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Venezia che muore

Le sirene ululano con insistenza. Al suono principale che martella sempre uguale, ne segue uno di intensità variabile, secondo un codice che solo chi vive qui è in grado di decifrare. Due scale di note. Poi tre. «Forse è meglio se ti muovi. Altrimenti rischi di rimanere bloccato» mi dice Anna con lo sguardo che si tinge d’ansia. Alle otto di sera di martedì 12 novembre 2019 assisto così all’inizio di quella che, dopo l’alluvione del 1966, sarà la più eccezionale acqua alta della storia recente di Venezia.

Sono nel salotto dell’appartamento dove Anna vive con il marito Gianni, a due passi dal ponte dell’Accademia. Una casa piena di libri e suppellettili, che si sviluppa seguendo una pianta intricata intorno ad ambienti incastonati l’uno nell’altro come matrioske. È al piano terra, circostanza rara in questa città flagellata dall’acqua che si insinua da sotto il pavimento, risale dai tubi di scarico, entra dalle porte con una forza distruttrice tanto eccezionale quanto ormai tragicamente ordinaria.

Anna Toscano e Gianni Montieri sono due veneziani d’adozione: lei è arrivata in Laguna dal Trevigiano per fare l’università e ci è rimasta trent’anni, lui si è trasferito più di recente per seguirla. Sono entrambi poeti, scrittori e docenti alla Ca’ Foscari. Nel vivace caos del loro salotto, mi raccontano le conseguenze dell’inondazione dell’anno prima, quando la marea ha ingoiato interi scaffali della loro libreria, distrutto elettrodomestici, travolto mobili. Al tempo, era la fine di ottobre 2018, si è raggiunto il livello record di 156 centimetri. Per loro è stato uno shock, da cui ancora non si sono ripresi del tutto. «Avevamo l’acqua fino ai polpacci. Siamo rimasti giorni senza luce.»

Anna è una donna dall’esuberanza incontenibile, un turbinio di energia che trova la sua espressione più concreta nella capacità inusuale di scherzare sulle disgrazie vissute per esorcizzarle. Gianni ha un’ironia più sottile. Da napoletano trapiantato prima a Milano e poi a Venezia, è attraversato da una certa malinconia da sradicato, insieme a quel fatalismo creativo che chi nasce dalle sue parti porta con sé dovunque vada. Entrambi amano questa città bella e complicata, anche se di amori diversi. Lei sembra legata alla comunità che si è creata negli anni, a un tipo di socialità che trovi solo qui, ai rapporti veri e intimi di vicinato. Lui appare in fase d’esplorazione. Stregato dall’andamento tortuoso delle calli, si compiace di aver imparato a orientarsi, a tagliare i tragitti per evitare le orde di turisti, a muoversi con la perizia di un novello Teseo nel dedalo di ponti e sestrieri. Le loro idee di città si completano a vicenda, in un connubio che li trasforma in un esempio paradigmatico di coppia resiliente, capace di riemergere dalle avversità più forte e unita di prima. Tutti e due mi ripetono che mai abbandonerebbero la città, nonostante l’oggettiva difficoltà della situazione. Il loro appartamento al piano terra, costantemente minacciato dall’acqua, è un residuato di tempi antichi. La vita per i veneziani si è spostata ai piani alti. A livello strada sono rimasti solo negozi, magazzini e alloggi precari adibiti a bed and breakfast per turisti di passaggio.

La coppia mi mostra cosa vuol dire vivere con l’incubo costante che la marea ti entri in casa: tutte le prese sono state alzate. Frigorifero, lavatrice, piano cucina sono adagiati su piedistalli di mattoni. Gli scaffali più bassi della libreria sono vuoti. Mi descrivono cosa è accaduto l’anno prima: l’acqua che usciva dagli scarichi, sgorgava dal water e dalla vasca da bagno, penetrava da fessure sotto i pavimenti e dalla porta. Una vera e propria invasione a cui è stato difficile opporre resistenza. Gianni mi racconta con un pizzico di soddisfazione di come abbia imparato a «sessolare», ossia raccogliere l’acqua con paletta e bacinella come solo i veneziani sanno fare. Anna mi indica una serie di libri colpiti dall’attacco: ormai illeggibili con le loro copertine incollate al corpo, li conserva per affetto o come totem alla memoria di ciò che è stato. Gianni mi regala una sua raccolta di poesie. Una, dal titolo Previsione di marea, descrive benissimo quello che hanno provato. E quello che, da lì a poco, proveranno ancora.

Perché mentre parliamo, la cronaca dell’oggi invade la storia di ieri. La marea cresce improvvisa, molto al di sopra del previsto. Non si tratta, a dire il vero, di un evento inatteso: per la tarda serata, è stata diramata un’allerta acqua alta di 140 centimetri. Un livello sostenuto, ma ancora gestibile. Così loro si sono attrezzati, sollevando tutto il sollevabile, spostando ogni cosa un po’ più in alto, arrotolando un tappeto sulla porta d’ingresso a mo’ di argine rudimentale. L’appartamento risulta così più sopraelevato del solito, un arcipelago di palafitte scomposte, in cui ogni piano rialzato diventa appoggio transitorio per oggetti o pezzi di arredamento palesemente fuori luogo, disposti secondo un ordine che non risponde ad alcun gusto preciso ma alla necessità essenziale di proteggerli dall’acqua che verrà.

Le sirene però entrano in azione molto prima di quanto si aspettino. Il loro stridio meccanico e inquietante piomba come un avvoltoio sulla nostra conversazione. I suoni si fanno ripetitivi e via via insistenti. Anna comincia a preoccuparsi. Conta il numero delle scale di note del secondo segnale, quello che indica l’altezza dell’acqua. Mi spiega, meccanicamente: «Un suono prolungato vuol dire 110 centimetri; due suoni in scala crescente 120; tre suoni, 130; quattro suoni, 140».

Quando la sirena batte tre rintocchi, Anna e Gianni mi esortano a raggiungere la terraferma prima che diventi impossibile passare. Io li saluto. Esco sotto una pioggia battente cercando di dirigermi verso la stazione. La città è deserta, il silenzio rotto solo dall’urlo delle sirene. I veneziani si sono ritirati in casa, l’orecchio teso alle scale di note e gli occhi puntati sul telefono per avere aggiornamenti in tempo reale. I turisti sono fuggiti negli alberghi, a seguire lo spettacolo dai piani alti, indecisi se preoccuparsi di quanto sta accadendo o rallegrarsi di essere qui in questo momento eccezionale. Io seguo i cartelli con la scritta FERROVIA, che so essere fuorvianti ma comunque più affidabili del Gps del telefono, che da queste parti notoriamente impazzisce. L’acqua continua a salire, lenta ma inesorabile: non si capisce da dove sbuchi, ma piano piano ricopre tutto il manto stradale. Mi si arrampica lungo i polpacci e arriva all’orlo degli stivali di gomma. Cammino strascicando i piedi come mi è stato detto, per non sollevare il filo dell’acqua e creare quelle piccole onde che la farebbero tracimare all’interno delle calzature. Supero un paio di passaggi impervi in punta di piedi. Sento l’acqua premere sui lati delle gambe. Cerco di resistere all’assedio: mi muovo a passi lenti e misurati, quasi a tastoni, alzando le suole per calcolare la distanza dal piano strada che non vedo più. Poi, mi arrendo. Sento il flusso entrare. Inzupparmi i calzini. Avvinghiarmi i piedi in una morsa di freddo. Abbandono ogni remora e comincio a camminare velocemente dentro l’acqua, sotto la pioggia che non dà tregua. Sono letteralmente bagnato da capo a piedi. Girato un ultimo angolo, vedo comparire come un miraggio il ponte della Costituzione, al di là del quale c’è Santa Lucia. Esausto, prendo un treno per Mestre.

Arrivato sulla terraferma, nel caldo e asciutto albergo accanto alla stazione, seguirò l’evoluzione della salita dell’acqua in diretta grazie ai messaggi di Anna, tanto laconici quanto eloquenti. È una specie di crescendo rossiniano via sms. Ore 21.05: «Prossimo massimo 155». Ore 21.07: «160, è una follia». Ore 21.50: «Sirene, again». Ore 21.57: «170». Ore 22.04: «Siamo allagati metà casa e manca un’ora alla massima». Ore 22.51: «Sirene». Ore 23.12: «187!». Quando la chiamo il giorno dopo, è stremata: «Non ho mai visto una cosa del genere. Hai presente la poltrona dove eri seduto ieri? È finita sott’acqua».

La notte del 12 novembre rimarrà impressa a lungo nella memoria dei veneziani. L’onda della marea ha travolto tutto. Si è abbattuta con una forza imprevista sulla Laguna, trasformando le calli in torrenti che quasi hanno finito per confondersi con i canali. Con il picco di 187 centimetri, il secondo più alto di sempre dopo i 194 del 1966, è finito sommerso quasi il 90 per cento della città, con danni ingentissimi per esercizi commerciali, ristoranti e monumenti. La stessa cattedrale di San Marco ha avuto l’abside inondata, gli affreschi intaccati, i marmi aggrediti dal sale.

Ma i numeri di per sé non dicono molto, o sono persino ingannevoli per chi non conosce le unità di misura dell’acqua alta. Un livello di 187 centimetri non vuol dire che vieni travolto da un’onda di quell’altezza. La marea si calcola dal cosiddetto «zero mareografico» della stazione di rilevamento di Punta della Salute, sul canale della Giudecca; è un punto stabilito per convenzione nel 1897 in corrispondenza del livello medio del mare. A partire da questo «punto zero», che tutti i veneziani conoscono fin troppo bene, si determina l’altezza della marea, e di conseguenza quante e quali zone della città saranno inondate. È un calcolo importante, perché permette di approntare tutte le misure necessarie: mettere le passerelle in alcune calli o, in alternativa, levarle se l’acqua troppo alta le trascinerebbe via, disporre le idro-ambulanze in punti precisi se alcuni canali diventassero non navigabili perché i ponti sono troppo bassi, preparare cittadini e negozianti a fronteggiare la marea attraverso paratie e pompe idrauliche. Essendo costruita su livelli differenti, la città risponde diversamente all’acqua alta a seconda della zona e a seconda della cosiddetta «quota di calpestio». A un’acqua alta di 140 centimentri corrisponde un allagamento del 59 per cento dell’area urbana, ai 160 centimentri il 77 per cento, ai 190 centimentri l’88 per cento.

Le zone più note sono anche quelle più esposte: la quota di calpestio al ponte di Rialto è 105 centimetri, a San Marco 80, nella calle dove vivono Anna e Gianni, 140. Sopra quella quota, il piano strada viene allagato. Il che vuol dire che, quella terribile notte, nella piazza più celebre di Venezia l’acqua è arrivata a quasi un metro e dieci sopra la pavimentazione. E, a casa di Anna e Gianni, ha inondato tutto quello che si trovava a 45 centimetri da terra.

Ognuno conosce la quota di calpestio delle parti della città dove vive, dove lavora e che frequenta più spesso. Ogni abitante ha una propria mappa mentale delle zone transitabili a seconda dei livelli previsti, delle allerte lanciate dal Centro maree, delle sirene che suonano con le loro diverse scale e tonalità. I veneziani convivono da sempre con l’acqua alta. Quando arriva, tirano fuori gli stivali e continuano per quanto possibile a svolgere le proprie occupazioni. Ma quello che accade questo 12 novembre – e nei giorni successivi, in cui si verifica una sequela impressionante di nuovi eventi di marea – è qualcosa di anomalo, capace di mettere a dura prova la città e i suoi coriacei abitanti. Nel giro di cinque giorni, si registrano quattro maree superiori ai 140 centimetri. Per tre volte il livello eguaglia o supera la soglia psicologica dei 150. È qualcosa che non si è mai verificato da quando si fanno rilevazioni, neanche nel corso di un intero anno solare. La successione di episodi eccezionali allaga negozi e abitazioni in tutta la Laguna, a Venezia, all’isola della Giudecca, a Burano, fino alle più lontane Chioggia e Pellestrina, prostrando un’intera comunità.

Il Centro maree, il nucleo strategico della resistenza alle acque

Il fenomeno delle acque alte fa parte dell’essenza stessa di questa città anfibia, che ha un legame inscindibile, quasi di simbiosi, con la Laguna su cui sorge. Fin dalla sua fondazione, Venezia ha imparato a convivere con l’acqua, sapendo di dipendere da essa nella buona e nella cattiva sorte. Difesa naturale dagli attacchi dei nemici, tanto che per mille anni è rimasta immune da conquiste e invasioni (soccombendo solo di fronte all’irruente avanzata di Napoleone), l’acqua è anche portatrice di drammi e disgrazie. Le cronache antiche sono piene di racconti tragici, di alluvioni e inondazioni monumentali, come quella del 1410 quando «perirono molte barche, e di quelli che venivano dalla fiera di Mestre e altri luoghi s’annegarono quasi mille persone». O come quella dell’ottobre 1559, quando «ruppero a dritta e a sinistra nella terraferma ed innondarono tutte le campagne turgidi e rovinosi fiumi. Annerava e fremeva alta la marea e non frangevasi al Lido ma lo rompeva ed atterrava».15 Questi frammenti di testi disomogenei parlano di una città in bilico, eternamente soggetta alle intemperie del clima e della natura. All’epoca i fenomeni alluvionali erano causati soprattutto dai corsi d’acqua che straripavano. Così i notabili della Serenissima, molto attenti alla funzionalità idraulica e all’evoluzione morfologica del territorio, deviarono tutti i fiumi che prima affluivano in Laguna: il Brenta, il Piave, il Sile, senza contare il preventivo taglio del Po a Porto Viro per ricacciare indietro il suo delta che si stava pericolosamente avvicinando. Ma ogni tempo ha la sua croce. Oggi il pericolo viene soprattutto dal mare, e dal vento che alza la marea, trasformandola in un’onda anomala che si abbatte sulla Laguna e invade la città.

Il meccanismo delle acque alte mi viene spiegato al Centro previsioni e segnalazioni maree del comune. Al primo piano di un palazzetto che affaccia sul Canal Grande, a poche decine di metri dal municipio e dal ponte di Rialto, il Centro ha il compito di analizzare l’andamento delle maree, diramare le allerte e decidere se far scattare o meno le sirene. La sala operativa è una stanza imbottita di monitor, in cui sono indicati i livelli del mare in corrispondenza delle varie stazioni di rilevamento, più le previsioni di crescita secondo modelli che tengono conto dell’andamento dei venti. Gli operatori sono impegnati a leggere i dati che arrivano in tempo reale e a rispondere alle telefonate dei cittadini più anziani che non usano lo smartphone o semplicemente vogliono sentirsi rassicurati da una voce amica, che dia loro indicazioni su cosa succederà. «Facciamo anche un lavoro di assistenza psicologica» mi dice ridendo Marco Favaro, che è anche colui che si incaricherà di illustrarmi nel dettaglio quali sono le cause e le dinamiche delle maree, da cosa sono determinate e come la città di Venezia gestisce le principali emergenze.

La sala è in fibrillazione. I telefoni squillano senza sosta. In questi giorni di acque alte eccezionali, i veneziani si aggrappano al Centro maree come a una boa di speranza, ansiosi di avere notizie, di sentire dalla voce degli operatori che tutto andrà bene, di ritrovare una parvenza di normalità. Io arrivo al culmine di una fase di marea che si prevedeva di 145 centimetri, e invece si è fortunatamente arrestata a 127. «Oggi è andata meglio del previsto» mi dice Favaro, un lampo di sollievo a illuminargli gli occhi stanchi, segnati da una serie di giornate febbrili. Marco non è di Venezia ma qui ha passato gran parte della sua vita professionale, a partire dall’università. Vive a Caorle, da cui ogni giorno si imbarca per un pendolarismo di quasi due ore. Ama il suo impiego al Centro, dove è approdato dopo aver lavorato insieme all’assessore all’Ambiente Paolo Cacciari, fratello dell’ex sindaco-filosofo Massimo. È un tecnico, ma anche un convinto ambientalista, tanto che è stato consigliere dei Verdi nel suo comune. Mi parla della Laguna, di quello che ha imparato stando in prima linea, di quanto questo ambiente così fragile sia messo a rischio da interessi in conflitto tra loro, che ruotano intorno a diverse concezioni della città. Come tutti qui, ha la sua personale idea del futuro di Venezia, che farà trasparire piano piano nel corso della mattinata passata insieme. Ma prima, con la pazienza di un professore di scuola media, mi spiega come funziona il fenomeno dell’acqua alta.

«L’acqua alta è data da un insieme di fattori: il primo è la marea astronomica, ossia l’attrazione della Luna e in subordine del Sole che ciclicamente e regolarmente fanno alzare e abbassare il livello delle acque. Il secondo è costituito dai cosiddetti “fenomeni di incremento”, soprattutto venti di scirocco provenienti da sud-est, più venti di bora provenienti da nord-est.» La gran parte delle acque alte si verifica al picco della marea astronomica, quindi durante la Luna nuova e la Luna piena. Se in concomitanza di questi periodi c’è un fenomeno di incremento, si verificano innalzamenti più o meno significativi. In parole povere: se arriva un vento da sud-est durante una marea astronomica, è presumibile che l’acqua inonderà Venezia.

È precisamente quel che è accaduto il 12 novembre: all’apice della forza attrattiva della Luna, un fortissimo scirocco con punte fino a 100 chilometri orari ha soffiato sulla Laguna spingendo l’acqua verso la città. A questo è andato a sommarsi un vento di bora da nord-est, che ha provocato quello che i veneziani chiamano «scontraùra», cioè la convergenza di correnti marine provenienti da due direzioni. In parole povere, i due venti si sono scontrati proprio sopra la Laguna sommando la loro potenza in un piccolo ciclone, la cui forza è stata ulteriormente incrementata dalla presenza di una forte area di bassa pressione. «In pratica, è stata una tempesta perfetta» riassume Favaro.

Gli operatori del Centro maree non hanno previsto quello che sarebbe successo e sono stati costretti a modificare le loro stime in corso d’opera, facendo risuonare le sirene, quelle che ho cominciato a sentire a casa di Anna e Gianni e che mi hanno poi accompagnato durante la mia marcia poco trionfale verso la stazione. «Ci siamo trovati di fronte a un evento davvero eccezionale, che i nostri modelli non sono stati in grado di leggere.» Favaro mi mostra il funzionamento del loro sistema previsionale, che chiamano in gergo «Frankenstein junior», perché è la sommatoria di vari modelli, ognuno dei quali pesa in proporzione al grado di affidabilità mostrato in passato. Poiché quel tipo di fenomeno non si era mai verificato con portata e velocità simili, Frankenstein junior ha fatto cilecca. «Dobbiamo affrontare una realtà in continua trasformazione, e lo dobbiamo fare con grande capacità di adattamento».

Marco mi mostra una serie di grafici, con l’evoluzione delle maree nell’ultimo secolo. Nel primo sono illustrate tutte le acque alte maggiori di 110 centimetri. La linea ascendente indica un incremento esponenziale che mette paura: se fino agli anni Sessanta passavano lunghi periodi senza che si verificassero, negli ultimi tempi sono diventate la norma. Un’ulteriore tabella descrive le cosiddette «maree eccezionali», cioè quelle che superano i 140 centimetri: dal 1923 a oggi, la stazione di Punta della Salute ne ha registrate venticinque. «Ma di queste, sedici si sono verificate nell’ultimo ventennio.»

Questi dati parlano di una realtà incontrovertibile: le acque alte eccezionali sono destinate a essere sempre più frequenti, mettendo a rischio la sopravvivenza stessa di Venezia. Ma perché aumenta in questo modo l’incidenza di tali episodi? «È il risultato di un doppio e opposto movimento» mi spiega Favaro. Da una parte, c’è il cosiddetto «eustatismo», ossia l’innalzamento del livello del mare determinato dalla fusione dei ghiacciai terrestri e dall’espansione termica delle acque, quello che mi ha spiegato Gianmaria Sannino all’Enea. Dall’altra la cosiddetta «subsidenza», ossia l’abbassamento della città, fenomeno in parte naturale, e quindi inevitabile, in parte conseguenza dell’azione dell’essere umano. «Tutti sanno che l’estrazione di acqua per le attività industriali di Marghera tra l’inizio degli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta ha avuto un effetto significativo sullo sprofondamento della città.» In termini tecnici si chiama «emungimento», parola che riesce nell’inedito compito di racchiudere in sé il senso proprio e quello figurato, a essere insieme significato e metafora, e a spiegarsi quindi in modo istantaneo anche ai non addetti ai lavori: la Laguna di Venezia è stata letteralmente munta per altri scopi, deprivata delle proprie riserve sotterranee, spolpata della propria linfa vitale. E si è afflosciata su se stessa.

Dopo l’«aqua granda» del 1966, l’emungimento delle falde acquifere è stato sospeso e la subsidenza antropica ha subito uno stop. Ma intanto in quegli anni Venezia è scivolata giù di 12 centimetri, una misura che pesa come un macigno sulla situazione attuale. L’effetto combinato di eustatismo e subsidenza ha fatto alzare il livello medio del mare di 26 centimetri rispetto al 1897, quando è stato stabilito lo zero mareografico a Punta della Salute. «Il clima che cambia sta agendo su un ambiente pesantemente compromesso negli anni scorsi dall’essere umano» sottolinea Favaro.

Siamo quindi di fronte a un processo inarrestabile, condannati a essere spettatori inermi di una città che sprofonda? Le acque alte così ricorrenti sono un indicatore di un futuro prossimo in cui poco o nulla si riuscirà a fare per proteggere Venezia? A confrontare i dati di oggi con le previsioni che mi hanno mostrato al centro Enea sull’innalzamento del mare da qui a fine secolo, sembra che ci siano poche speranze. Se il livello medio si alzerà di altri 45 centimetri, e questo secondo lo scenario più ottimista, piazza San Marco finirà sempre sotto l’acqua durante le maree astronomiche, a prescindere dal verificarsi o meno di fenomeni di incremento. Sarà strutturalmente sotto il livello del mare. Lo stesso discorso vale per Rialto e altre zone limitrofe. «Il futuro non sembra roseo» mi dice Favaro. «Ma già oggi la situazione è critica. Basta guardare i dati: il picco di alta marea astronomica è di 70 centimetri sullo zero mareografico. A 80 centimetri San Marco si allaga. È sufficiente un vento anche non troppo forte per avere acqua nella piazza. Il che in effetti accade già almeno cento volte all’anno.»

«La Laguna è un paesaggio in transito»

«Questi eventi si ripeteranno sempre più spesso e in modo via via più intenso.» Luigi Cavaleri è un oceanografo dell’Istituto di Scienze marine di Venezia, il centro di ricerca impegnato in prima linea nello studio e nell’analisi dell’impatto dei cambiamenti climatici sull’ambiente lagunare. Fondato nel 1969 dopo l’«aqua granda» di tre anni prima, l’Ismar-Cnr gestisce una piattaforma operativa in alto mare dove compie rilevazioni atmosferiche, registra l’andamento delle maree, studia l’evoluzione dell’ecosistema marino. Costituita da una torre sormontata da un piccolo laboratorio, del tutto simile a una struttura per l’estrazione del petrolio off-shore, la piattaforma è un’autentica «sentinella del mare», utile sia per la determinazione dei livelli di acqua alta (la marea arriva qui con un anticipo di venti minuti rispetto alla Laguna), sia per studi più a lungo termine. Cavaleri è un veterano della piattaforma e dell’Istituto: fa parte del gruppo di ricerca fin dai suoi esordi ed è stato per anni direttore del centro, dove oggi continua a lavorare con uno status di ricercatore emerito. Esperto riconosciuto di moto ondoso, è invitato a parlare in tutto il mondo. L’acqua alta del 12 novembre lo sorprende all’altro capo del pianeta, in Australia, dove si trova per un convegno. E questo è per lui un piccolo smacco: «Dopo che hai passato una vita intera a studiare un evento nella tua città, questo esplode in modo dirompente quando non ci sei. Mi sono sentito come il capitano assente dalla nave durante una mareggiata».

Lo incontro circa un mese dopo nella sede dell’Istituto al complesso dell’Arsenale, un ex cantiere navale dalle enormi vetrate che lo riempiono di una luce intensa, quasi abbagliante. Insieme agli altri ricercatori, Cavaleri ha analizzato a posteriori l’andamento dell’evento di novembre 2019 e lo ha confrontato con quello del 2018 e con l’«aqua granda» del 1966. Mi ripete in modo più tecnico quello che mi aveva spiegato Favaro al Centro maree, e cioè che l’acqua è arrivata a 187 centimetri perché alla marea astronomica si è aggiunto un evento meteorologico estremo, con venti eccezionali che hanno provocato un incremento ondoso a cui si è sommato il cosiddetto «fenomeno barometrico inverso», ossia un innalzamento del livello dell’acqua determinato dalla bassa pressione presente sull’area. «Dobbiamo abituarci a un certo grado di incertezza, perché questi fenomeni sono difficilmente prevedibili» mi dice il ricercatore. Che aggiunge: «L’unica certezza che abbiamo è che avverranno sempre più spesso perché il livello del mare sale sempre di più e la città scende sotto l’effetto della subsidenza».

Cavaleri sottolinea come l’acqua alta di novembre sia stata di per sé meno intensa di quella dell’anno precedente, e meno potente anche di quella del 1966. «In questo caso, c’è stato incremento durante il picco di marea. Negli altri due, l’acqua si è alzata sotto l’azione del vento quando la marea astronomica era al suo picco minimo.» In entrambi i casi precedenti, questa sfasatura ha rappresentato un’incredibile «fortuna nella sfortuna». «Se fosse arrivato quel vento dodici ore prima o dopo, durante il picco di marea, nel 2018 avremmo visto l’acqua raggiungere i 215 centimetri, e nel 1966 addirittura 230 centimetri». Ma se l’evento del 1966 è stato il più importante di sempre, e sarebbe stato ancora più rilevante senza la sfasatura tra marea astronomica e venti, non siamo semplicemente di fronte a situazioni eccezionali, estreme? Non sarà uno di quei tanti fenomeni che le cronache antiche descrivevano come calamità inevitabili? Quanto pesa il cambiamento climatico su quello che sta succedendo a Venezia? Cavaleri non ha dubbi: «Pesa perché si sta alzando il livello del mare. Se proiettiamo l’evento del 1966 ai giorni nostri, con il livello medio relativo del mare cresciuto in cinquant’anni di circa 12 centimetri, otterremmo un’altezza di 240».

Il ricercatore mette l’accento sulla fragilità crescente dell’ambiente lagunare, sempre più soggetto agli effetti dell’acqua e del vento, sempre più destinato a essere sommerso, sempre meno in equilibrio con le proprie condizioni di sopravvivenza. «Il fatto è che la Laguna è per definizione un transiente geologico, un ambiente in perenne trasformazione, che noi esseri umani vorremmo invece cristallizzare in uno stato dato per sempre. Oggi, sotto l’effetto dei cambiamenti climatici, sta evolvendo in una direzione che può non piacerci.»

A sentire Cavaleri, la questione non è se un evento come quello a cui ho assistito si ripresenterà, ma quando. Gli elementi ci sono tutti affinché qualcosa del genere avvenga con una certa frequenza. E allora gli chiedo: «Quanto è attrezzata Venezia per far fronte a tali calamità?».

«Stanno costruendo il Mose» mi risponde, facendo una pausa che rivela più di mille parole.

Gli domando se secondo lui funzionerà. «Tecnologicamente l’idea è ottima. Solo che è stata progettata con i dati di quarant’anni fa, quando il mare cresceva di 1,3 millimetri l’anno. Bisogna capire se sarà adeguato alle condizioni attuali e a quelle dei prossimi decenni. Per il momento non è in funzione, quindi nessuno può dirlo con certezza.»