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La scomparsa delle api

Le arnie sono in fondo a una radura. Dieci casette di legno, di colori diversi, allineate a poca distanza l’una dall’altra. Indossata la tuta protettiva, la maschera con visore a rete, i guanti, gli scarponi di gomma, coperto insomma ogni singolo lembo di pelle, mi addentro nel fantastico mondo delle api. Sono con l’amico Guido Cortese, ex presidente del gruppo Slow Food di Torino, grande fautore dell’apicoltura urbana e della necessità di avvicinare gli abitanti di città a questi insetti fondamentali per la nostra esistenza.

Siamo nel Parco naturale della Mandria, una grande tenuta alle porte di Torino. Qui Cortese tiene parte delle sue arnie, che monitora giorno per giorno, seguendo l’andamento delle famiglie sia durante il periodo produttivo sia nelle stagioni fredde, quando le colonie si assottigliano, gli alveari diventano silenziosi e le api rimaste si nutrono delle scorte accumulate durante l’estate.

Guido è un informatico di professione che da quindici anni si dedica anima e corpo alle sue api, sacrificando ogni momento libero e accudendole come se fossero sue figlie. Appartiene alla nutrita schiera di apicoltori del nostro Paese, dove questa è diventata un’attività sempre più praticata. Sono circa 45.000, con più di un milione di alveari censiti. Si definiscono «agricoltori senza terra» perché, pur non avendo appezzamenti propri, contribuiscono indirettamente alla produzione agricola: più di due terzi del cibo che consumiamo deriva dall’attività di impollinazione compiuta dai formidabili insetti che loro allevano.

Mentre mi vesto per la visita, Guido mi spiega l’organizzazione rigida e strutturata delle famiglie. «L’alveare è una sorta di macrorganismo sociale in cui ogni componente svolge una mansione precisa, funzionale alla sopravvivenza dell’intera comunità.» In una colonia – che può raggiungere anche le 80.000 unità – ci sono tre componenti: la regina, che è l’unico esemplare fertile ed è quindi la madre di tutti gli individui presenti; le api operaie, il cui numero varia a seconda della stagione; e un piccolo nucleo di fuchi, presenti solo durante la stagione primaverile-estiva. Oltre a questi c’è la cosiddetta «covata», cioè le larve dentro le celle che nasceranno a breve. «Non esistono individualità, ogni elemento è una parte del tutto. La stessa regina è strettamente soggetta alla funzione che svolge: quella riproduttiva, che garantisce la sopravvivenza della famiglia. Quando smette di soddisfarla, viene uccisa dalle operaie.»

È pieno agosto. Le arnie brulicano di vita. Si vedono api entrare in continuazione negli abitacoli, il corpo coperto dal polline che hanno raccolto in giro per la tenuta. Mi avvicino con circospezione, seguendo il passo sicuro di Guido. Lui apre il coperchio di un’arnia, spara con l’affumicatore per distrarre la popolazione all’interno ed estrae i singoli telai. In ognuno ci sono migliaia di insetti. Alcune cellette sono gonfie di miele. In altre ci sono le larve che diventeranno individui adulti. Il ronzio si fa più intenso. Le api si comunicano tra loro il pericolo, ma non sembrano troppo irritate dalla nostra intrusione.

«Questa è una famiglia in salute. Non è particolarmente aggressiva» dice Guido guardando la quantità di miele prodotto, lo stato dei favi, i movimenti tra le celle. Tenendo in mano il telaio, mi fa vedere i fuchi, riconoscibili dal corpo più grosso e tozzo. Mi descrive poi la suddivisione dei compiti tra le api operaie, le principali componenti della colonia. Durante il periodo produttivo, queste vivono all’incirca quaranta giorni. Nel corso della loro breve ma intensa vita cambiano di continuo funzione, in una sequenza che si ripete sempre uguale. «Alla nascita sono api spazzine, cioè si occupano di tenere la pulizia all’interno dell’alveare. Diventano poi nutrici, dedicandosi all’alimentazione delle larve e della regina; in seguito sono ceraiole, cioè costruiscono e riparano i favi, e ventilatrici, dedite alla ventilazione e al mantenimento della giusta temperatura interna. Quindi fanno le magazziniere: ricevono il nettare e il polline dall’esterno e lo stoccano dentro i favi. Infine sono guardiane, con compiti di sorveglianza per evitare intrusioni.» Dopo ventun giorni – e aver svolto tutte queste mansioni in successione – si trasformano in bottinatrici. Andranno cioè in giro a cercare nutrimento, polline, nettare, propoli e acqua. Manterranno quest’ultimo ruolo fino alla morte, per un periodo che varia dalle due alle tre settimane.

Mentre mi racconta il cursus honorum delle operaie, Guido mi indica un punto in mezzo al telaio: da una celletta si vede spuntare una specie di antenna. È una larva ormai matura che sta cercando di uscire, segando con le mandibole il tappo di cera apposto dalle altre api. La fessura si fa man mano più larga. Trascorso circa un minuto, la nuova operaia esce, pronta a dedicarsi subito al suo primo compito: ripulire il cubicolo dove è nata. Nel giro di tre giorni, diventerà nutrice. E poi via via svolgerà, nell’ordine indicato, le altre funzioni.

Guido mi porge il telaio sorridendo. Io lo prendo con una certa titubanza. Sono completamente bardato, ma ciò non mi impedisce di sentirmi inerme rispetto a migliaia di api a pochi centimetri da me. «Queste sono piuttosto mansuete. Pungono solo se sentono che l’alveare, la loro casa, è in pericolo» mi dice. Per loro, utilizzare il pungiglione è un’extrema ratio: per la sua particolare conformazione a uncino, questo rimane incastrato nel corpo di chi viene punto e strappa l’addome dell’operaia, condannandola a morte. «Ma l’ape non esiste come individuo e se sente che il superorganismo alveare è minacciato si presta più che volentieri a questa pratica suicida.» Udita la precisazione, riconsegno la struttura di legno nelle salde mani del suo proprietario.

A questo punto cominciamo la ricerca della regina. Nel telaio che Guido ha in mano non c’è. Esaminiamo gli altri, estraendoli a uno a uno. Al quinto tentativo eccola apparire di fronte a noi, ben riconoscibile dall’addome allungato e da una corte di ancelle intorno a lei, che si occupano di nutrirla, pulirla e soddisfare tutti i suoi bisogni. Si muove facendo continue soste, che corrispondono alle singole covate. Questo è il compito che è chiamata a svolgere con solerzia per tutta la vita: l’ape regina può deporre fino a duemila uova al giorno.

La riproduzione è un altro aspetto affascinante della vita della colonia. Subito dopo la nascita, la regina compirà un volo nuziale, durante il quale si accoppierà con quanti più fuchi possibili. Dopo aver assolto il loro compito, questi moriranno all’istante. Nel frattempo, lei terrà incamerato il loro sperma in un’apposita sacca che le permetterà poi di fecondare le uova da cui nasceranno le api operaie. I fuchi, invece, nascono da uova non fecondate, dette anche aploidi. L’ape regina è la madre di tutti gli individui della colonia, le cui femmine avranno patrimoni genetici diversi da parte di padre. Tanto più alto è il numero di fuchi che l’hanno inseminata, maggiore sarà la varietà genetica della famiglia. «È un meccanismo perfetto. Il ricambio nella colonia, il rapporto tra fuchi e operaie, tutto è determinato dalla necessità del super organismo a seconda delle stagioni.» Quando arriva il freddo, le operaie smettono di uscire e bottinare. La regina interrompe le covate. Il numero di unità dentro l’alveare diminuisce sensibilmente. E l’attività si riduce: gli esemplari all’interno si raggruppano nel glomere, una sorta di palla al centro della quale c’è la regina, unico elemento fondamentale per la sopravvivenza della famiglia. In questa fase, le operaie vivono tre mesi. I fuchi invece, inutili in tale periodo non riproduttivo, vengono allontanati o uccisi sul posto.

Guido ha una relazione intima con le api che alleva. Come ogni apicoltore le osserva giorno per giorno, intessendo con loro un rapporto quasi simbiotico. «Tutta l’apicoltura si basa su un tacito inganno. Noi forniamo le arnie alle api, le curiamo e le nutriamo se c’è bisogno. Ma poi ci accaparriamo il loro surplus di miele. Il segreto è trovare il giusto equilibrio. Perché noi dobbiamo avere abbastanza prodotto per le nostre esigenze e le api devono avere le scorte necessarie per sopravvivere durante le stagioni non produttive.»

Il problema è che questo equilibrio salta sempre più spesso. Le api soffrono, le api muoiono, le api non sono più capaci di impollinare come un tempo. L’andamento altalenante e non prevedibile del clima le sta mettendo a dura prova. Queste colonie che ora vedo attive e in forma, ronzanti e produttive, solo pochi mesi fa hanno rischiato di scomparire. Gli sbalzi di temperatura dell’inizio del 2019 hanno alterato i loro cicli naturali, scombussolato i bioritmi e messo a dura prova questi super organismi perfetti. Il caldo scoppiato precocemente all’inizio dell’anno ha spinto le regine a riprendere le covate già a febbraio. Le famiglie si sono così ingrossate a dismisura. Poi a maggio sono arrivati il freddo e la pioggia, che non solo hanno distrutto le fioriture riducendo la disponibilità di nettare e polline, ma hanno anche impedito alle bottinatrici di uscire. Così nell’alveare sovrappopolato le api si sono ritrovate senza cibo, a patire letteralmente la fame. «È stato un incubo. Per evitare che morissero in massa, abbiamo dovuto alimentarle in modo forzato, dando loro sciroppo di glucosio e soluzioni zuccherine fino a primavera inoltrata» racconta Cortese. Abbastanza comune in inverno, la pratica di nutrire le api è una soluzione per aiutarle se e quando le scorte scarseggiano. Una cosa che non dovrebbe mai accadere durante il periodo della bottinatura. «E comunque alcune famiglie non ce l’hanno fatta» aggiunge Guido. Risultato: il miele di alcune fioriture, come quello di acacia, è quasi assente. «Ma gli effetti sono molto più dirompenti. Non è solo il miele, è l’ecosistema nella sua interezza che soffre per il mancato apporto delle api.»

Cortese quest’anno ha una produzione risibile: «Almeno il 50 per cento in meno del solito, se mi va bene». Ma al di là della sua preoccupazione contingente, il problema è più ampio: la sofferenza di questi insetti è, secondo lui, un campanello d’allarme. «Le api esistono sulla Terra da quasi cento milioni di anni, molto prima dell’essere umano. Hanno dimostrato nel corso del tempo un’incredibile capacità d’adattamento. Se oggi stanno morendo, vuol dire che siamo di fronte a qualcosa di davvero terrificante.» Per Guido questi insetti millenari sono come dei sensori naturali, capaci di indicarci tutta una serie di cose che non stanno andando per il verso giusto: dagli effetti del clima mutevole, che colpisce loro in primis, ma finirà per colpire anche noi. Fino alle perversioni di un modello agricolo che, basandosi sempre di più sulla produzione intensiva e sull’utilizzo di agro-farmaci, distrugge ogni altra cosa. Le api ci stanno mandando dei segnali che sarebbe opportuno cogliere. Ecco perché secondo Cortese è importante che sempre più persone vengano a contatto con loro, che si pratichi apicoltura nelle città, che si insegni ai bambini come funzionano gli alveari. Lui si batte per questo, con una passione sfrenata che nel corso della giornata finisce inevitabilmente per contagiarmi.

Andiamo a un altro apiario. Guido apre l’ennesima arnia e mi porge un telaio. Io lo prendo in mano, questa volta senza esitazioni. Cerco la regina. Guardo i fuchi. Spio le operaie mentre svolgono intensamente le loro attività. Lui osserva soddisfatto i frutti della sua lezione e il modo in cui è riuscito a farmi acquisire sicurezza: grazie a lui la grande schiera degli amanti delle api ha acquisito da oggi un nuovo adepto.

Mettetevi nei panni di un’ape

La pessima annata del 2019 non è stata un’eccezione, ma solo l’ultima di una serie: nel 2017 la prolungata siccità ha seccato i fiori, che non hanno prodotto nettare e polline, affamando le api. Prima ancora, il 2016 è stato definito l’annus horribilis dell’apicoltura italiana, con cali di produzione fino al 70 per cento. «I problemi si susseguono. Le api sono sempre più fragili.» Questa debolezza, che secondo Guido stiamo prendendo troppo sottogamba, non è una particolarità del nostro Paese. È un fenomeno di ampiezza planetaria. In tutto il mondo, questi insetti stanno scomparendo. Muoiono a grappoli, vittime degli effetti dei cambiamenti climatici e dei pesticidi usati in agricoltura. Solamente negli ultimi cinque anni sono scomparsi 10 milioni di alveari, quasi 2 milioni l’anno, oltre 200.000 solo in Italia. È l’effetto combinato di condizioni climatiche non più adeguate e di sfruttamento intensivo del terreno. Due fenomeni che finiscono per essere legati tra loro: perché un terreno troppo sfruttato ha meno capacità di reagire agli shock di un clima che cambia.

È una specie di circolo vizioso: più l’ambiente si degrada, più le api diventano deboli; più queste sono deboli, più l’ambiente si degrada ulteriormente. Ma non è una fatalità: in questo calo di presenze, l’essere umano ha una precisa responsabilità. Lo stato precario in cui si trovano le api è anche e soprattutto la conseguenza di un modello di produzione che ha trasformato le campagne in fabbriche di alimenti, riducendo la biodiversità e compromettendo l’habitat degli insetti impollinatori. E facendo in definitiva saltare quella mutua corrispondenza di interessi stabilita da tempi immemori con il mondo vegetale. Perché le api con il loro lavoro sono fondamentali per la rigenerazione degli ecosistemi: nutrendosi di polline, lo trasferiscono da un fiore all’altro e permettono la riproduzione delle piante. Nulla si distrugge, tutto si trasforma. Non ci sono scarti nel grande gioco della natura. Ma oggi questo dispositivo si sta inceppando: l’intromissione dell’essere umano sta mettendo a serio rischio lo svolgersi di un sistema di interconnessione creato dall’evoluzione nel corso di milioni di anni. In definitiva, la scomparsa delle api ci sta dicendo proprio questo: nell’attuale contesto dei cambiamenti climatici, è più che mai necessario rivedere il nostro modello di produzione e di sfruttamento dell’ambiente.

Questo meccanismo lo spiega benissimo l’entomologa Marla Spivak in un Ted Talk diventato virale per la sua chiarezza e forza espositiva.29 La studiosa statunitense ripercorre le tappe della moria delle api, particolarmente acuta negli Stati Uniti, dove dal 1945 a oggi si è persa la metà degli alveari. Lo sviluppo delle monocolture ha privato le api di fiori da cui attingere il polline, limitando il loro areale di azione. A questo si è aggiunta la diffusione sempre più massiccia di pesticidi, che le ha intossicate, riducendo la capacità di difesa del loro sistema immunitario e favorendo anche la diffusione di parassiti che li attaccano, come la Varroa destructor, un acaro che si insinua nelle covate e si nutre della linfa delle larve trasmettendo loro dei virus.

Per rendere l’idea di cosa sta accadendo, Spivak propone un parallelo tra l’esperienza che stanno vivendo oggi le api e quella che potremmo vivere noi esseri umani. «Non so come si senta un’ape quando un parassita le gira intorno, né come si senta quando è colpita da un virus. Ma so come mi sento io quando ho un virus come l’influenza. E so quanto sia difficile per me andare in un negozio per comprarmi da mangiare.» Nonostante la debolezza, l’alter ego del racconto di Spivak esce per andare a procacciarsi il cibo necessario alla sua sopravvivenza. «Ma cosa succederebbe se vivessi in un deserto alimentare? E se dovessi percorrere una lunga distanza per raggiungere un negozio e alla fine, dopo aver portato il mio debole corpo lì fuori, assumessi nel mio cibo una quantità tale di neurotossine da non riuscire più a riconoscere la strada di casa?»

Ecco, questo è quello che sta succedendo alle api: che trovano sempre meno nutrimento a causa del clima che muta e per colpa di un modello agricolo che le ha messe all’angolo. E per questo hanno un sistema immunitario sempre meno efficiente, sono più esposte ai parassiti. Si indeboliscono e muoiono.

La loro morte mette in pericolo l’ecosistema nel suo complesso e migliaia di altre specie, fra cui la nostra. Essendo le principali responsabili dell’impollinazione di fiori, frutta e verdura, oltre a colture utilizzate per il foraggio, la scomparsa delle api compromette la nostra stessa sicurezza alimentare. In un altro punto del suo discorso, Spivak mostra due immagini: nella prima si vede il reparto ortofrutta di un supermercato che abbonda di prodotti; nella seconda lo stesso reparto è sguarnito, con i banchi quasi vuoti. Le due didascalie recitano rispettivamente: la tua scelta di prodotti con o senza le api.

Perché alla fine le api sono una parte di noi. Senza di loro, noi esseri umani non esisteremmo. O smetteremmo di esistere nel giro di quattro anni, secondo la famosa frase attribuita ad Albert Einstein. Anche se pare che non sia stato lo scienziato a pronunciarla, non per questo l’affermazione è meno veritiera e agghiacciante.

La quarta casta, il favo come messaggio di futuro

Chi ha studiato a fondo le api è Paolo Fontana, entomologo di fama, nonché autore di un poderoso libro dal titolo evocativo: Il piacere delle api. Le api come modello di sostenibilità.30 Questo testo di più di seicento pagine è la trasposizione su carta del modo in cui lo studioso si presenta dal vivo: un profluvio di parole e citazioni, parentesi infinite e affascinanti di storia della letteratura, del cinema, della scienza, metafore conturbanti che si avvitano su se stesse per descrivere quel mondo che lui osserva e analizza, mitizza e sistematizza.

Fontana è un omone dalla lunga barba bianca, un paio di occhiali tondi dietro cui brillano vivaci occhi azzurri, un sorriso luminoso in fondo al quale si scorge un legame profondo con tutto quello che dice e fa. Il suo aspetto all’incrocio tra il santone e l’intellettuale gli è valso vari soprannomi nelle trasmissioni televisive in cui è di frequente invitato, da «l’uomo che sussurra alle api» a «il guru delle api». Tutti epiteti che lui rifiuta, definendosi solo un apicoltore e un semplice osservatore di quegli eccellenti bioindicatori che sono gli insetti che alleva. «Se stanno bene, vuol dire che l’ambiente sta bene. Se se la passano male, come sta accadendo oggi, vuol dire che ci sono problemi». Lui tuttavia non vuole abbandonarsi al pessimismo. È stanco di sentir parlare di api solo in termini di moria, di declino, di scomparsa. «Tutto questo è vero e sta accadendo. Ma dobbiamo considerare il ruolo di questi insetti meravigliosi come “messaggeri della natura”.»

Questo divulgatore entusiasta e coinvolgente mi ripete un concetto che ho già ascoltato da Guido Cortese: oggi non stiamo prestando ascolto a quello che questi messaggeri ci stanno dicendo. «Negli ultimi tempi si sono susseguite diverse annate definite di volta in volta “la peggiore degli ultimi dieci anni”, “la più disastrosa degli ultimi quarant’anni” e quest’anno “la più catastrofica annata mai registrata dall’apicoltura italiana”. Quando un’automobile ci lascia a piedi la prima volta, invochiamo la casualità. La seconda volta ce la prendiamo con la sfortuna. Ma dalla terza volta cominciamo a sospettare che ci sia qualcos’altro» mi spiega con una delle sue penetranti immagini. «Non basta cambiare meccanico, probabilmente è la nostra guida a essere poco rispettosa del mezzo.» Fuor di metafora, Paolo ritiene che l’apicoltura – con le sue derive produttivistiche, la manipolazione genetica delle regine introdotte forzatamente negli alveari, l’intrusione eccessiva dell’essere umano nel ritmo naturale di questi super organismi – sia in parte responsabile del disastro cui stiamo assistendo.

Da questo punto di vista, lui è fautore di un ritorno a un metodo più tradizionale, che assecondi di più le tendenze naturali delle colonie. In particolare, pensa che sia sbagliato inserire nelle arnie i cosiddetti «fogli cerei», come fa la quasi totalità degli apicoltori. Quei fogli con le cellette prestampate che guidano le api nella costruzione dei favi – e dove la presenza esclusiva di cellette piccole spinge all’incubazione di sole operaie, produttrici di miele e quindi più interessanti per l’apicoltore – rendono secondo lui le colonie più fragili. «L’alveare è un macrorganismo complesso, che reagisce alle sollecitazioni dell’ambiente in modo composito, adattandosi. Se noi lo manipoliamo troppo, perde la sua capacità di reazione.»

Per Fontana, che attraversa l’Italia a predicare un metodo d’allevamento in cui gli insetti siano lasciati liberi di sviluppare il favo come meglio credono, bisogna uscire da questa logica e rendere l’apicoltura più resiliente, meno suscettibile agli effetti negativi delle modificazioni climatiche. Lui considera il favo un elemento imprescindibile dell’alveare, tanto da definirlo la «quarta casta», accanto alle tre canoniche costituite da operaie, fuchi e regina. L’insieme di cubicoli esagonali in cera costruiti naturalmente è per lui un «progetto demografico», uno schema che vede le api modulare il numero di celle da operaie, da fuchi e da immagazzinamento del miele (tutte e tre di dimensioni diverse) a seconda delle necessità e della risposta che elaborano alle modifiche dell’ambiente che le circonda.

Paolo, che è un eclettico e ama spaziare tra discipline, saperi e suggestioni, parla di «urbanistica dell’alveare». Racconta di organizzazione degli spazi, di quartieri, di disposizioni dei vari sistemi di cellette secondo un vero e proprio piano regolatore. Il favo è come una città che le api edificano progressivamente in base alle loro esigenze e in armonia con la natura dei luoghi circostanti. Non è mai uguale a se stesso, proprio perché le esigenze mutano e gli ambienti sono tutti diversi. Da questo punto di vista, il foglio cereo è una forzatura, l’espressione artificiale di un’omologazione coatta. È l’equivalente di una colata di cemento con cui si progettano e si costruiscono villette a schiera tutte uguali su un litorale o in una campagna.

Lui da alcuni anni utilizza le cosiddette «arnie top bar», cioè delle strutture con un solo supporto di legno sul quale le api costruiscono il loro favo. E, facendo questo, ha notato che le varie colonie si comportano in modo diverso da quello predeterminato dai fogli cerei. Ha visto per esempio che i fuchi, normalmente relegati ai margini, vengono covati dalla regina in quantità maggiore. E che anche le colonie più piccole non rinunciano alla componente maschile. «Questo accade perché i maschi sono i reali vettori del Dna dell’alveare. Accoppiandosi con regine vergini, trasmetteranno al di fuori dell’alveare d’origine il patrimonio genetico della regina madre, che in loro coincide al 100 per cento.» Essendoci più fuchi in giro, ci sarà maggiore selezione naturale, perché più alta sarà la competizione per accoppiarsi con le regine vergini di altri alveari, e solo i fuchi più in forma riusciranno nell’intento. È di nuovo il grande gioco della natura che noi esseri umani abbiamo voluto influenzare e canalizzare per i nostri personali interessi. Considerando i fuchi inutili li abbiamo marginalizzati, riducendo la loro presenza al numero strettamente necessario alla riproduzione. Ma Fontana combatte questa vulgata che relega i maschi a indolenti donatori di sperma, promuovendoli invece a importanti trasmettitori del Dna della colonia. A suo dire, tutto questo meccanismo ha finito per indebolire la specie. In parole povere, le api muoiono e sono in difficoltà anche perché le abbiamo rese più fragili stravolgendo i loro cicli naturali: «Se vogliamo che l’ape mellifera sopravviva, l’unica cosa che possiamo e dobbiamo fare è permetterle di rientrare a pieno titolo nella lotta per l’esistenza, rispettando le sue esigenze biologiche ed ecologiche, che l’hanno posta all’apice di un percorso evolutivo durato milioni di anni e che ora stiamo contribuendo a distruggere».

Queste considerazioni partono da un assunto ben preciso, che è anche il rovesciamento di un equivoco. «Contrariamente a quanto si dice, le api non sono animali domestici.» Si muovono in una terra di mezzo: vivono sì nelle arnie messe a disposizione dall’essere umano, ma si alimentano da sole con quello che offre loro l’ecosistema in cui stanno. Rimangono quindi selvatiche. Nel mantenere questo status, conservano un rapporto intimo e circolare con l’ambiente che le circonda.

Sono insomma un «modello di sostenibilità» che dovremmo osservare e tutelare. Anche perché, se si rompono gli equilibri che hanno garantito la sopravvivenza delle api per milioni di anni, la specie più minacciata sarà proprio «quella scimmia nuda dal nome, forse un po’ ampolloso, di Homo Sapiens».31 Per Fontana bisogna aiutarle ad affrontare le difficoltà attuali, modificando alcune pratiche nocive – riducendo per esempio l’uso spropositato di pesticidi in agricoltura – ma lasciando che rispondano con i loro personali strumenti alle sollecitazioni del clima che cambia. Perché le api hanno da dirci molte più cose di quello che pensiamo. L’importante è saperle ascoltare.