livello è salito di almeno un metro dall’epoca della costruzione.» Una serie di gradini che spariscono in mezzo all’acqua confermano le sue parole, così come le ricerche paleo-pittoriche del professor Camuffo. Le statue appaiono attraversate longitudinalmente dal segno verde delle alghe. «Quella linea è il segnale delle medie e alte maree. A me piace pensarla simbolicamente come una benda che i leoni hanno deciso di mettersi sugli occhi, per non vedere l’abbandono in cui sono stati lasciati.»
Cecconi ripete spesso questa parola: «abbandono». Parla di una città che ha dimenticato se stessa e il proprio passato ed è incapace di pensare un modello alternativo a quello attuale, che la sta uccidendo. Condanna la «monocoltura del turismo», che vede l’ex capitale della gloriosa Serenissima Repubblica trasformata in una Disneyland senz’anima, dove le grandi navi da crociera scaricano ogni giorno torme di avventori occasionali. «Venezia si consuma nell’indifferenza di cittadini e commercianti, che festeggiano quel giro di giostra costituito dall’arrivo di migliaia di turisti.»
È l’eterno dilemma tra «città-museo» e «città-abitata», tra un modello che sceglie di puntare esclusivamente sul turismo e un altro che invece si immagina più composito, regolamenta l’afflusso di visitatori e facilita politiche di alloggio a misura dei residenti. Venezia sembra aver decisamente imboccato la prima strada: nella parte lagunare oggi vivono meno di 60.000 persone. Sono per la gran parte dei resistenti, come Anna e Gianni, che accettano la fatica di rimanere in un luogo unico e suggestivo ma sempre più estraneo verso chi lo abita. Gli altri se ne vanno, scacciati dagli affitti troppo alti, dalla scomparsa dei servizi essenziali, dallo snaturamento progressivo della città. Un contatore in una farmacia vicino a Rialto registra i numeri di questo esodo: oggi segna 52.336 abitanti. «Nel 1931 c’erano 163.559 abitanti, 145.402 nel 1960, 111.550 nel 1970, 95.222 nel 1980, 78.165 nel 1990, 66.386 nel 2000»18 segnala il sito dell’associazione che l’ha installato. A queste cifre ne corrisponde un’altra: nel corso di un anno, Venezia è visitata da 25 milioni di turisti. È una media di 70.000 al giorno, più di tutti gli abitanti messi insieme. E se questi ultimi decidono di andare altrove, sulla terraferma, non è per le maree, ma proprio perché soffocati dal turismo di massa, che ha trasformato la città, l’ha svuotata di senso e contenuti, rendendola sfondo per una cartolina unidimensionale in cui la stessa acqua alta diventa un fenomeno da selfie.
«Venezia è frastornata da un’autoreferenzialità, che la porta a non immaginarsi altrimenti. Può risorgere solo con un nuovo patto tra i suoi cittadini, che ricomincino a comunicare tra loro e a concepire un futuro alternativo» sostiene Cecconi. Questo sembra il principale compito che si è dato lui stesso con la sua socialità ipercinetica: far parlare le persone tra loro, ricostruire un tessuto di fiducia collettiva. Per questo è attivo sui social network e sul territorio. Per questo, mentre giriamo in barca, raccoglie freneticamente su un taccuino mail e contatti. Tenta di stringere una rete dal basso, puntando a scrollarsi di dosso il ruolo per cui tutti qui lo conoscono: quello di uomo del Mose.
Sulla barriera Cecconi ha una posizione ambivalente. La difende dai suoi numerosi detrattori, anche perché a essa ha dedicato buona parte della propria vita professionale. Ma in fondo sa che è il frutto di scelte sbagliate. Riconosce che si tratta di un’opera faraonica, in parte figlia di un delirio di grandezza, in parte della molto più prosaica esigenza di spendere il massimo per potersi spartire una torta più sostanziosa. È consapevole che altre soluzioni, meno costose e più rapide, potevano essere trovate, magari anche con un approccio di adattamento graduale. Che quest’investimento colossale ha drenato tutte le risorse per Venezia, facendo mancare i fondi per l’ordinaria manutenzione dei canali.
L’ingegnere non lesina critiche al Consorzio, non solo perché si è privato di una risorsa inestimabile come lui, ma anche e soprattutto perché porta avanti il progetto senza informare i veneziani. «Non capiscono che devono comunicare, ascoltare, confrontarsi con la cittadinanza.» Ha però parole di fuoco anche per gli ambientalisti, colpevoli a suo dire di «rinnegare l’essenza stessa della Laguna, un paesaggio in transizione che nei secoli l’essere umano ha adattato alle proprie esigenze».
La sua posizione è quella, del tutto originale, di fautore critico del Mose. Respinge le obiezioni sul funzionamento, sulla sua presunta caducità perché progettato su livelli del mare ormai cresciuti («È in grado di arginare maree alte fino a 3 metri»), sull’impatto che avrà sull’ecosistema lagunare. Se ammette che altre opzioni potevano essere prese in considerazione, sostiene pragmaticamente che il dado ormai è tratto. «L’opera è quasi finita ed è l’unico argine possibile all’avanzare delle maree determinato dal cambiamento climatico.»
Mentre mi ripete varie volte tutte queste considerazioni, arriviamo finalmente al canale di San Nicolò, alla bocca di porto di Lido, in uno dei luoghi dove il Mose dovrebbe entrare in azione. L’opera è lì, ma non si vede: è a 12 metri sotto l’acqua. Cecconi mi spiega come funziona. È composta da una serie di cassoni incardinati al fondale, a cui sono agganciate delle paratoie piene d’acqua, che in caso di maree eccezionali vengono svuotate e riempite d’aria compressa, così da sollevarsi in virtù del principio d’Archimede. «Qui sotto ci sono venti paratoie di 20 metri l’una, che coprono i 400 metri di larghezza della bocca.» L’apertura della Laguna sul mare al livello del Lido era troppo ampia, perciò è stata costruita un’isola artificiale, che divide due diversi sistemi di paratoie. In tutta la Laguna le barriere sono quattro: alle due qui al Lido, se ne aggiungono altre due, una a Chioggia e una a Malamocco.
Poiché è sommersa ed è sottoposta alla permanente aggressione di sale, alghe e molluschi vari, l’opera ha costi di manutenzione elevatissimi. «È come tenere una Ferrari in un garage pieno d’acqua.» Ma questi costi, aggiunge l’ingegnere, sono del tutto sostenibili, soprattutto se commisurati agli enormi benefici che la barriera apporterà quando sarà in funzione: «La manutenzione annuale del Mose dovrebbe costare intorno ai 100 milioni di euro. L’acqua alta del 12 novembre ha fatto 500 milioni di danni, forse addirittura un miliardo».
Nonostante le riserve che esplicita, Cecconi in fondo crede che il Mose salverà Venezia, e non solo dalle acque alte. Pensa che possa essere il motore per un nuovo inizio, un’inversione di rotta, un ripensamento intimo di questa comunità «che ha perso la capacità di guardare davanti a sé e si riflette perennemente in uno specchio retrovisore». Creerà posti di lavoro per la manutenzione. Porterà benefici generali e spingerà i veneziani a riappropriarsi della propria città in un sussulto di orgoglio. Cecconi crede in una funzione catartica del Mose e in questo sembra vittima di quella stessa megalomania di chi quest’opera l’ha immaginata. Ma su un punto certamente ha ragione, al di là delle diverse posizioni, dello scontro affannoso tra sostenitori e avversari del progetto: se effettivamente le acque alte eccezionali saranno sempre più frequenti, come mostrano i grafici del Centro maree e le previsioni di Cavaleri e dei suoi colleghi dell’Ismar-Cnr, è più che mai urgente trovare soluzioni in grado di salvaguardare la sopravvivenza di Venezia e di tutta la Laguna.
Le altre isole, dove l’acqua è entrata dappertutto
Che poi si parla sempre della città monumentale, di piazza San Marco, del ponte di Rialto. Ma le acque alte di questi giorni hanno colpito l’intera area lagunare, e in modo più devastante le altre isole, perché lì hanno trovato comunità meno attrezzate, con minori disponibilità economiche e necessariamente più esposte. Gli effetti più violenti della marea mi si parano davanti agli occhi in modo quasi feroce alla Giudecca. Nel lato esterno, quello che affaccia verso la Laguna e non verso la città, un vaporetto è accasciato su un fianco. Sommerso per metà, sembra reduce da una battaglia impari contro forze invincibili. Tutto intorno il paesaggio pare bombardato. Il cosiddetto «giardino Eden» del pittore viennese Friedensreich Hundertwasser, precluso a ogni visita perché l’artista voleva che qui la natura seguisse il suo corso lontana da ogni contaminazione umana, si offre spalancato e inerme agli occhi dei passanti. Il muro di protezione è crollato.
Poco più in là, in un comprensorio di case popolari, i residenti contano i danni. Un cipresso altissimo, saranno 30 metri, si è schiantato al suolo, andando per miracolo a incastrarsi nello spazio compreso tra due edifici. Il molo per l’attracco delle barche si è sgretolato. Il muricciolo che separava il cortile dall’acqua è anch’esso scomparso, polverizzato dall’onda di marea; 20 metri più indietro, i piani più bassi delle case sono ancora immersi nel fango. I condomini riuniti in giardino ripuliscono oggetti, casse, persino una lavatrice probabilmente non più funzionante. Una bambina di sette-otto anni, vestita di tutto punto, raccoglie da terra detriti, pezzi di vetro ossidati, parti di oggetti portati dall’acqua. «Ecco la mia principessa delle macerie» dice la madre, una donna dai profondi occhi azzurri che racconta la notte di paura, il vento che fischiava fortissimo attraverso le tapparelle abbassate, lo schianto fragoroso dell’albero che cadeva.
La donna, che si chiama Barbara, ha uno sguardo duro e dolce al tempo stesso. Trattiene a stento le lacrime mentre guarda la sua casa oggi minacciata, mentre ricorda il terrore provato a stare in attesa dietro l’onda che saliva. E mentre pensa a un futuro che le sembra più che mai incerto. Ha parole di ammirazione per la gente venuta a portare solidarietà, ad aiutarli a pulire. «Sono arrivati persino dal Friuli.» Dalle istituzioni invece si sente abbandonata. Del comune non si è visto nessuno, neanche un messaggio o una telefonata. Non sa se e quando il muretto sarà ricostruito. E così, insieme agli altri residenti, osserva la Laguna. Urla contro i motoscafi che passano rombando e alzano onde che per loro sono come pugnalate, perché fanno avanzare verso le loro case il limite del bagnasciuga. Con gli stivali di gomma sempre ai piedi, sta sul ciglio dell’acqua, consapevole di vivere ai margini di una storia che sta cambiando, e dalla quale potrebbe essere esclusa.
A Pellestrina, tra i guardiani del faro
Ancora più marginale è Pellestrina. Lunga 11 chilometri e larga neanche 100 metri, questa striscia di terra è l’ultimo avamposto della Laguna, tanto lontana da Venezia quanto necessaria alla sua sopravvivenza. Arrivarci non è cosa agevole: bisogna prendere un vaporetto fino al Lido, qui salire su un autobus che fa un lungo tragitto su strada e viene poi caricato su una motozattera per attraversare l’ultimo tratto di mare. Un’ora e mezzo di viaggio, al termine del quale vengo proiettato in un luogo che pare sospeso in un’epoca remota: una fila di case variopinte, una scuola elementare, una media, qualche bar e una manciata di ristoranti per i rari turisti di passaggio. Qui vivono quattromila anime, quasi tutti pescatori, tanto ingarbugliatamente e reciprocamente imparentati tra loro da doversi chiamare con il «detto», il soprannome. Pellestrina è l’isola-argine, l’ultimo scudo prima dell’Adriatico. Al di là della grande barriera dei Murazzi, c’è il mare aperto. Al di qua il paesino. Ancora più in qua la Laguna, che il 12 novembre è entrata dentro le case.
Gildo Scarpa, detto il Perla, mi racconta cosa è accaduto quella notte. L’onda ha superato il muro divisorio costruito lungo l’argine ed è rimasta bloccata dentro. L’acqua è arrivata a un metro di altezza. Ha invaso gli appartamenti. Sollevato le barche. E fatto fluttuare le automobili come se planassero su un fiume. In questo scenario di caos, un anziano è morto fulminato da un cortocircuito mentre cercava di staccare una presa. «Ma poteva andare molto peggio. Abbiamo rischiato grosso: la marea è salita a una velocità incredibile, in pochi minuti.» I sifoni idraulici non hanno funzionato, l’acqua non è stata pompata via e l’intera comunità ha dovuto aspettare un giorno intero prima di poter di nuovo respirare.
Il Perla ha più di settant’anni. Ha passato la vita in giro per il mondo su navi da crociera, prima di tornare a casa e mettersi a fare il pescatore. Ricorda bene anche l’alluvione del 1966, quando l’onda è salita altrettanto, ma molto più lentamente. «Questo qui invece è stato come uno tsunami.» Con la sua faccia scavata dagli anni in mare e la parlata cantilenante e a tratti incomprensibile del veneto lagunare, mi dà la sua personale versione sul ruolo dell’isola. «Noi siamo qui a presidiare la Laguna. E saremo i primi ad andare sott’acqua. Siamo le cavie di Venezia.» Non ha torto: sottile come una membrana, Pellestrina è triplice frontiera. Di fronte ha il mare, ai lati le due bocche di porto, quella di Malamocco e quella di Chioggia. Scudo naturale per la più preziosa Venezia, ha quella fragilità liminare che la espone alla forza dei marosi e del vento, all’onda impazzita che può arrivare al di là del muro e sfondare le finestre, come effettivamente è accaduto l’altra notte.
Insieme al Perla c’è il suo amico Giannino Busetto. Pure lui ne ha viste tante in questi anni, anche se il 12 novembre era in ospedale a Chioggia per una piccola operazione e si è risparmiato lo spettacolo. Seduti nel salotto di Giannino e della moglie Amabile, al primo piano di una casa tanto vicina all’acqua che quasi si può pescare lanciando la lenza dalla finestra, ripercorriamo la storia più recente di Pellestrina, i cambiamenti della Laguna e l’evoluzione della pesca, tra scomparsa delle specie e maree imprevedibili. Amabile e Giannino hanno sempre vissuto qui, «e mai andrebbero via». Lui fa il pescatore da quando aveva sei anni, come suo padre, prima di lui suo nonno e giù giù per varie generazioni. Sono passati dalla sussistenza a un minimo di agio grazie alla coltivazione delle cozze, di cui ora si occupano i due figli. Per una vita l’uomo, che oggi ha settantacinque anni, ha condotto la stessa routine: da casa al mare, dal mare a casa, la notte o il giorno a seconda delle stagioni. Amabile invece neanche sa nuotare. «E sono pure figlia, moglie e madre di pescatori» dice ridendo a crepapelle. «Ma come si fa a vivere su un’isola e non saper nuotare?» le chiedo esterrefatto. «E perché avrei dovuto imparare? Quando si era giovani noi, mica si andava in spiaggia. Stavamo sull’uscio a ricamare. Nei ricami sono brava» mi dice porgendomi un telo. Giannino la prende in giro. Mi racconta di quando durante una vacanza in Repubblica Dominicana sono andati a cavallo e a un certo punto l’animale si è lanciato in acqua. «Dovevi vederla, si agitava come un’ossessa.» Sono sposati da quarantotto anni, ma scherzano e si becchettano come due ragazzini.
Per Amabile, Pellestrina è il mondo intero. È un’isola, ma non un luogo isolato. È il posto dove è nata, è cresciuta, si è sposata e ha messo al mondo i figli. Non si immagina da nessun’altra parte e non pensa che imparare a nuotare sia così utile, perché andare a fare il bagno non è un’occupazione contemplata nella sua vita ordinaria e sempre uguale. Amabile, Giannino e il Perla, che è il cosmopolita del gruppo perché ha girato il mondo sulle navi, sono puri prodotti di Pellestrina, di un mondo antico in cui gli uomini andavano a pesca e le donne stavano a casa a ricamare o a cucinare. Un mondo antico che qui continua a perpetuarsi, adattandosi ai tempi moderni in una direzione che a loro non sempre piace. «Nella famiglia di mio nonno erano sedici fratelli, in quella di mio padre otto, noi eravamo quattro, io ho fatto due figli e non ho neanche un nipote» mi dice Giannino, proponendo in una semplice frase un’istantanea vivida e brutale della storia d’Italia degli ultimi centocinquant’anni.
Amabile insiste per farmi provare un piatto di gamberi al sugo nonostante siano le cinque di pomeriggio. Io li assaggio e ringrazio della squisitezza fuori orario. Giannino e il Perla mi parlano della Laguna. Non sanno nulla dei cambiamenti climatici, della temperatura che aumenta a livello globale, del mare che si alza per la fusione dei ghiacciai. «Siamo solo pescatori.» Ma proprio da pescatori raccontano di un mutamento che hanno visto, della scomparsa di alcuni pesci e dell’arrivo di altri, di un’acqua che diventa sempre più salata e della laguna che nelle loro parole si è trasformata in una latrina mentre prima era un vivaio. Non è tanto il risultato del clima, dicono loro, ma dell’incuria. Della mancanza di manutenzione. Della scarsa attenzione per gli equilibri dell’ecosistema. E, in ultima istanza, degli scavi che si sono fatti per il Mose.
La grande opera è l’elefante nella stanza. Secondo loro, per installare i cassoni si è scavato in profondità, modificando la quantità d’acqua di mare che entra in Laguna e di conseguenza lo stesso comportamento delle maree. Loro non sono scienziati. Non hanno dati. Raccontano solo ciò che vedono giorno per giorno. E quello che vedono a loro non piace. L’ultima inondazione, con le pompe idrauliche andate in panne, è stata la certificazione del fallimento di un progetto a cui non hanno mai veramente creduto. «Ci avevano assicurato che eravamo protetti, che con il muro e i sifoni non sarebbe successo nulla. E invece…» Ma il Mose, obietto io, potrà essere una salvezza per voi. Pellestrina è letteralmente circondata da due sistemi di paratoie. Quando e se mai la grande opera entrerà in azione, l’isola sarà proprio nel mezzo, protetta su due lati. Acque alte come quella del 12 novembre non si verificheranno più. «Il Mose è fatto per salvare Venezia, noi siamo solo sentinelle sul faro» mi risponde il Perla.
Guardando l’argine così vicino al salotto da cui parliamo, ripensando alla signora Barbara che ho incontrato alla Giudecca tra le macerie del suo muretto crollato, ad Anna e Gianni che combattono e si abbattono nel loro appartamento al piano terra, rifletto che con ogni probabilità il mare che si alza sempre più travolgerà tutti loro o i loro nipoti come un’onda anomala, mentre si farà di tutto per salvare la Venezia monumentale, quella per i turisti, sempre pronti a scattare foto e selfie in una città diventata magari parzialmente subacquea ma che rimarrà sempre e comunque disponibile a offrirsi ai visitatori venuti ad ammirarla da tutto il mondo.