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Il vino in pericolo

Se le api muoiono e i nuovi insetti alieni proliferano nei campi, gli effetti del cambiamento del clima si misurano anche sul ritmo biologico delle piante, che escono dal periodo vegetativo in anticipo, sono più esposte a gelate improvvise e patiscono uno scombussolamento generale dei loro normali cicli naturali. Un esempio principe è la vite, che vede l’uva maturare prima del tempo e non sempre in quelle condizioni di equilibrio che per millenni hanno consentito la produzione del vino.

A parlarmi di questo problema non è un viticoltore qualsiasi, ma uno dei più noti e acclamati produttori d’Italia, il cui marchio gira per il mondo ottenendo premi e riconoscimenti. Francesco Paolo Valentini è un uomo normalmente schivo, che non ama le luci della ribalta. Vive lontano dai grandi assi nazionali a Loreto Aprutino, un borgo acciambellato tra i monti abruzzesi a metà strada tra il Gran Sasso e la Maiella. In queste terre è nato e cresciuto, spostandosi poco, studiando molto e dedicandosi anima e corpo a una passione ereditata dal padre Edoardo: quella di produrre vini d’eccellenza, che non siano solo legati al territorio ma anche e soprattutto privi di contaminazioni, senza sostanze esterne né lieviti aggiunti. Vini che si «costruiscono più in vigna che in cantina», come mi dice lui con la modestia dell’artigiano che non usa pavoneggiarsi lasciando parlare per sé le sue creazioni.

La villa in cui vive, in una strada stretta nel cuore del centro storico, è nascosta, quasi ritratta. Sul grande portone non c’è un segno a indicare chi ci abita: solo un pulsante anonimo, che fa risuonare una piccola campana. Superata l’esteriorità priva di fronzoli, ci si ritrova in un androne inondato di luce e ricoperto da una ghirlanda di edere che si arrampica lungo i muri fino al soffitto. Un breve corridoio conduce a un terrazzo da cui la vista si perde su colline ricolme di ulivi. Subito accanto c’è lo studio, dove trascorreremo gran parte della giornata: sommerso di libri, è avvolto da quell’odore familiare e antiquato delle biblioteche di una volta, un miscuglio indistinto di carta e legno pregiato.

Francesco Paolo Valentini è come la sua casa: austero in apparenza, riservato di primo acchito, fa progressivamente cadere le barriere stabilendo una comunanza che diventa complicità, in cui l’iniziale distanza lascia libero spazio a riflessioni sull’ambiente e sulla vita, espressioni affascinanti di un pensiero articolato che unisce l’erudizione libresca all’osservazione partecipata della natura.

Colto e curioso, sembra un esemplare moderno di nobile abruzzese, quale in effetti è: la sua famiglia gestisce la tenuta fin dal Seicento, quando qui regnava il papa, i terreni si sfruttavano a mezzadria e i padroni vivevano nelle città sulla costa. Così è stato finché il padre Edoardo ha deciso di sfruttare direttamente la terra dando un’identità a quel vino e a quell’olio che qui si producono da tempi immemorabili. Fu dileggiato da amici e familiari, che mal lo vedevano nei panni allora impopolari del «contadino». Ma fu un vero precursore: perché è da lui che è nato il marchio Valentini, che oggi Francesco ha preso in mano e ulteriormente raffinato con le sue preziose conoscenze agronomiche, e che tramanderà al figlio ventiseienne Gabriele, già saldamente coinvolto nella gestione dell’azienda.

Nonostante l’indubbio successo delle sue produzioni, Francesco non ostenta un briciolo di vanità. Ha un modo di porsi modesto, quasi dimesso, che pare l’espressione esacerbata di quel carattere abruzzese di cui parlava Ignazio Silone: l’umiltà del fare senza mai dare nulla per scontato, la dedizione per il lavoro e una spigolosità un po’ dolente che deriva dal vivere in un ambiente «quanto mai aspro, tra i più tormentati dal clima, dalle alluvioni, dai terremoti».32

Insieme a lui c’è la moglie Elena, spagnola di Galizia trapiantata in Venezuela e finita qui sulle orme di un padrino abruzzese che a Caracas tutti i giorni le parlava delle bellezze del luogo e del suo struggente desiderio di tornare. Ha introiettato a tal punto questi racconti che è venuta lei per prima, scegliendo di fare l’università in Italia, e non in una grande città del Nord o nella bella e indolente capitale, ma proprio in Abruzzo, che è diventato poi sua terra di vita e d’adozione.

Solare e aperta, Elena è con ogni evidenza lo sguardo di Francesco sul mondo. Quanto lui è aggrappato come una quercia secolare a questo territorio, tanto lei ha radici più composite e vaste, frutto di un’esistenza condotta tra due continenti e di un rapporto con questi luoghi filtrato, meno sanguigno, approdo scelto di una vita in movimento e non culla delle proprie origini fiere e tribolate.

Mentre trascorriamo ore nello studiolo, lei ascolta e interviene solo per puntualizzare e innervare il racconto del marito di note e dettagli positivi, controbilanciare quel carattere scettico e per sua natura pessimista, quell’attitudine che, specifica lei, lo porta a «vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto».

Francesco in realtà semplicemente non conosce le mezze misure. Al suo vino si dà in modo totale, con una diligenza che sembra a tratti sfociare nell’ossessione. Anche quando dorme non pensa ad altro, mi confessa Elena, raccontandomi come sovente possa capitare che il marito si alzi nel cuore della notte per andare a sperimentare in cantina un’idea che gli si è affacciata improvvisa nel sonno. Questo misto di inquietudine e sregolatezza è elemento fondante della famiglia Valentini: il bisnonno, che si chiamava Edoardo come il padre, era un musicista di fama, amico personale di Puccini, giovanissimo direttore d’orchestra nei principali teatri italiani, dalla Fenice di Venezia al San Carlo di Napoli, nonché primo compositore a suonare Wagner in Italia. A trentasette anni, all’apice di una carriera folgorante, decise di abbandonare tutto e ritirarsi qui a Loreto a non far nulla. Salvo introdursi ogni tanto di soppiatto nelle case signorili del paese, sedersi al pianoforte e diffondere nell’aria la sua musica celestiale. Il nonno di Francesco, Camillo, era un avvocato penalista di Pescara ma anche un «cacciatore ecologista», come ama definirsi in un suo saggio sull’Homo venaticus, che il nipote ha fatto ristampare. In questo libro eruditissimo, tesse l’elogio della caccia come attività primigenia di ritorno alla natura, ormai dimenticata dall’«uomo dell’era atomica, che ha sostituito l’odore della benzina a quello del fieno».33

È nel solco di questa tradizione di famiglia che si muove Francesco Paolo, introverso ed estroso, sperimentatore mai contento, enologo di prestigio ma oggi anche militante ambientalista. Se l’ho cercato e sono venuto a trovarlo è perché ho letto alcuni suoi interventi su giornali locali in cui parlava di ripercussioni del clima mutevole sui vigneti, con toni allarmati e quasi apocalittici, che normalmente nessuno usa in pubblico, anche per il comprensibile timore di compromettere il buon nome di un prodotto simbolo dell’eccellenza italiana. Lui è uscito invece allo scoperto, con parole dure per tutto il settore, che mi ripete pari pari senza perifrasi: «Bisogna farla finita con questa retorica per cui ogni annata è la migliore di sempre. È ora di dire la verità: le nostre vigne fanno fatica, subiscono gli effetti del riscaldamento globale». Lui, che non manipola in cantina, non usa lieviti selezionati, non aggiunge altre sostanze, è maggiormente esposto. Ma è anche più consapevole, «perché a lungo andare anche chi usa procedimenti più industriali avrà difficoltà».

Mantenendo un bagliore ombroso nel fondo dei vivaci occhi azzurri, mi parla del suo rapporto con la natura e con le viti, delle annate varie e tutte diverse, del suo modo di lavorazione. Si definisce un «cuoco del vino», considerando la sua attenzione quasi maniacale per la materia prima. Se questa non è all’altezza, semplicemente non produce. «Ogni tanto salto un’annata. Il vino si fa con l’uva, non con l’aggiunta di sostanze chimiche.»

E le annate le salta sempre più spesso. Dal suo osservatorio quotidiano e preciso, Valentini si sta accorgendo da un po’ di tempo che le cose non vanno più come prima. Lo ha visto in campagna, notando che i frutti maturavano troppo presto e che al grado zuccherino non corrispondeva un adeguato grado di maturazione fenolica. E lo ha visto nelle carte che religiosamente sono state conservate negli archivi di famiglia. Una collezione di fogli di campagna dalla metà del Seicento in poi, che rappresentano anche una serie storica inestimabile sull’andamento del clima. Con l’ausilio dell’Università di Pescara, Valentini le ha analizzate e ha avuto la conferma che cercava: le raccolte sono sempre più anticipate.34 «Ho studiato le vendemmie di Montepulciano e Trebbiano d’Abruzzo dal 1817. Fino agli inizi degli anni Ottanta si è vendemmiato nella prima metà di ottobre. Dagli anni Novanta si è anticipato via via di un mese perché fa più caldo» mi dice mostrandomi un grafico in cui una linea verticale indica una tendenza che negli ultimi anni si è fatta inarrestabile.

Il grafico mi ricorda quello che mi ha illustrato Michele Brunetti del Cnr di Bologna sulle temperature medie, in costante aumento a partire dagli anni Ottanta. Messi a confronto, i due schemi appaiono opposti e complementari. E lo sono: se la temperatura aumenta, la vite matura prima, ma non sempre è adatta alla produzione del vino. Valentini mi spiega meglio il concetto, usando i termini più appropriati per renderlo chiaro a un profano: «Il caldo forte giorno e notte anticipa in maniera anomala la maturazione zuccherina e blocca la maturazione fenolica, ossia lo sviluppo di aromi, profumi, colori. I vinaccioli nel chicco restano verdi e non lignificano, e la stessa polpa rimane acerba».

Francesco oggi è corso ai ripari utilizzando una squadra di assaggiatrici, coordinate dalla moglie Elena, che durante la raccolta in vigna devono determinare se i singoli grappoli hanno il giusto grado di maturazione, il livello zuccherino adeguato, la consistenza opportuna per essere destinati a un vino d’eccellenza. Ma in generale, vedendo questi mutamenti, si è inquietato. Mi racconta come all’inizio le sue ansie fossero di natura economica. Ha cominciato a temere per la solidità della sua azienda, perché, pur se sembra banale dirlo, è difficile fare il vino senza l’uva. È anche per questo che ha deciso di diversificare e puntare sull’olio. Da qualche anno ha fondato insieme all’amico e socio Alberto Cerretani un megafrantoio vicino a Loreto, «che peraltro, anche se nessuno lo sa, è il comune con la maggiore concentrazione di ulivi di tutta Italia». Sul futuro del vino mostra più di un dubbio: «Se continua così, il Prosecco tra qualche anno si farà a Oslo. E noi coltiveremo ananas e banane». L’affermazione è forte, ma certo non peregrina. Se viene da uno dei più rinomati produttori di vino italiani, non va ignorata.

Al di là delle ragioni economiche, Valentini sembra mosso da un vero e proprio imperativo morale: «Abbiamo l’obbligo di dire le cose come stanno. Non farlo sarebbe da irresponsabili». La molla gli è scattata in seguito all’incontro con Shokaku Hirano Yoshiaki, un maestro zen che viene a trovarlo ogni volta che passa in Italia e con cui ha intessuto un fitto rapporto epistolare. Francesco mi mostra una lettera in giapponese e le relative traduzioni. Nello scambio, racconta quello che sta accadendo intorno a lui: i problemi che riscontra nelle vigne. Gli orsi marsicani che escono dal letargo con due mesi di anticipo. Le api che scompaiono. Gli ulivi che rifioriscono quando è appena iniziata l’allegagione, cioè la produzione di frutta. «È come se una donna incinta fosse già pronta per un’altra gravidanza.» Il maestro gli risponde con la saggezza puntuta di un motto giapponese: «Avere un problema e fare di questo un vantaggio». Ed è ispirandosi a questo detto che Francesco ha deciso di intervenire, dire pubblicamente quello che pensa, abbandonare la consueta ritrosia: «Shokaku mi ha aperto gli occhi e fatto capire che noi abbiamo un ruolo importante, quello di dichiarare ad alta voce ciò che sta succedendo. Perché, al di là del mio lavoro, in queste trasformazioni vedo un segnale preoccupante per quello che può accadere in futuro al nostro pianeta». Ha quindi cominciato un’opera di sensibilizzazione attraverso frequenti interventi pubblici, lanciandosi in quella che somiglia sempre più a una missione, anche se si schermisce quando glielo faccio notare. «Direi che è più che altro un atto di onestà nei confronti di noi stessi e dei nostri figli.»

Valentini è un panteista laico, che crede in una sorta di equilibrio superiore della natura, armoniosa e perfetta. È sinceramente preoccupato per quello che vede e, soprattutto, per l’indifferenza con cui noi esseri umani stiamo accogliendo questi segnali: «Ciò che mi lascia più perplesso è il comportamento generale rispetto a queste manifestazioni, viste con fatalismo, superficialità, disinteresse o semplicemente come curiosità o bizzarrie della natura». Nella sua visione, l’essere umano è l’elemento estraneo, l’anomalia in questo sistema bello e assoluto, che lui ritrova passeggiando per le vigne, osservando il comportamento del mosto che fermenta, dei lieviti naturali che agiscono in modo spontaneo in cantina. Con ogni evidenza, appare più a suo agio ad ascoltare lo svolgersi dei cicli naturali che a confrontarsi con i propri simili. Ha tuttavia deciso che oggi è necessario fare anche questo. Perché il genere umano non è solo spettatore inconsapevole, ma anche responsabile di quanto sta accadendo. Francesco si scaglia contro un modello di consumo in cui «mangiamo d’inverno fragole e pomodori che vengono dall’altra parte del mondo, teniamo accesi condizionatori ed elettrodomestici anche quando non ce n’è bisogno, pigiamo forte il piede sull’acceleratore». Dal suo osservatorio di «vignaiolo e cantiniere», come si definisce con umiltà, invoca un cambio di passo, un ripensamento, un risveglio delle coscienze per salvarci e consegnare alle generazioni che verranno un pianeta ancora abitabile.

Dopo la lunga giornata passata insieme, Francesco Paolo acconsente infine a una mia richiesta. Mi porta nell’androne inghirlandato di edere, apre una porticina e mi conduce lungo una ripida scalinata in un ambiente a temperatura controllata. Scendo in religioso silenzio, lusingato dal privilegio di essere introdotto in quello che è il suo regno più intimo: la cantina. Nella stanza semibuia, posta proprio sotto il palazzo, troneggiano diverse botti di legno. Sulla fronte di ognuna è incisa la data di fabbricazione. Alcune sono antichissime. Risalgono alla fine del Settecento, quando «da queste parti scorrazzava Napoleone Bonaparte». Valentini me le mostra, mi accompagna nel mio girovagare tra questi reperti ancora perfettamente funzionanti e da lui utilizzati con rispetto e amore. In un altro ambiente, colonne di bottiglie sono lasciate a invecchiare «tra i quattro e i sette anni», in attesa che siano pronte per la commercializzazione. Sono le sue mitiche produzioni: il Trebbiano, il Montepulciano, il rosato Cerasuolo.

La visita è rapida ma istruttiva. Soprattutto è un attestato di stima: quel luogo è la sua alcova. Raramente lo mostra agli estranei, e se me lo fa vedere vuol dire che gli sono andato a genio. O che forse ha deciso che la sua opera di sensibilizzazione deve essere portata avanti con ogni mezzo.

Nelle Langhe, la rivoluzione del filo di paglia

Molto più a nord dell’Abruzzo, proseguo la mia ricognizione nel rapporto tra clima e viticoltura in un’area in cui il vino è dogma e passione: le Langhe piemontesi. Questa zona già misera e sgangherata, affetta da quella «malora» descritta magistralmente da Beppe Fenoglio, è oggi un paradiso enogastronomico, patrimonio mondiale dell’Unesco nonché centro nevralgico di una riflessione ampia e proficua su un’agricoltura di qualità, capace di coniugare sviluppo e cura del territorio. Da questi luoghi in apparenza periferici sono partite grandi rivoluzioni e straordinarie saghe nazionali: in primis quella della Ferrero, che da piccolo laboratorio familiare di creme spalmabili ha conquistato il mondo intero. Poi quella di Slow Food, che si è irradiata in mezzo pianeta, mantenendo il quartier generale a Bra e fondando un’università di Scienze gastronomiche nel borgo antico di Pollenzo. Infine quei vini tanto rinomati: il Barolo, il Barbera, il Barbaresco. Tutte queste esperienze portano un tratto comune. Esiste infatti un filo rosso tra la Nutella inventata da Michele Ferrero, il movimento culturale di recupero delle tradizioni del cibo fondato da Carlin Petrini (che spero mi perdonerà il blasfemo accostamento) e le produzioni vinicole che hanno reso grandi queste colline: il legame con il territorio, un’attenzione quasi maniacale per la qualità e la capacità di inventare, rinnovarsi, interpretare lo spirito dei tempi.

La strada che conduce a Barolo è una teoria di vigne terrazzate a perdita d’occhio, inondate di luce e di colori. È metà settembre: tempo di vendemmia. Chiara Boschis mi accoglie tra i suoi filari declinanti con gli indumenti da lavoro: una tuta da operaia, guanti di gomma e forbici per tagliare i grappoli a uno a uno. Ha un sorriso smagliante e la forza d’animo di una donna che è stata capace di farsi strada in un mondo prevalentemente maschile. Esclusa all’inizio dalla gestione dell’azienda di famiglia, ne ha fondata una tutta sua, in cui ha coinvolto in un secondo momento anche il fratello. Nel corso del tempo, è diventata una delle produttrici più affermate della zona, con vini che ottengono sistematicamente stelle e premi dalle riviste specializzate. Oggi fa parte di un movimento che cerca di portare avanti una produzione più naturale, meno dannosa per l’ambiente, con un uso limitato di sostanze chimiche. «La sfida del cambiamento climatico ci impone di fare un’agricoltura più resiliente» mi dice mentre saltella tra le viti, soppesa i grappoli, osserva il grado di maturazione dei singoli acini.

Chiara non è nuova alle rivoluzioni. Già negli anni Novanta ha fatto parte, giovanissima e unica donna del gruppo, del movimento dei Barolo Boys, che ha deciso di modificare in modo sostanziale la produzione del celebre vino: con vigne più diradate per ottenere meno uva ma di migliore qualità e, soprattutto, con l’uso in cantina della barrique, la botte francese da 225 litri al posto di quelle grandi da 1200 o 2500 litri. I vini dei giovani produttori, più fruttati e morbidi, ottennero un incredibile successo negli Stati Uniti, facendo schizzare alle stelle le quotazioni del Barolo. Qui nelle Langhe ci furono scontri cruenti fra tradizionalisti e modernisti, che portarono a drammi familiari, con figli che venivano diseredati dai padri e cantine sfasciate a colpi di motosega, segno che da queste parti il rapporto con la produzione è affare di sangue e di lealtà.35 Oggi il Barolo si è affermato definitivamente come prodotto di alta qualità e gli irruenti Boys degli anni Novanta sono in parte tornati sui propri passi, riducendo l’uso della barrique e ristabilendo alcuni elementi della tradizione, dopo la fiammata rivoluzionaria che ha probabilmente contribuito a dare ulteriore lustro al loro vino.

La grande sfida di questi anni è invece per un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente. Ed è una sfida che Chiara ha raccolto in toto. I suoi vigneti non sono i tipici appezzamenti a monocoltura ultrapuliti, in cui non si vede un filo d’erba fuori posto: lei non diserba e anzi semina tra i filari un misto di cereali e leguminose, che messo a sovescio (cioè tagliato e interrato) serve a rafforzare e rendere più fertile il terreno. La lotta ai parassiti viene compiuta non con agenti chimici, ma con strumenti naturali: le casupole di legno di varie dimensioni che si vedono ai lati delle vigne sono nidi per uccelli, chiamati a contrastare la diffusione di insetti. Ci sono ripari per upupe, passeri, falchi e pipistrelli. Questi ultimi in particolare svolgono un ruolo straordinario, con un’efficacia e una potenza di fuoco maggiori di qualsiasi fitofarmaco: «Sono creature eccezionali che riescono ogni notte a mangiare una quantità di parassiti pari al peso del loro corpo». Alla fine della stagione i nidi vengono ripuliti per permettere a nuovi abitanti di stabilirsi l’anno successivo. «Grazie a questi accorgimenti ottengo piante più forti, più resistenti, più equilibrate» sottolinea Boschis.

Questo tipo di produzione ecosostenibile è ispirato all’opera del microbiologo e botanico giapponese Masanobu Fukuoka, autore di un manuale sull’agricoltura naturale dal titolo suggestivo, La rivoluzione del filo di paglia. A parlarmi di Fukuoka e del suo libro è Giuseppe Vivalda, il tecnico agricolo della Coldiretti che si è inventato il progetto di cui Chiara è una delle esponenti di punta e con il quale sono venuto quassù in macchina da Alba. Con un approccio che considera la terra una ricchezza da rigenerare e non una risorsa da consumare, Fukuoka ha ideato un metodo agricolo basato sul «non fare», che garantisce rese abbondanti limitando gli interventi in campo e l’uso di concimi e pesticidi. Vivalda ha studiato i suoi scritti, li ha adattati al contesto locale e ha proposto un protocollo ai membri della sua associazione agricola. Così, dopo aver ispirato l’azione di Francesco Paolo Valentini, un certo tipo di pensiero zen sembra essersi irradiato anche tra le colline delle Langhe.

Mentre ci muoviamo nella vigna di Chiara, prima dell’immancabile salto in cantina con tanto di assaggio di un Barolo strepitoso, il tecnico mi spiega i dettagli dell’operazione, cui hanno entusiasticamente preso parte più di cento produttori della zona. Tutto ruota intorno a un disciplinare, che prevede l’attivazione di una serie di pratiche agricole. Sono in parte quelle che sto vedendo con i miei occhi: l’eliminazione del diserbo chimico, la diffusione di insetti impollinatori, la semina di essenze erbacee e floreali, la collocazione di nidi di uccelli, la tutela della biodiversità. Vivalda mi descrive i criteri che si seguono. «Per ogni ettaro, ci sono otto nidi di passero, due di pipistrello, uno di upupa e uno di un rapace predatore.» La miscela di colture da lasciar sviluppare tra i filari e poi utilizzare a sovescio è anch’essa frutto di riflessioni agronomiche, con diverse proposte a seconda del tipo di terreno. Il succo finale di tutto il discorso è che, se non si vuole rischiare il collasso, bisogna tornare a pratiche più sostenibili. «Oggi dobbiamo per forza pensare a una produzione più rispettosa dell’ambiente, più adatta ai cambiamenti climatici ma anche capace di emettere meno emissioni» mi dice, sottolineando il duplice ruolo dell’agricoltura, vittima e insieme carnefice, colpita dagli effetti dei mutamenti climatici ma anche corresponsabile del surriscaldamento globale attraverso l’emissione di anidride carbonica e altri gas.

Chi aderisce al disciplinare ottiene un marchio, «The Green Experience», impresso sulle bottiglie e proposto così anche agli acquirenti. Si tratta di un’operazione d’avanguardia, che prova a interpretare la richiesta di maggiore sostenibilità e attenzione per l’ambiente proveniente dai consumatori, i quali stanno rispondendo positivamente. Poi, certo, la strategia sta funzionando perché è calibrata su produzioni dal forte valore aggiunto, vini costosi che puntano a fasce di pubblico più sensibili e con un potere d’acquisto più elevato.

È possibile ampliarla? È possibile applicare gli stessi metodi a prodotti di più largo consumo? Le fasce più povere della popolazione saranno disposte a spendere qualche soldo in più per una filiera più trasparente, più ecosostenibile, meno rovinosa per l’ambiente? Vivalda pensa di sì e con lui decine di agricoltori e tecnici che ho incontrato attraversando l’Italia, consapevoli che il vecchio modello basato sulla chimica, sul consumo dei terreni, sull’uso spropositato di risorse idriche non regge più. I sommovimenti del clima imporranno un mutamento sistemico: qui nelle Langhe già si è colta l’esigenza di un cambio di passo. In altre zone del Paese, il processo avanza più a rilento, ma sembra comunque ineludibile.

Una cosa però è certa: per avere risultati reali e duraturi, questo movimento non può basarsi soltanto sul volontarismo dei produttori più innovativi. Occorre che sia collettivo. Che coinvolga anche i responsabili politici, che dovranno accompagnare la transizione con sussidi mirati e precisi vincoli normativi, nonché tutti noi consumatori, sempre più chiamati a diventare attori attivi della filiera, pretendendo maggiore qualità ma anche riconoscendo il giusto valore a un cibo che sia prodotto nel rispetto della natura e del lavoro. L’alternativa è mantenere il paradigma attuale, che sta già mostrando i segni di una crisi il cui conto rischia di essere salato.

Se i terreni non varranno più niente

Che la situazione sia grave per la nostra agricoltura è indicato anche da uno studio recente dell’Agenzia europea per l’ambiente.36 La ricerca analizza il trend di temperature, piovosità ed eventi atmosferici in varie zone d’Europa e studia gli impatti attuali e quelli futuri sul settore agricolo. A leggerlo, emerge ancora una volta quello che mi hanno detto i vari studiosi che ho incontrato: il nostro Paese è particolarmente vulnerabile agli effetti dei cambiamenti climatici. Il rapporto sostiene che ci sarà un’incidenza sempre maggiore dei fenomeni estremi, un aumento di parassiti «che avranno più cicli riproduttivi a causa delle temperature più elevate». Ci saranno carenze idriche e problemi tra le piante e gli insetti impollinatori dovuti allo sfasamento delle stagioni. Tutte problematiche che in realtà io sto già vedendo declinate al presente, e di cui ho misurato gli effetti evidenti sui campi di mezza Italia.

Ma sono le proiezioni sul futuro a medio termine a essere particolarmente inquietanti: in una serie di mappe stilate in base ai modelli previsionali, si vede come il valore dei terreni e la produttività agricola siano destinati a precipitare. Il fenomeno colpisce tutto il continente, ma da noi è molto più marcato che altrove. Se l’innalzamento delle temperature potrà avvantaggiare alcune parti dell’Europa del Nord, che registreranno maggiori tassi di produttività, nell’Europa meridionale le rese di colture come grano, mais e barbabietola potranno diminuire fino al 50 per cento entro il 2050. Di conseguenza, il rapporto prevede che in Italia – anche in aree produttive importanti, come la Pianura Padana o le colline del Chianti – il valore dei terreni agricoli potrà diminuire dell’80 per cento entro il 2100. «L’Italia registra la maggior perdita di valore delle terre agricole, tra i 58 e i 120 miliardi di euro.»

Proseguendo nell’analisi dei singoli casi, lo studio propone un’istantanea terrificante che ci riguarda da vicino. «Due terzi delle perdite di valore nell’Unione Europea potrebbero essere concentrate in Italia, dove i redditi delle aziende agricole sono molto sensibili ai cambiamenti stagionali dei parametri climatici, soprattutto in scenari climatici più severi.» Il dato è mostruoso: due terzi delle perdite di valore concentrate nel nostro Paese, che rappresenta meno del 10 per cento della superficie agricola totale dell’Unione Europea. Vuol dire che da qui al 2100 il settore è destinato semplicemente al fallimento. La previsione di Francesco Paolo Valentini, che immagina produzioni di Prosecco delocalizzate a Oslo, non sembra più tanto una boutade. E un futuro di campagne abbandonate non è uno scenario da serie fantascientifica, ma una circostanza molto concreta.

Che reazione ha provocato questo rapporto, redatto da un’autorevole agenzia dell’Unione Europea? Ha forse suscitato un dibattito serio e approfondito, come richiederebbe la gravità della situazione? Ha scatenato una reazione compatta da parte del comparto agricolo, degli operatori del settore agroalimentare, della politica? Ha occupato per giorni le prime pagine dei giornali? Per nulla. Relegato a qualche trafiletto nei media più sensibili, è stato presto dimenticato.

Perché non se ne sta parlando? Perché questa indifferenza, che pare rasentare l’incoscienza? Forse perché sono solo numeri, e per di più proiettati su un futuro relativamente lontano, in cui gran parte di noi, della generazione che può prendere le decisioni, non sarà più su questa Terra? O forse perché gli studiosi non sono in grado di comunicare, come ipotizza il fisico Michele Brunetti del Cnr di Bologna?

In un libro uscito qualche anno fa, lo psicologo ed economista norvegese Per Espen Stoknes ha identificato una serie di barriere psicologiche che ci impediscono di prendere davvero sul serio la minaccia del cambiamento climatico.37 Tra queste, la distanza nel tempo e nello spazio (gli effetti del riscaldamento globale sono graduali e sembrano colpire di meno le popolazioni urbane), l’attitudine del cervello umano a sopperire a bisogni vicini più che a programmare azioni dalle conseguenze non misurabili nell’immediato, oltre alla pervicace resistenza a cambiare le abitudini individuali. Tutti noi sappiamo che alcuni nostri comportamenti, come il consumo di carne, l’utilizzo del trasporto privato, dei condizionatori e dell’aereo contribuiscono al surriscaldamento globale. Eppure continuiamo a portarli avanti, adducendo giustificazioni di vario genere: non sarà il nostro singolo atto a fare la differenza, i nostri vicini continuano a ignorare il problema, la Cina produce un numero enorme di emissioni, e così via. Si chiama «dissonanza cognitiva» ed è uno degli elementi fondanti della resistenza a una reale azione di mitigazione dei cambiamenti climatici.38

Ma il principale ostacolo anche alla semplice riflessione su questo tema è costituito da un processo di rimozione psicologica, che ci porta a ignorare e cancellare un problema che ci pare irrisolvibile. È lo stesso meccanismo mentale che mettiamo in atto quando ogni giorno sublimiamo il pensiero della morte, un pensiero così acuto e sovrastante che non ci consentirebbe di vivere serenamente. Per il cambiamento climatico attuiamo lo stesso procedimento: poiché ci viene presentato come qualcosa di drammatico e senza soluzioni, che pregiudicherà in modo irrimediabile il nostro stile di vita, preferiamo non pensarci, ricacciandolo in qualche remoto recesso del cervello.

Ed è per questo che Per Espen Stoknes esorta a cambiare narrativa e modo di pensare: invece di raccontare gli effetti del cambiamento climatico come un dramma senza rimedio, occorre concentrarsi sulle cose che si possono e si devono fare, per adattarsi alla nuova situazione e rallentarne gli effetti. Occorre pensare in modo positivo e cercare di creare una coscienza collettiva nell’azione, per far saltare il rimosso e affrontare la questione di petto.

È lo stesso rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente a indicarci questa strada. Lo studio sottolinea che le sue terribili previsioni sono «statiche» e possono essere «compensate da dinamiche socioeconomiche come cambi nell’efficienza produttiva in agricoltura e azioni di adattamento». Azioni come quelle che ha intrapreso Chiara Boschis nei suoi vigneti sulle Langhe. O come quelle che, in silenzio ma diffusamente, stanno attuando centinaia di operatori agricoli in tutta Italia. Da questo punto di vista, il nostro Paese è all’avanguardia: siamo primi in Europa come numero di imprese biologiche, abbiamo una delle agricolture che produce meno emissioni di gas a effetto serra. Dare un senso a questo lavoro sotterraneo, farlo emergere, sostenerlo e raccontarlo potrebbe essere un modo per cambiare la narrativa e abbattere le barriere messe in luce da Per Espen Stoknes. Invece di ripiegarsi in un atteggiamento fatalista e di aspettare inermi la tempesta in arrivo. Perché tra agire o soccombere, la prima scelta sembra decisamente la più ragionevole.