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Il Po, il gigante abbandonato

Pian del Re, Alpi Cozie, provincia di Cuneo. Granitica e imponente nella sua inconfondibile forma triangolare, la cima del Monviso domina il paesaggio. Ai suoi piedi, in mezzo a un altopiano di pietre e muschio, un’incisione su un masso indica eloquente: «Qui nasce il Po». In realtà non si vede granché: solo un rigagnolo. Ma questo striminzito corso d’acqua, frutto di uno zampillo che emerge timido da una falda sotterranea, acquisterà vigore e forza. Si unirà ad altre decine di torrentelli. E diventerà il fiume più lungo d’Italia, spina dorsale del Paese e oggetto in passato di convulsioni identitarie e leggendarie battaglie politiche. È proprio qui a Pian del Re che l’ex segretario della Lega Umberto Bossi veniva a riempire la famosa ampolla che svuotava poi nella Laguna di Venezia, emblema di uno spirito padano che allora era pilastro e ragion d’essere del partito del Nord. Oggi il Po, con i suoi andamenti ciclici, è la cartina di tornasole di un altro più incisivo fenomeno: le sue frequenti secche estive, così come le piene che in autunno irrompono in modo improvviso sotto la spinta di piogge di rara intensità, ci raccontano del sempre più evidente cambiamento climatico che sta colpendo il nostro Paese. Ci mostrano che il fronte del riscaldamento globale sta agendo qui da noi con impatti che fatichiamo a misurare nella loro effettiva portata.

«È un mutamento rilevante che tuttavia non sembra interessare molto l’opinione pubblica o la politica, se non quando il fiume si secca o quando c’è pericolo di alluvione.» Stefano Fenoglio è uno dei massimi conoscitori di questo tratto alpino del Po. Qui è nato e si è formato, fin quando da bambino andava a pesca con il nonno e tornava con esemplari di insetti che poi catalogava in quelli che erano i suoi personalissimi e alternativi album di figurine. Oggi è un professore cinquantenne di Ecologia fluviale, dalla lunga barba rossa e dal sorriso avvolgente. Insegna all’Università del Piemonte orientale, ad Alessandria. Si è spostato in pianura, anche se i suoi studi e i suoi interessi lo portano spesso qui. Collaboratore attivo del Parco del Monviso, si è inventato un osservatorio di fiumi alpini, il cui obiettivo principale è capire quanto i cambiamenti climatici stiano modificando il comportamento dei corsi d’acqua di queste zone.

È con lui che sono venuto quassù a Pian del Re in una giornata nuvolosa di mezza estate. Stefano è quasi mortificato perché le nubi non mi consentono di apprezzare a pieno il profilo volitivo del Monviso, che nei giorni nitidi si distingue persino dal Duomo di Milano. Guarda il cielo e maledice quelle nuvole che ogni tanto si aprono per regalarci qualche effimero scorcio, prima di inghiottire nuovamente la cima in un baratro di invisibilità. Sulla spianata ci sono pochi turisti e un paio di escursionisti. Il bar è semideserto. Camminiamo saltellando tra le rocce. A tratti lui alza dei sassi a caccia della salamandra nera di Lanza, esemplare che si trova solo da queste parti. Ma ancora una volta siamo sfortunati: la giornata è poco propizia, anche l’anfibio locale non ha alcuna intenzione di palesarsi.

Il fiume che qui nasce è il simbolo dell’Italia: lungo 652 chilometri, ha un bacino idrico che si compone di centoquarantuno affluenti, attraversa sette regioni e copre un’area di 71.000 chilometri quadrati. Intorno al Po – alle sue diverse ramificazioni, al suo andamento sinuoso, al suo gorgheggiante e imprevedibile carattere – si sono costruite storie, leggende, identità. Il Po di montagna non è lo stesso che si allarga nel mezzo della Pianura Padana, plasmandola. Quello piemontese, che attraversa Torino in pompa magna, non è lo stesso che scorre nel segmento lombardo-emiliano, confine di regioni e di culture spesso discordanti. Nessuno di questi tratti ha nulla a che vedere con l’immenso fronte del Delta, che da Pontelagoscuro si allunga incerto verso il mare tra le province rivali di Rovigo e di Ferrara. Specchio dell’Italia dei mille comuni e delle mille tradizioni non sempre assimilabili, nessuno conosce veramente questo fiume nella sua interezza. Ognuno ne sa un pezzo, quello lungo il quale vive o che frequenta, relegando il resto a nozioni orecchiate, letture distratte, racconti di terza mano.

Da Pian del Re comincio una ricognizione, necessariamente parziale, dell’immenso corso d’acqua, facendomi aiutare nei vari punti da coloro che a vario titolo lo monitorano, lo osservano, lo vivono. Qui, alle falde del Monviso, non c’è persona più indicata di Stefano Fenoglio, che ne segue con costanza l’andamento, i capricci, le evoluzioni. E che ne ripercorre la storia anno per anno.

Il professore ricorda la grande siccità del 2017, quando la falda si era quasi prosciugata e a valle il fiume si era ridotto a un rivolo, con effetti devastanti sull’agricoltura e sul paesaggio. «Sono stato io a diffondere quella foto della sorgente secca di Pian del Re che ha fatto tanto scalpore.» In quell’immagine, pubblicata in prima pagina dalla «Stampa» e ripresa da diversi media, il rigagnolo era scomparso. Il masso che indica la sorgente troneggiava asciutto sul pianoro riarso dal sole. «Quell’anno tutto un sistema è entrato in crisi. All’epoca stavo facendo uno studio su diciassette corsi d’acqua alpini. Di questi, tredici erano in secca. Poi ovviamente è il Po che ha fatto notizia.» Con la fusione dei ghiacciai e la diminuzione dell’apporto di neve in inverno, la sorgente è sempre meno rigogliosa. Il fiume si alimenta soprattutto di acqua piovana, che viene portata nel letto principale dai suoi numerosi affluenti. Ma se non piove, si prosciuga. E dal momento che c’è meno neve in alta quota, la falda rimane vuota. Qui alle pendici del Monviso misuro in tutta la sua evidenza quello che mi hanno detto Scotti e i suoi colleghi glaciologi in Valtellina: con la scomparsa dei ghiacciai, si registrerà una riduzione di un’importante fonte di acqua fossile più in basso.

Fenoglio e i suoi collaboratori studiano l’andamento dei corsi d’acqua mediante degli apparecchi chiamati piezometri, una sorta di tubi che conficcano nell’alveo fluviale. Il professore mi porta a vederne uno in una zona più a valle: la sonda sporge dal terreno e scende in profondità fino a 3 metri. Anche se la portata non è calata come nel 2017, il Po è comunque in magra. Il piezometro emerge da un letto di pietre, che raggiungiamo agevolmente a piedi. «Questo strumento ci consente di studiare l’andamento del fiume quando non lo si vede. E di seguire la sua evoluzione biologica e chimica: come cambia la composizione delle acque, quante specie resistono.» L’apparecchio si basa su un principio semplice: anche quando il fiume scompare dalla vista, continua a scorrere sottoterra, e con lui tutta una serie di organismi che vivono nell’acqua. «Nel 2017 lo strumento non ha pescato, il che vuol dire che il fiume è sceso sotto i 3 metri. È stata un’esperienza catastrofica e unica nel suo genere.» Quello fu un anno terribile: le precipitazioni diminuirono del 27 per cento rispetto alla media e le temperature furono più alte di 1,2 gradi. La grande sete colpì i raccolti, devastò l’agricoltura e ridusse il regale Po all’ombra di se stesso. «La portata ha raggiunto i minimi da quando si fanno rilevazioni.» Purtroppo, aggiunge, «è una tendenza alla quale dovremo abituarci».

A leggere i dati degli ultimi anni, c’è da preoccuparsi davvero: il regime delle portate nel bacino del Po è una linea discendente, in particolare in estate. Gli eventi di magra sono sempre più frequenti e hanno tempi di ritorno più ravvicinati. Negli ultimi vent’anni, oltre al periodo eccezionale del 2017, ci sono state crisi idriche nel 2003, 2006, 2007, 2011, 2012 e 2015. Non è che piova meno in termini assoluti: la quantità d’acqua annuale è più o meno la stessa, solo che è distribuita in modo diverso: le precipitazioni sono meno frequenti ma molto più intense. Questo vuol dire che le magre e le piene saranno sempre più all’ordine del giorno e sempre meno gestibili. In particolare, da gennaio ad agosto, quando l’acqua serve all’agricoltura, alla chiusura del bacino a Pontelagoscuro, vicino a Ferrara, è stato registrato un calo di portata medio negli ultimi anni del 45 per cento.11 Se lì il dato è addebitabile anche alla maggiore cattura per uso idrico (irrigazione, industria, utenze domestiche), qui a Pian del Re risponde a un più semplice rapporto di causa-effetto: il fiume si secca perché ci sono meno acqua e meno neve.

La diminuzione di portata, insieme all’aumento della temperatura, modifica tutta una serie di altri elementi e cambia l’ecosistema nel suo complesso: diversi organismi non hanno capacità di riprodursi in letti secchi e sono destinati a scomparire. Fenoglio sfodera le sue competenze di entomologo per farmi una dotta dissertazione su ambiente fluviale, cambiamenti climatici e probabile estinzione di alcuni organismi a lui cari. «La maggior parte delle specie di acqua dolce sono adattate a vivere in un determinato intervallo termico, la cui alterazione anche lieve può avere un notevole effetto su diversi processi fisiologici e metabolici, influenzando addirittura la sopravvivenza delle specie più stenoterme, cioè incapaci di sopportare eccessivi sbalzi di temperatura.»

L’osservatorio si occuperà proprio di questo: sperimentare come reagiscono il Po e altri fiumi della zona al variare delle condizioni climatiche. Il progetto prevede la costruzione di sei canali paralleli al fiume lunghi 25 metri, in cui è possibile modificare artificialmente le variabili – temperatura, portata, velocità – per capire cosa ci si debba aspettare nei prossimi anni.

Fenoglio in questo è un pioniere: è tra i pochi in Italia a studiare il corso dei fiumi alpini. Ma è un pioniere unico nel suo genere, perché precorre il futuro guardando al passato. Così, ha deciso di collocare il quartier generale dell’osservatorio non a Torino, ma a Ostana, un borgo della zona che una comunità di giovani sta rivitalizzando, salvandolo dall’abbandono.

È una storia strabiliante quella di questo paese abbarbicato su un monte a 1200 metri d’altezza: dopo aver visto calare i propri abitanti da mille ad appena cinque all’epoca delle grandi migrazioni verso le città operaie, oggi si sta ripopolando. Le decine di donne e uomini che hanno scelto di trasferirsi qui nelle case rimaste deserte per anni stanno ridando vigore ad antiche tradizioni, destinate altrimenti alla scomparsa. Il paese è uno dei centri principali dell’Occitania, quella nazione senza nazione che nel Medioevo attraversava le valli alpine e veniva cantata dai grandi trovatori. La lingua d’Oc – o «provenzale alpino», come lo chiamano qui – è ancora parlata e l’orgoglio identitario emerge dallo stendardo a croce gialla su sfondo rosso, che sventola fuori dal municipio vicino alla bandiera italiana e a quella europea.

Fenoglio mi presenta alcuni degli abitanti del luogo, fra cui la sindaca Silvia Rovere e il marito José, finiti tempo fa su tutti i giornali perché il figlio Pablo è stato il primo neonato di Ostana, simbolo della rinascita dei borghi montani. «Sono venuti persino la Bbc e il “Washington Post”» racconta lei divertita. Poi andiamo a visitare la sede dell’osservatorio: è una struttura di legno con annessa una foresteria per gli studenti, le cui grandi vetrate regalano una vista spettacolare sul Monviso. L’edificio è ancora mezzo vuoto, ma tra poche settimane entrerà in funzione, grazie a un finanziamento europeo. Il professore non nasconde la gioia per essere riuscito a realizzare un progetto così ambizioso in un posto considerato marginale. «Questo osservatorio è il frutto dell’incrocio tra eresia e utopia: è qualcosa fuori dall’ordinario, che rovescia gli schemi e prova a concepire un futuro diverso.»

Fenoglio insiste su questo punto: immaginare il futuro a partire dalla riscoperta del passato. Il cambiamento climatico che lui osserva agire sui fiumi di montagna è un monito, ma anche uno stimolo a rivedere un modello di sviluppo che ha estratto risorse, sfruttato il territorio, abbandonato meccanismi di gestione una volta più equilibrati. «I fiumi oggi si ribellano perché li abbiamo svuotati e irregimentati.» Così quando non piove, scompaiono. E quando aumentano le precipitazioni, si scatenano.

Mentre scendiamo a valle, ci fermiamo a Crissolo, un piccolo paese che grazie alla vicinanza con Pian del Re si è trasformato in un importante centro turistico. Ci sporgiamo da un ponticello che affaccia sul corso del Po. Non c’è tanta acqua, il fiume scorre tranquillo. Ma l’alveo sembra costipato, stretto tra due argini alti che vorrebbero tenerlo sotto controllo. Tutto intorno, case, edifici, negozi. Il paese vecchio – sottolinea Stefano – è in cima alla collina. «Perché le generazioni precedenti conoscevano il territorio e lo rispettavano. Non si mettevano a costruire sulle rive.» Mi indica i lati, quei due grandi muri eretti per impedire all’acqua di fuoriuscire. «Queste difese spondali accelerano il fiume e la sua capacità erosiva. Vuol dire che quando piove aumenta di velocità e, se esonda, avrà una maggiore forza distruttiva.» Crissolo è solo un esempio, mi dice Fenoglio. Ci sono decine di situazioni analoghe in tutta la zona. Oggi, secondo il professore, i fiumi sono ignorati, trascurati, vissuti quasi come un fardello, un ostacolo allo sfruttamento del territorio. «Bisogna ricominciare a considerarli una risorsa e gestirli in modo adeguato. Rispettarli e saper ascoltare i messaggi che ci lanciano, quando si seccano o quando vanno in piena. Perché il futuro vedrà sempre di più fenomeni estremi, siano essi ondate di calore o bombe d’acqua, e non possiamo più permetterci di perpetuare questo modello di gestione che ci porterà alla catastrofe.»

A Boretto, nel cuore della Bassa

400 chilometri più a valle dall’altopiano dove nasce, il Po ha tutta un’altra forma. Al porto fluviale di Boretto, cittadina emiliana sdraiata proprio sull’argine maestro, il fiume è signore e padrone. Una placca accanto alla cattedrale ricorda la grande alluvione del 1951, quando le acque tracimarono e raggiunsero i primi piani delle case, spingendo centinaia di persone a cercar rifugio a Reggio Emilia. Siamo nel cuore della «Bassa», territorio di ciclopiche nebbie e fatiche contadine, musa ispiratrice dell’arte sofferente e allucinatoria di Antonio Ligabue, teatro dello scontro tanto aspro quanto immaginario tra don Camillo e il sindaco Peppone. Regione di contraddizioni e sintesi impossibili proprio perché piatta fino al parossismo in un Paese intriso di montagne, priva di confini naturali, e quindi naturalmente protesa all’inclusione. «Quadro senza cornice in perenne estensione» la definì il regista Bernardo Bertolucci.12

Qui il fiume si alza e si abbassa, si allarga e invade le golene, per poi partorire isole di sabbia dai misteriosi e volubili contorni. È un organismo in perpetua trasformazione che l’essere umano cerca di imbrigliare, per timore della sua furia distruttrice. Tanto estesa e indefinita è la pianura, quanto chiuso in uno spazio confinato e chiaro è il grande Po, quasi imprigionato da quegli argini altissimi che somigliano a montagne artificiali. Così il fiume è cancellato, poco vissuto, allontanato dai suoi abitanti rivieraschi, che per vederlo da vicino devono letteralmente «andare a Po», come si dice da queste parti. Ossia: scendere nella golena e camminare a volte anche chilometri.

A Boretto il fiume è vicino, praticamente in città. Al di là dell’argine, in due edifici mezzo dismessi che ricordano glorie passate, c’è la sede dell’Agenzia interregionale per il fiume Po (Aipo), l’ente che si occupa del monitoraggio del fiume e della realizzazione delle infrastrutture per la navigazione. Ettore Alberani, un ingegnere gioviale sulla sessantina, lavora qui dall’inizio degli anni Novanta. Ha seguito l’evoluzione dell’Agenzia, che una volta dava lavoro a centinaia di persone e aveva un vero e proprio cantiere di costruzione al proprio interno. Veterano del luogo, ha seguito il Po nelle sue vicissitudini e può dire di conoscerlo bene. Oggi è il «signore della navigazione». È lui che ogni giorno, sentite le otto squadre che misurano la profondità del fiume nei suoi vari punti, dirama un bollettino che chiunque debba transitare sul corso d’acqua è invitato a consultare. Funziona così: la mattina i suoi uomini analizzano tutta la parte navigabile, da Cremona al Delta, e gli comunicano i risultati. Se è in secca, non si passa. Quando la secca è breve, Alberani manda una draga per scavare e liberare la via. «Se invece il tratto è più lungo, non resta che aspettare e pregare il buon Dio che mandi pioggia.»

È metà ottobre. Il fiume è straordinariamente basso. «Siamo a meno 2,5 metri.» Cioè due metri e mezzo al di sotto delle campagne circostanti. «Normalmente in questa stagione siamo 5 metri sopra» afferma l’ingegnere. Dalla riva si vede bene il livello di magra: una pedana di cemento da cui si accede all’acqua è inservibile. Il salto di un metro e mezzo rende impossibile la discesa al fiume.

«Ma la situazione può cambiare rapidamente» mi dice Alberani. «Oggi la vedi così. Magari fra due settimane viene giù una pioggia torrenziale e in poche ore l’acqua arriva qui in golena.»

«Così in fretta?» gli chiedo stupito. «E che succede in caso di esondazione?»

Alberani ha un sussulto. «Shhh!» mi fa, portandosi l’indice davanti alla bocca. «Quella parola non la devi mai pronunciare da queste parti!»

Lo shock e il ricordo dell’alluvione del 1951 sono ancora vivi nelle zone a ridosso del grande fiume. Gli argini sono stati rialzati ben oltre il livello di guardia, ma una sorta di paura epidermica è rimasta incisa nel Dna degli abitanti di queste terre piatte, e la tracimazione occasionale di alcuni affluenti provvede ogni tanto a riattivarla. Nel dicembre del 2017, il torrente Enza è uscito dagli argini sommergendo Brescello, il paese di Peppone e don Camillo, e portando all’evacuazione di mille persone. «In quel caso si è avuta una piena dell’Enza con il Po in magra. È stato il risultato dello scioglimento delle nevi sull’Appennino e di una pioggia tanto eccezionale quanto circoscritta» mi spiega Alberani. «Eventi così si verificheranno sempre più spesso. Perché è saltata la stagionalità. Succedono cose meno prevedibili di un tempo ed è con queste cose meno prevedibili che siamo chiamati a fare i conti.»

Alberani vive in trincea: dal suo osservatorio privilegiato, al di là dell’argine e in mezzo alla golena, segue i cambiamenti e li analizza. Lui è un tecnico e svolge principalmente il suo lavoro, che è quello di fornire informazioni sulla navigabilità. Ma nel corso del tempo ha vissuto le piene e le magre, ha visto il fiume gonfiarsi in modo pauroso e prosciugarsi sul fondo dell’alveo. Mi fa vedere il livello dell’acqua raggiunto durante le ultime grandi piene, quella del 2009 e del 2014, che hanno lasciato un segno sulle facciate degli edifici. «Siamo arrivati quasi a più 8. L’acqua lambiva i margini, qui eravamo completamente sotto.» Poi, sul suo computer in ufficio, mi mostra le variazioni anno per anno. Ultimamente, gli sbalzi sono più evidenti. I tempi di ritorno più brevi. Leggendo la serie storica delle piene alluvionali, è impossibile non notare un cambiamento sostanziale: dopo la tragedia del 1951, il primo evento c’è stato nel 1994. Poi, a seguire: 2000, 2009, 2013, 2014, 2016. Questo è l’andamento del Po nell’epoca del clima che cambia: i periodi siccitosi sono più lunghi. Ma quando piove, scende tanta acqua tutta insieme e il fiume si riempie rapidamente. Quello che oggi è a secco, si può alzare all’improvviso.

Poche settimane dopo il nostro incontro, le cronache confermeranno le previsioni di Alberani: quel fiume che io osservo sonnacchioso e mesto rialzerà repentino la testa, salendo a quasi 8 metri, 10 più su di come lo vedo oggi.

Il capitano del fiume

«Stiamo con i piedi nell’acqua. Nel parcheggio dell’ufficio, oggi si gira in barca» mi dice Giuliano Landini quando gli telefono per avere notizie in diretta della piena. Il «Lando», come lo chiamano affettuosamente da queste parti, è una specie di nocchiere del Po. Dipendente a metà tempo dell’Aipo, è anche il capitano della Stradivari, «62 metri di pura bellezza», la più lunga motonave di tutte le acque interne. Con lo slogan «Il Po è più bello visto dal battello», scorrazza turisti, escursionisti, appassionati di crociere o di cene romantiche in barcone, intrattenendoli con la sua parlata turbinosa e il suo armamentario quasi infinito di aneddoti fluviali. Propone tragitti di ogni tipo: piccole scappate da Boretto a Brescello con pranzo a bordo, o più impegnative spedizioni fino a Mantova, Cremona o addirittura Venezia, in un’esperienza che definisce «unica e irripetibile».

Landini è sempre vissuto tra la riva e l’acqua, dove fin da bambino pescava con le mani nelle lanche, i canali golenali che si diramano dal corso principale. Meccanico, poi motorista sulle draghe, corridore spericolato di motonautica di cui è stato tre volte campione del mondo, è un prodotto Dop di questa terra eternamente sospesa tra gli stati solido e liquido. Di essa porta addosso un certo contraddittorio carattere: sognatore e concreto, folle e pragmatico al tempo stesso, è animato da un’esuberanza vorticosa che a tratti si colora di una quasi impercettibile mestizia. Più che un figlio del fiume, sembra la sua umanissima incarnazione. «Quando mi ferisco non esce sangue, ma acqua di Po» dice ridendo.

Alberani gli affida il compito di portarmi in giro per la zona e lui è ben contento di farmi da guida piuttosto che passare il pomeriggio chiuso in ufficio. Saliamo su una barchetta al porto fluviale di Boretto, a 500 metri dalla sede dell’Aipo. La giornata è nuvolosa ma calda. Lui parte rombando. Cominciamo a risalire il fiume controcorrente. Con la perizia del capitano esperto, mi illustra i rudimenti della navigazione. Indica i cosiddetti «segnali di sponda», grandi rombi bianchi e rossi verso cui ogni natante si deve dirigere per «allineare il tragitto». Mi spiega come cambia l’alveo a ogni evento di piena: «Il fondale si muove e assume sempre nuove forme. Ogni buon navigatore deve imparare a osservarle e conoscerle». Mi descrive tutte le creature che abitano il lungo fiume, dai pioppi canadesi che affondano le radici nelle piane golenali ai pesci siluro che hanno invaso la zona facendo incetta di altre specie, dopo essere stati introdotti di straforo da appassionati di pesca sportiva. Mi racconta le piene, le secche, i drammi e le leggende del fiume. Ha una storia per ogni angolo che superiamo, per ogni scorcio che inquadriamo, per ogni persona che incrociamo. Mi parla del «Re del Po», il pensionato Alberto Manotti, che sulle sponde di Boretto ha costruito una nave-scultura fatta di legni e di residui portati dall’acqua, e che lì vive, immerso nei suoi sogni e nelle sue chincaglierie. «Se vuoi ci fermiamo da lui» mi propone. Ma poi tiriamo dritto, il richiamo del fiume è più forte. Ci infiliamo nell’Enza: il corso è frastagliato e reso accidentato da una miriade di tronchi caduti e altri oggetti dell’esondazione del 2017. Ritorniamo sul fiume maggiore e cominciamo a viaggiare verso est, seguendo la corrente. «Quello è il Parlamento» mi dice mentre passiamo accanto a una struttura con una baracca di legno, quattro sedie e un gruppetto di anziani che lo salutano. «Lo chiamiamo così perché quelli bevono talmente tanto che alla fine di ogni giorno fanno e disfano i governi.»

Gli chiedo: «Quanto è cambiato il Po negli ultimi anni, Lando?».

«Molto, ma anche poco. Per chi come me lo conosce è sempre il vecchio Po. Poi, è vero, ormai fa le magre e le piene quando più gli pare.»

Il pensiero gli risveglia un altro ricordo, che diventa subito racconto appassionato. Un paio d’anni fa, un gruppo di turisti tedeschi aveva prenotato una gita a Mantova sulla sua motonave per la fine di marzo. «Normalmente in primavera il fiume è in grossa, non ci sono problemi.» Ma più si avvicinava la data, più la situazione sembrava fuori controllo. Non pioveva e il Po era sempre più basso. «Non sapevo che fare: se annullavo, perdevo una commessa importante, per di più dall’estero. Ma le condizioni erano al limite.» Dopo essersi lambiccato e aver cambiato idea cento volte, ha deciso di andare. «La notte prima l’ho passata in bianco: la possibilità di incagliarsi era altissima.» La Stradivari è partita. Ha solcato il fiume secco, che in alcuni punti aveva una profondità di appena un metro e venti. Con manovre arditissime, il Lando ha evitato i fondali più bassi. «Sono passato a pelo perdendo qualche mese di vita per l’ansia.» Amante dei gesti estremi, il capitano racconta con gli occhi colmi d’emozione la sua impresa eccezionale, che un po’ l’ha riportato a quando in gioventù solcava il fiume sulla sua moto d’acqua, sparato come un missile a duecento all’ora.

Landini naviga e parla. Ricorda e borbotta. Come il fiume, si infiamma e ogni tanto si spegne. Sembra vivere del riflesso di un passato glorioso che si fa sempre più remoto. Proprio come il Po, che un tempo era grande e oggi sembra in crisi. «Stiamo dissipando un patrimonio» esclama deluso. «Questa è una ricchezza incredibile. Qui c’è tutto: la gastronomia, la cultura, l’arte, il cinema. Qui ci sono le terre verdiane, don Camillo e Peppone, i quadri di Ligabue. Eppure nessuno se ne accorge.»

Il capitano ha ragione. Nell’immaginario collettivo, il Po non è bellezza. È assillo e timore. Non porta benefici, ma solo drammi: secche, esondazioni, dissesto idrogeologico, calamità. Ma la colpa, secondo Landini, non è tanto del fiume, quanto degli esseri umani. «Dal Neolitico l’uomo ha trasformato il paesaggio rispettandolo. Ma da alcuni decenni il cambiamento non conosce limiti e il disprezzo per aree bellissime è grande quanto l’ignoranza. Oggi i fiumi sono “sorvegliati speciali”, quando sorvegliati speciali dovrebbero essere quei cittadini che costruiscono a due passi dai corsi d’acqua e sradicano alberi e vegetazione lasciando via libera a ogni tipo di smottamento.» Il Lando usa quasi le stesse parole di Stefano Fenoglio 400 chilometri più a monte. Il professore parla da studioso coinvolto, il capitano da uomo che sul Po naviga e vive, monitora il suo corso e giorno per giorno ne osserva le trasformazioni. Entrambi, ognuno a suo modo, sono uomini d’acqua, nati e cresciuti immersi in quel fiume, così diverso nelle due zone, eppure così ugualmente trascurato.

Si tratta di creature in via d’estinzione, minoranze ormai quasi invisibili. Nelle tre ore di navigazione, non incontriamo nessuno. Non un turista. Non un pescatore. Nemmeno una chiatta per il trasporto merci. Siamo gli unici a muoverci sull’acqua. Il Po non è più vivo come un tempo, quando era popolato di bambini che venivano a fare il bagno perché il mare era troppo lontano, di pescatori che facevano a gara a chi catturava più pesci gatto, di lavandaie che strofinavano (o «sgurevano», come si dice qui) i panni nelle acque allora cristalline. Con il boom economico, l’Italia ha deciso di lasciare indietro il fiume. E lo ha trasformato in un immondezzaio: discarica per i residui industriali dei capannoni che hanno invaso la pianura, pozzo nero per i resti reflui degli allevamenti intensivi che hanno colonizzato la terra e persino l’aria con i loro odori nauseabondi, canale di scolo dei fertilizzanti di un’agricoltura chiamata a essere sempre più performante. Così il Po, ferito e offeso, si ribella e si vendica. Si gonfia e si mette in secca a suo piacimento. Diventa avaro d’acqua quando l’agricoltura ha più sete. E dispensa piene e afflizioni agli abitanti che gli hanno voltato le spalle. Il cambiamento climatico che qui si misura, con la sequela di eventi estremi sempre più frequenti che mi ha mostrato Alberani, sembra un grido di soccorso lanciato dal fiume agli esseri umani che lo hanno dimenticato.

L’ultimo simbolo dell’oblio me lo indica Landini mentre passiamo sotto una grande struttura di cemento. Il Tec – acronimo per Terminal dell’Emilia Centrale – doveva essere il porto per le navi commerciali che qui avrebbero dovuto scaricare i materiali trasportati via acqua. L’opera è stata concepita con una capacità di circa 700.000 tonnellate all’anno (2500 al giorno), prevedendo di accogliere da subito 70.000 tonnellate di merci, pari a oltre tremila autotreni. Poteva essere l’occasione per creare un’idrovia, rivitalizzare il fiume come strada alternativa per le merci che corrono oggi su gomma, dare un’economia nuova a questi luoghi. Non se n’è fatto nulla. Inaugurato nel 2007, non ha funzionato neanche un giorno. Vero e proprio scheletro di un bambino che non ha mai avuto modo di svilupparsi, l’approdo giace solitario e triste. «Hanno speso 8 milioni di euro e lo hanno lasciato così. La lobby dell’auto ha vinto» conclude Lando scandalizzato.

Poi guarda avanti e passa oltre. «Basta con le brutture. Ti voglio far vedere qualcosa di davvero straordinario.» Dietro un’ansa formata da una deviazione del fiume, attracchiamo il barchino. Scaliamo un sentiero e ci troviamo in un lembo di terra fuori dal tempo. È la cosiddetta «isola degli internati», così chiamata perché alla fine della guerra è stata data in gestione a una quindicina di ex prigionieri tornati dai campi di concentramento nazisti. Landini conosce bene quella storia, perché suo nonno era uno di loro. Qui lavorava coltivando «le stroppie», piante particolarmente elastiche che crescono lungo le rive del Po e che i soci della cooperativa agricola riunivano in fascine per poi venderle agli artigiani della zona. È il racconto di un piccolo mondo antico che non esiste più. Un mondo fatto di fame e privazioni, di sofferenze atroci, ma anche di un rapporto più equilibrato con l’ambiente. Un mondo che si è sviluppato, è cresciuto. Ha conosciuto il benessere e l’agio, ma «ha perso la connessione con le proprie radici» commenta Landini.

Camminiamo tra i sentieri: a parte un paio di cacciatori, non c’è anima viva. La natura ci si offre incontaminata, quasi violenta. Tra i pioppi avvinghiati dalle edere e le acacie ancora in fiore, siamo travolti dal frinire dei grilli, dal ronzio delle api, dal fastidioso e insistente turbinio delle mosche. Un fagiano ci passa davanti. Ci fissa spaventato e scappa via. Dall’altra parte della lanca spuntano improvvisi tre relitti arrugginiti: sono navi bombardate durante la Seconda guerra mondiale, rimaste per anni in fondo al fiume e riportate a galla dalla grande secca del 2006. Il comune di Guastalla, in cui cade il territorio, ha deciso di lasciarle lì come una specie di monumento storico. E loro se ne stanno arenate, memoria di un fiume dove una volta si navigava talmente tanto che ci si faceva persino la guerra. Poiché nel frattempo il Po è stato deviato, il canale si va interrando e le navi salgono sempre più in superficie. Quegli scheletri di ferro somigliano ai cadaveri che emergono dai ghiacciai. Come Ötzi, la mummia del Similaun ritrovata in Alto Adige, ci parlano di un tempo di cui abbiamo perso coscienza, anche se in questo caso sono trascorsi poco più di settant’anni e non cinquemila.

Landini fotografa le chiatte con il cellulare. Si ferma e riflette. Io lo guardo mentre si perde a contemplare questi luoghi che ai suoi occhi rimangono bellissimi. Mi chiedo e gli chiedo: «Che ne sarà di questo grande fiume che scorre placido sotto di noi?». Mi dice: «Il Po cambia ma non si fa comandare da nessuno. Oggi leggiamo notizie che ci spaventano: “Il Po è in secca”, “La grande piena minaccia la Val Padana”. Ma se si scorrono le cronache antiche, si capisce che tutto è già successo. E il grande fiume è ancora lì». Poi aggiunge: «Non so, invece, se noi saremo ancora qui». Penso allora che il capitano, insieme al professor Fenoglio, all’ingegner Alberani e a pochi altri che ancora ci credono, sono gli ultimi sopravvissuti di una stirpe di custodi del fiume. Che lo ascoltano e lo leggono, cercando di fare da eco al suo grido di allarme nell’indifferenza più o meno generale.

Il magistrato per il Po

In un grande edificio non lontano dal centro di Parma, a due passi dalla stazione ferroviaria, c’è l’ex magistrato per il Po, ribattezzato oggi in termini più burocratici «Autorità di bacino distrettuale del fiume Po». Il suo segretario generale è il geologo Meuccio Berselli. È lui che deve pianificare la gestione del fiume, mediando i conflitti che sorgono tra quelli che in gergo sono chiamati «portatori di interessi»: i consorzi di bonifica, le rappresentanze agricole, i produttori di energia elettrica, le province, le agenzie regionali. Ed è lui che, da tecnico, deve dare indicazioni per il futuro. Berselli il fiume lo conosce bene, sia perché è un figlio della Bassa (è nato a Sorbolo, a pochi chilometri da Boretto) sia perché è stato per dieci anni sindaco di Mezzani, un comune diffuso che si sviluppa a qualche chilometro da lì, tra il Po e i due torrenti Enza e Parma.

Mi accoglie nel suo ufficio sparandomi una serie di cifre: «Oggi nel bacino del Po vive un terzo degli abitanti del nostro Paese, si genera il 40 per cento del Pil nazionale, il 35 per cento della produzione agricola e il 55 per cento di quella idroelettrica».

Sono numeri che stridono con la situazione di abbandono in cui ho visto il fiume.

«Come mai una grande risorsa è così poco valorizzata?» gli chiedo.

«Fino a trent’anni fa, il Po era una discarica. Oggi è in migliori condizioni a livello ambientale. Ma non è vissuto: perché è figlio di un modello di sviluppo che lo ha ignorato per decenni e ha difficoltà a riconsiderarlo.»

Berselli ricostruisce il passato e analizza il presente: «Abbiamo perso un’occasione storica. Poteva essere una via commerciale, una via turistica. Invece oggi non è niente». Ripenso al giro solitario che mi ha regalato Landini. Al Tec, il terminale portuale che si va sfibrando come una cattedrale abbandonata nel deserto. Alle autostrade gonfie di tir che corrono sulla dorsale padana, parallele al fiume vuoto e silenzioso. Alla scelta di costruire infrastrutture su un territorio che ne offriva una già pronta, servita su un piatto d’argento.

Berselli mi conferma il paradosso che ho constatato viaggiando lungo le sue rive: il grande fiume non è il fulcro di uno spazio produttivo, centro nevralgico di un’area che produce ricchezza e valore, e che come tale andrebbe salvaguardata. È invece una periferia sfruttata e marginalizzata. Periferia persino doppia da queste parti, perché delimita il confine tra Lombardia ed Emilia-Romagna, due regioni che si parlano poco e, dalle due sponde opposte, semplicemente si ignorano.

Così il Po diventa cortina di ferro, una no man’s land dove tutti vanno ad attingere a proprio piacimento, perché nessuno lo considera terra propria o più semplicemente bene comune: gli agricoltori usano la sua acqua per irrigare i campi. Gli allevatori, per abbeverare le bestie. Le imprese edili, per rifornirsi di sabbia e ghiaia. A monte del bacino, i produttori di energia elettrica bloccano gli affluenti. I gestori dei laghi non fanno defluire le acque per mantenerne alto il livello a scopi turistici. Berselli ha il compito non facile di mettere ordine in questo caos in cui tutti usano il Po ma nessuno se ne cura. Un compito tanto più urgente in un momento in cui gli effetti dei cambiamenti climatici si fanno sentire in modo particolarmente vistoso in queste zone.

Il segretario generale non elude il problema. Sottolinea che nel bacino padano le temperature si stanno alzando più che altrove. Moltiplica gli interventi pubblici durante i quali elenca gli effetti «del tutto evidenti» del nuovo corso climatico, dalla riduzione delle portate all’aumento delle piene, fino alla risalita del cuneo salino quando c’è poca acqua, con il mare che entra e desertifica i terreni nella zona del Delta.

Sa che questa è la sfida del futuro, che deve essere colta il più velocemente possibile. La sua è una visione proattiva: «Il cambiamento climatico ci fornisce la possibilità di rivedere il modello e di cambiare direzione perché richiede una gestione diversa delle risorse». Gli chiedo se non sia tardi per cambiare rotta. «Puntare sul Po in un periodo storico in cui diminuiscono le portate, risale il cuneo salino, calano gli apporti nevosi può sembrare controintuitivo. Ma è la scelta giusta. Perché un territorio abbandonato o poco mantenuto è più vulnerabile ai cambiamenti climatici. Un territorio vissuto, con un’economia integrata, ha più capacità di intraprendere azioni di adattamento e di diventare automaticamente più resiliente.»

Berselli ha idee e visione. Parla di sviluppo di un turismo che oggi lungo il Po si vede poco, di mobilità alternative, di interconnessione, di pianificazione strategica, di agricoltura di qualità. Con quel tipico pragmatismo emiliano che unisce competenza e concretezza, snocciola numeri, statistiche, proiezioni. Mi mostra una slide dove sono indicate le colture prevalenti lungo la Pianura Padana: il mais, il pomodoro, il grano, con i rispettivi consumi idrici. Sono numeri monumentali: per ogni ettaro di mais, sono necessari tra i 6000 e gli 8000 metri cubi di acqua. «Bisogna ripensare il modello agricolo. In un’epoca di scarsità, è necessario sostituire le colture che consumano di più con altre meno idroesigenti.» Berselli propone di riprendere la pioppicoltura, piantare alberi che non hanno bisogno di acqua, immagazzinano anidride carbonica e favoriscono il deflusso idrico in fase di piena. «La pioppicoltura è sempre meno praticata, siamo passati a 45.000 ettari coltivati contro i 65.000 degli anni Ottanta. Poi però importiamo legname dalla Polonia.»

Ma è possibile sostituire il mais o il pomodoro con i pioppi? Cambiare paradigma agricolo richiederà risorse, investimenti, fatica e capacità di sintesi tra interessi non sempre convergenti. Ripensare il Po in generale vuol dire invertire una rotta, modificare il rapporto città-campagna, restituire una centralità a una periferia degradata, riempire di senso uno spazio rimasto vuoto troppo a lungo. Il segretario generale sa che il compito non è semplice. Si dovrà scontrare con lobby e interessi che influenzano una politica sempre più affannata alla ricerca del consenso, che ha difficoltà a esprimere una visione e apportare modifiche sistemiche. Ma lui è un tecnico e indica direzioni. «Al massimo non mi rinnoveranno il contratto. Farò altro.» Sembra quasi dire: lo devo al mio Po, tanto bistrattato e ignorato, che ha bisogno di una seconda possibilità.