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Istantanee di estinzione
L’arretramento dei ghiacciai è la manifestazione più evidente del surriscaldamento del pianeta: non per niente il direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) Achim Steiner lo ha definito «il canarino nella miniera di carbone del cambiamento climatico».2
Il fenomeno è globale e si misura in tutta la sua ampiezza anche nell’arco alpino. In Italia, negli ultimi cinquant’anni i ghiacciai hanno perso circa un terzo della loro estensione. Si è passati dai 527 chilometri quadrati degli anni Settanta ai 370 di oggi, con una riduzione pari alla superficie del lago di Como. In totale si sono persi 478 ghiacciai. Molti sono scomparsi del tutto, altri sono stati declassificati a glacionevati, ossia accumuli di neve e ghiaccio residuali e immobili. È il caso di una miriade di complessi glaciali delle Alpi e di quello che sugli Appennini era una volta il «ghiacciaio più meridionale d’Europa»: il Calderone, nel massiccio del Gran Sasso, ridotto oggi a un ammasso detritico in cui si scorgono poche tracce sparse di ghiaccio.
Tutti questi dati si possono leggere nel Nuovo catasto dei ghiacciai italiani, una pubblicazione uscita nel 2015 a cura del Comitato glaciologico italiano e dell’Università Statale di Milano.3 Il catasto attualizza quello del 1989, in cui già si registravano le prime regressioni, ma non in modo così evidente. Perché la grande scomparsa è cominciata proprio negli anni Ottanta, con una tendenza che appare ormai irreversibile, trainata da incrementi di temperatura più marcati che altrove. Rispetto al periodo preindustriale, sulle Alpi si è registrato un aumento medio di quasi 2 gradi centigradi, ossia il doppio della media globale. L’ulteriore crescita prevista per i prossimi anni – da 1,5 a 3 gradi entro la fine del secolo4 – porterà a una modifica sostanziale di tutto il paesaggio montano. Anche nello scenario climatico meno pessimista, con variazioni di temperatura più contenute, si prevede da qui al 2100 una riduzione di altri due terzi di estensione; in quello più drammatico, si perderebbe invece il 90 per cento della superficie totale, con un mantenimento delle nevi eterne soltanto ad altitudini superiori ai 4000 metri.5 Un futuro di cime prive di quel caratteristico cappuccio bianco, tratto distintivo ed elemento identitario dell’ambiente alpino, sembra un’eventualità più che concreta.
Le implicazioni di questa grande fusione non riguardano solo il paesaggio. Come sottolineato da Giorgio Elter, i ghiacciai sono riserve di acqua fossile che scompaiono per sempre, riducendo la disponibilità idrica per gli usi agricoli e per la produzione di energia nelle centrali idroelettriche. La regressione della superficie glaciale complessiva in Italia ha già comportato la perdita netta di 2000 miliardi di litri d’acqua fossile, l’equivalente di ottocentomila piscine olimpioniche o di quattro volte il lago Trasimeno.6 Questo produrrà effetti rilevanti per varie attività tanto in pianura quanto in montagna: un anticipo di ciò che potrà avvenire in futuro si è avuto nell’estate del 2018 in Svizzera quando, per abbeverare le mucche negli alpeggi del Canton Vaud colpito dalla siccità, si è portata l’acqua in quota con gli elicotteri.7
I ghiacciai sono sempre stati soggetti ad andamenti ciclici. Durante la cosiddetta «piccola era glaciale» tra il 1450 e il 1850, quando l’Europa intera finì sotto la morsa del freddo, raggiunsero superfici molto estese. All’epoca avanzavano con una certa irruenza ed erano osservati con terrore dagli abitanti dei paesi di montagna, che vivevano sotto la minaccia costante di vedere inghiottire le proprie case. Basti pensare che nel 1601 i contadini di Chamonix si rivolsero terrorizzati al governo della Savoia perché la mer de glace – quello stesso ghiacciaio agonizzante e in fuga che le scalinate di ferro di oggi cercano disperatamente di agguantare – aveva travolto due villaggi e stava per seppellirne un terzo.8
Il clima generale dell’Europa in quei secoli fu particolarmente rigido, come mostrano racconti e stampe che oggi sembrano copertine di romanzi di fantascienza: il Tamigi ghiacciato su cui si tenevano fiere e mercatini (e sul quale una volta venne fatto camminare persino un elefante); la Laguna di Venezia trasformata in pista da pattinaggio in una stampa di Gabriele Bella, pittore-cronista della Serenissima; i numerosi quadri di Pieter Bruegel, con fiumi e laghi coperti di ghiaccio in Olanda. Gli uomini pronunciavano preghiere e facevano riti propiziatori per tentare di scacciare gli effetti del freddo estremo, che devastava i raccolti e decimava il bestiame. Secondo una vulgata storiografica, la stessa caccia alle streghe della prima età moderna fu causata dalla necessità di trovare capri espiatori cui addossare la responsabilità dei danni prodotti dal gelo.9
Poi, a partire dalla metà dell’Ottocento, iniziò un nuovo ciclo climatico mite e i ghiacciai cominciarono a retrocedere. Il ritiro è stato graduale ed è andato avanti fino agli anni Settanta del Novecento, quando un leggero abbassamento delle temperature medie è coinciso con un piccolo avanzamento delle nevi perenni. Dalla metà degli anni Ottanta è iniziata la nuova tendenza, quella che è sotto i nostri occhi. La tendenza raccontata dalla gradinata di Chamonix, la stessa che Elter osserva ogni giorno dai suoi campi di Gimillan e che il Nuovo catasto dei ghiacciai italiani cataloga in modo sistematico.
I termometri del riscaldamento globale
«La differenza con il passato è la velocità con cui ciò sta avvenendo. Si tratta di un fenomeno che non ha precedenti storici.» Riccardo Scotti è un ricercatore in glaciologia all’Università di Bologna. Per descrivermi la situazione dei ghiacciai alpini parte da lontano. Ripercorre la storia delle varie epoche geologiche, dal Pleistocene all’Olocene, spiegandomi nel dettaglio i periodi glaciali e interglaciali. Mi parla di Ötzi, l’uomo del Similaun, riemerso in Alto Adige nel 1991 dopo essere rimasto per cinquemila anni sepolto sotto un ghiacciaio. Ritrovata per caso da una coppia di escursionisti tedeschi, la mummia oggi è esposta al museo archeologico dell’Alto Adige di Bolzano, in una teca che ne consente il mantenimento, ed è sottoposta a ogni tipo di analisi per ricostruire le condizioni di vita sul pianeta in un’epoca di cui sappiamo ben poco. «Quel ritrovamento dimostra che siamo di fronte a una situazione che non si è mai verificata negli ultimi cinque millenni. Il cadavere perfettamente conservato indica che a quell’altitudine c’è sempre stato il ghiaccio.»
Quella di Scotti è una prospettiva lunga, volta a contestualizzare il presente e mettere alcuni punti fermi nella discussione, che reputa cruciale, sul ruolo antropico nella fusione dei ghiacciai. Scotti è un nemico giurato dei cosiddetti «negazionisti», secondo i quali l’attuale riscaldamento globale non sarebbe causato dall’aumento di gas a effetto serra presente nell’atmosfera ma da una certa ciclicità del clima, dimostrata appunto dall’alternanza di periodi caldi e periodi più freddi, come quelli relativamente recenti della piccola era glaciale. Quando sente citare questo tipo di argomentazioni, si infervora. «I ghiacciai oggi arretrano anche di 40-60 metri l’anno. È una cosa mai vista. Come si fa a dire che sono cicli naturali? Basta guardarsi intorno per misurare l’ampiezza di quanto sta accadendo.»
Siamo in Valtellina, più precisamente a Santa Caterina di Valfurva, rinomata località sciistica e delizioso villaggio montano nel cuore del Parco nazionale dello Stelvio. La stagione estiva volge al termine. La cittadina è deserta. O meglio: è occupata in massa dai partecipanti al weekend di formazione del Servizio glaciologico lombardo, di cui Scotti è coordinatore scientifico. Sono una sessantina di giovani, che hanno seguito varie lezioni teoriche e imparato rudimenti di glaciologia, e che nel corso di quest’ultima uscita metteranno in pratica gli insegnamenti ricevuti. Su invito degli organizzatori, mi sono aggregato al gruppo come osservatore.
Il Servizio glaciologico lombardo è un’associazione di volontari nata quasi trent’anni fa per iniziativa di due fratelli milanesi, Alessandro e Antonio Galluccio. Appassionati di montagna e grandi camminatori, hanno girato in lungo e in largo le Alpi lombarde. Nel corso delle loro escursioni, si divertivano a fare foto dei rilievi, che poi Antonio riproduceva a mano su cartoncino con estrema fedeltà. Erano gli anni Ottanta: l’arretramento delle nevi perenni non era ancora evidente e comunque poco presente nel dibattito pubblico. Ma loro, confrontando i disegni fatti anno per anno, hanno notato che quell’impressione di mutamento che percepivano era reale: i ghiacciai cambiavano di forma, e soprattutto si riducevano di dimensioni e lunghezza. Quell’atlante artigianale, che ricorda le opere dei cartografi medievali, è stato lo spunto per coinvolgere amici e conoscenti trasformando la loro passione in una vera e propria missione. Nel 1992 hanno fondato l’associazione, dando vita anche a una rivista di cultura glaciologica, «Terra Glacialis», uscita per sei anni con testi in italiano e inglese, e diventata punto di riferimento per specialisti e cultori della materia. Da allora il gruppo è cambiato. Si è sviluppato e ha attirato al suo interno professionisti ed esperti di glaciologia, fra cui lo stesso Scotti. Ogni due anni, il Servizio organizza questo corso, sempre più affollato. Ai partecipanti vengono proposte lezioni teoriche e missioni sul campo per imparare a misurare i vari elementi distintivi del ghiacciaio, dalla fronte alla massa glaciale, alla cosiddetta «linea di equilibrio», il punto cioè in cui il ghiaccio lascia spazio alla neve fresca.
Scotti è uno dei principali animatori della sezione teorica. A differenza di gran parte dei membri storici del gruppo, che sono di Milano, è originario proprio della Valtellina e qui vive facendo il pendolare con Bologna, dove insegna all’università. In un intervallo del corso, mi tiene una lunga lezione dove riassume l’evoluzione del paesaggio alpino, concedendosi ampie digressioni che dal Pleistocene arrivano ai giorni nostri. Per lui le masse glaciali sono un «termometro fisico». La loro fusione è un indizio irrefutabile di aumento della temperatura. «Quello che sta accadendo in montagna è un segnale del disastro che avverrà in valle» dice. «Se qui i ghiacciai si fondono, vuol dire che nelle pianure ci sarà meno acqua e farà sempre più caldo. È un fenomeno inesorabile.» Scotti pronuncia più volte questa parola: «inesorabile». E propone un’immagine chiara e scioccante, che ripeterà anche al corso: «Quando fotografate un ghiacciaio ricordatevi sempre che state ritraendo qualcosa che l’anno prossimo non ci sarà più». Ogni foto è un’istantanea d’estinzione, che va scattata per ricordare alle prossime generazioni com’era fatto un paesaggio irrimediabilmente mutato.
Il ricercatore insiste su questo punto, non solo perché è un appassionato fotografo, ma anche perché questa è una delle attività dell’associazione. I membri del Servizio glaciologico compiono le cosiddette «osservazioni fotografiche»: scattano foto e le confrontano con quelle degli anni precedenti per catalogare i mutamenti dei ghiacciai. Accanto a questo monitoraggio visivo, realizzano più approfonditi «rilievi fisici» su alcuni ghiacciai-laboratorio, una settantina in tutta la Lombardia. Misurano il livello di arretramento della fronte attraverso le bandelle, fettucce che vengono srotolate a partire da un punto preciso alla base del ghiacciaio. E calcolano il grado di ablazione – ossia la perdita di massa – mediante delle apposite paline. Si tratta di aste di legno conficcate in vari punti nel corpo glaciale, la cui maggiore o minore emersione permetterà poi di determinare quanta massa sia andata perduta nel corso dell’anno. Ogni membro del gruppo ha adottato un ghiacciaio, che segue nelle sue diverse fasi diventandone memoria storica. È un rapporto intimo, quasi esclusivo, che vede ognuno di loro accudire il proprio ghiacciaio come un figlio, di cui pare conoscere il carattere, le fragilità, i punti deboli e quelli di forza.
I dati raccolti sono inseriti su un’apposita app, che permette di avere un quadro generale della situazione. Con pochi mezzi e tantissima buona volontà, il gruppo elabora una mappatura estensiva, puntuale e aggiornata della situazione dei ghiacciai lombardi. Dalle prime cartografie manuali fatte dai Galluccio l’associazione ne ha fatta di strada, anche se un certo talento artigianale e un pizzico di folle ingegnosità continuano a guidare l’azione dei suoi membri. Scotti mi descrive il metodo che si è inventato per monitorare il ghiacciaio che ha deciso di adottare, quello del Lupo sulle Alpi Orobie. Ha costruito una scatola protetta in cui ha inserito una batteria a energia solare che alimenta uno smartphone. Ha posizionato questo marchingegno sul tetto di un bivacco che affaccia proprio di fronte al ghiacciaio. Lo ha poi programmato per scattare una foto al giorno, in modo da ottenere un time-lapse dell’andamento della massa glaciale nel corso dell’anno. Lo ha sistemato a fine estate, per poi andare a recuperarlo a maggio dell’anno dopo. La prima volta che lo ha testato non è andata benissimo. «Quando sono salito l’ho trovato spento, perché qualcuno aveva staccato dal telefono la batteria solare per connetterla alla luce del bivacco. Così mi manca tutto l’ultimo periodo.» Scotti dice di aver scoperto su Internet un video in cui alcuni escursionisti di Bergamo avevano filmato una serata al bivacco alla luce di una lampadina connessa proprio al suo mini-generatore. «Li ho contattati ma non mi hanno risposto» racconta tra l’irritato e il divertito. L’anno successivo ha chiuso la batteria in una scatola a tenuta stagna e ha ottenuto i risultati sperati.
Fa impressione la dedizione di questo gruppo di volontari, che ha deciso di impegnarsi nella tutela del paesaggio alpino in trasformazione, o quantomeno nella registrazione e nel racconto di questa trasformazione. Riccardo lo considera un imperativo morale: portare all’attenzione del pubblico un tema cruciale di cui si discute troppo poco. Il tema non è solo l’arretramento dei ghiacciai, che potrebbe essere considerato una questione secondaria per i non amanti della montagna, ma il surriscaldamento globale. Non si stanca di ripeterlo: le masse glaciali sono un termometro naturale. Se la temperatura sale, loro si fondono. E se si fondono, vuol dire che la temperatura sta salendo.
Questi «avamposti del cambiamento climatico», come li chiama Scotti, ci raccontano anche altre cose, tutte correlate tra loro. Determinata in primis dall’incremento delle temperature, la fusione dei ghiacciai segue una progressione geometrica a causa della diminuzione dell’albedo. Più si riduce la superficie bianca, più il complesso incamera calore e si fonde rapidamente. È una specie di circolo vizioso, a cui contribuiscono altri agenti esterni, come le polveri che sempre più massicciamente arrivano da lontano e si depositano sui ghiacciai. Possono essere di origine naturale, come le sabbie dei deserti africani, che viaggiano per migliaia di chilometri trasportate dai venti, o anche, e soprattutto, antropica, come il particolato fine proveniente dalla combustione dei motori diesel e dalle attività industriali della Pianura Padana. Stazione d’arrivo degli scarti di un modello di sviluppo pesantemente «climalterante», le masse glaciali ci raccontano una storia che non vogliamo ascoltare: quella dell’essere umano che ha sfruttato troppo la natura e ne ha causato la ribellione.
Perché osservare i ghiacciai che scompaiono ci inchioda alle nostre responsabilità. Come Elter in Valle d’Aosta, che ha citato in giudizio l’Unione Europea, Scotti punta il dito contro le attività antropiche, contro un sistema di produzione e di consumo che ha generato un aumento colossale delle emissioni di gas a effetto serra e contro una politica che ha difficoltà a mettere in campo azioni veramente efficaci.
In Italia, sottolinea ancora il ricercatore, «il livello di discussione sul cambiamento climatico è basso, imperano i negazionisti e si ha difficoltà ad agire con la necessaria tempestività. Forse ci vorrebbe una dittatura ecologista, che imponga decisioni collettive per evitare l’estinzione del genere umano». Fatta questa chiosa apocalittica, mi strizza l’occhio: «Domani in quota ti renderai conto da vicino delle dimensioni di quanto sta avvenendo».
Il corpo straziato dei Forni
Dopo la giornata di lezioni teoriche, la domenica mattina andiamo sul campo. Alle prime luci del giorno saliamo in macchina da Santa Caterina di Valfurva all’Albergo dei Forni, da dove parte il sentiero che conduce all’omonimo ghiacciaio. Nell’atrio del rifugio costruito a fine Ottocento spiccano le foto d’epoca, quando la neve perenne riempiva l’intera vallata arrivando ai margini dell’edificio. Il ghiacciaio era tanto avanzato che nel 1876, nella sua celebre opera Il Bel Paese, l’abate Antonio Stoppani definiva l’escursione «una partita di piacere, a cui posson pigliar parte anche le signore, senza né forzare di troppo la morbidezza della loro muscolatura, né rinunciare agl’impedimenti meno indispensabili dell’acconciatura».10 Oggi i Forni sono uno dei ghiacciai più studiati dell’arco alpino, punto di monitoraggio di vari progetti italiani ed europei. Anche il Servizio glaciologico lombardo lo ha inserito tra i suoi ghiacciai-laboratorio.
Dall’albergo imbocchiamo una mulattiera. La salita non è più quella «partita di piacere» descritta da Stoppani: dai suoi tempi, la fronte è retrocessa di almeno 2 chilometri e di circa 300 metri di dislivello. Il sentiero si inerpica con una serie di curve a gomito che, superata una gobba, portano al rifugio Branca, costruito all’altezza dell’attuale base del ghiacciaio. Salendo ancora raggiungiamo un belvedere. È una loggia naturale, che fa spaziare la vista lungo tutto l’arco montuoso. Sono le otto di mattina. Il sole ancora basso tinge il panorama di una luce tiepida, rosata, che si riflette sulle vette di fronte a noi. Si vedono distintamente le diverse cime del complesso, con le lingue glaciali che si allungano verso valle. È un manto bianco che domina la visuale e scarica ettolitri d’acqua in un torrente che corre spedito. In questo punto c’è una stazione di rilevamento fotografico del Servizio glaciologico. Da qui, cioè, si scattano le foto per studiare l’evoluzione della massa glaciale.
Parte l’esercitazione. Ci vengono fornite immagini degli anni passati e una scheda su cui segnare mutamenti di struttura, differenze di sviluppo, formazione di nuovi crepacci. La neve fresca caduta solo qualche giorno prima complica le cose, perché non permette di distinguere chiaramente il limite del ghiacciaio. Così, l’esercizio somiglia all’“aguzzate la vista” della «Settimana Enigmistica». Imbacuccati con sciarpe e cappelli, ci armiamo di binocoli. Osserviamo i dettagli in lontananza. Studiamo le foto dell’anno precedente. Inforchiamo nuovamente i binocoli.
Io mi perdo nella distesa bianca cercando i più minuscoli particolari. Guardo i crepacci frastagliati. Le morene che si allungano sui lati. I seracchi, pinnacoli formati dall’apertura di crepacci, sospesi in equilibrio precario in varie zone. Mi concentro su alcuni punti, che il binocolo mi offre in modo limpido, ma che ho difficoltà a individuare e localizzare sulla foto che mi è stata data. Vago con la vista alla rinfusa lungo il corpo glaciale, distraendomi dall’esercitazione. Penso al ghiacciaio che ho di fronte come a un organismo vivente, immobile e straziato. Guardo le sue varie parti: il nevaio mi sembra una bocca secca e assetata, il ventre un groviglio di crepacci che somigliano a tante cicatrici, la morena gonfia di residui indica un’attività di scarico molto pronunciata. Scruto le paline colorate lasciate dalle varie missioni di rilevamento. Paiono tanti stecchini conficcati in un corpo sofferente. Immagino il ghiacciaio come una specie di Gulliver tormentato da coorti di lillipuziani, che poi saremmo noi rilevatori quassù, armati di binocolo, o gli operatori dei vari servizi glaciologici e centri di ricerca che studiano i bilanci di massa. Mentre faccio questi pensieri sconclusionati, una ragazza indica un punto in lontananza ed esclama: «Guardate». Ha notato qualcosa: sulla lingua di sinistra, una parte del ghiacciaio è collassata su se stessa. La fusione e la gravità hanno portato al crollo di una parte della massa, fenomeno che ormai avviene con una certa frequenza. Il confronto con le foto passate mostra distintamente che si tratta di una novità di quest’anno. Il dato viene registrato sulle schede, poi sarà inserito nell’app. Una nuova istantanea di estinzione si aggiunge alla collezione raccolta dal Servizio glaciologico lombardo.
L’ascesa alla fronte del ghiacciaio
Tutti i partecipanti si separano quindi in gruppi più piccoli, ognuno dei quali effettuerà rilievi su uno dei ghiacciai-laboratorio della zona. Io seguo il segretario dell’associazione, Luca Farinella, un ingegnere ambientale quarantenne con cui sono venuto in macchina da Milano. Lui stesso mi ha consigliato di unirmi al suo gruppo in «un’ascesa che sarà indimenticabile». Siamo una decina. Cominciamo a salire in silenzio. Il nostro obiettivo è il Palon de la Mare, una cima a 3700 metri di altezza. Seguiamo un cammino di cresta sulla destra orografica del ghiacciaio dei Forni. È il «sentiero glaciologico alto», che ci permetterà di osservare in quota il gigante da una prospettiva più ravvicinata. Avendo in affidamento il ghiacciaio del Palon de la Mare, Luca fa questo tragitto da quindici anni. Lo conosce a memoria e ne ha registrato le successive e continue modifiche che ci racconta nel dettaglio. Il sentiero si allunga ai bordi di uno strapiombo che affaccia proprio sulla morena dei Forni. Da questo punto, il complesso glaciale ci si offre in tutta la sua estensione. Si vedono distese di rocce moreniche che tagliano perpendicolarmente la massa bianca dividendola in tre tronconi. «Una volta quei tre ghiacciai separati erano un tutt’uno. Quei sassi sono affiorati negli ultimi anni.» La vista è spettacolare, la giornata incredibilmente tersa. In basso altri gruppi stanno esaminando la fronte del ghiacciaio. Più in lontananza, una cordata di alpinisti sta salendo in mezzo al corpo glaciale. Luca continua a descrivermi in vari punti l’involuzione dei Forni, l’avanzata delle morene e il ritiro dei ghiacci, che poi mi mostrerà in una serie di fotografie scattate nel corso degli anni. Ogni seracco ha una storia, ogni lingua glaciale è una testimonianza, ogni morena il segnale di una retrocessione.
Il percorso devia poi bruscamente a sinistra, lasciandosi alle spalle il grande ghiacciaio. La vegetazione è scomparsa. Siamo ormai a 3000 metri. Avanziamo a zig-zag lungo un sentiero stretto e sassoso, mentre il sole picchia sulle nostre teste. Sento la fatica avvinghiarmi le gambe. Il fiato che si fa corto. Le pulsazioni sulle tempie che aumentano di intensità. Moltiplico le pause tecniche, insieme ad altri partecipanti. Il gruppo è diviso in due: i più allenati sono già lontani, gli altri arrancano. Io arranco. Guardo un ragazzo accanto a me visibilmente provato. Si ferma e mi dice che non è mai andato sopra i 2000 metri in vita sua. È bianco come un cencio. Riprendiamo insieme a marciare a passi lentissimi. La salita diventa molto ripida. Sembra infinita. Mi faccio forza e conto i passi per non pensare alla spossatezza, al caldo, alla sofferenza. Cerco di apprezzare la bellezza del paesaggio: visto dall’alto il ghiacciaio dei Forni, per quanto ritirato, ha una sua perdurante maestosità. Inspiro e continuo a camminare. Dopo un’ultima interminabile curva, e dopo quattro ore di salita, vediamo miracolosamente comparire di fronte a noi la nostra meta.
Sono le due di pomeriggio. Nonostante l’altitudine, fa caldo. Luca tira fuori bussola e bandella. Ci mostra su un masso un triangolo segnato con la vernice rossa: è la stazione di rilevamento. Facendo corrispondere la punta del triangolo all’azimut indicato dalla bussola, useremo la bandella per misurare la distanza tra questo punto e la fronte del ghiacciaio. Procediamo con la misura. Srotoliamo la fettuccia. Le nevicate precoci degli ultimi giorni hanno coperto la fronte rendendo il compito più gravoso: per trovarla, scaviamo con i guanti nella neve fresca. Una volta identificato il punto preciso, calcoliamo la distanza dal triangolo rosso. La bandella segna 154 metri. Luca guarda la scheda e dice: «Rispetto all’anno scorso, è arretrato di 9 metri». Io lo guardo angosciato, ma lui appare rilassato. Non so se sia l’abitudine o la stanchezza, o la responsabilità di dover guidare un gruppo eterogeneo, in cui non tutti sono esperti di montagna, ma è disteso, quasi contento della misura. Il suo ghiacciaio si mantiene. Arretra, ma non si arrende. L’anno prima si era ritirato di 20 metri. Scotti ce lo aveva detto: tutti i ghiacciai lombardi sono in retrocessione. «Nel 2018, il 34 per cento ha subito un decremento forte, il 37 per cento uno moderato, il 29 per cento uno lieve. Nessun ghiacciaio è stazionario né in incremento.» Da questo punto di vista c’è da essere soddisfatti: il Palon de la Mare è in decremento moderato.
Andiamo a fare un secondo rilievo in un’altra zona del ghiacciaio, alla cui base c’è un lago di fusione, immobile e bellissimo. Mi allontano una trentina di metri dal gruppo e mi perdo nel silenzio della montagna. Esausto, mi addormento disteso sulla riva del lago. Sono in maglietta. Quando mi sveglio, quindici minuti dopo, ho caldo. A 3300 metri, ci saranno 25 gradi. Misuro il riscaldamento globale sulla mia pelle, oltre che su queste distese bianche che si ritirano, 20 metri l’anno scorso, 9 quest’anno, domani chissà, finché rimarrà solo un triangolo rosso su una roccia in una distesa brulla, a raccontarci la storia di un paesaggio che non c’è più, la cui bellezza ho avuto modo di apprezzare in extremis in un giorno caldissimo di fine estate.