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La cimice asiatica e gli altri invasori
Non è solo la scomparsa delle api a mettere a rischio la biodiversità e, in prospettiva, anche il nostro approvvigionamento alimentare. L’arrivo nei nostri territori di nuovi parassiti sempre più aggressivi rappresenta un pericolo altrettanto e forse anche più immediato.
Sono a Saluzzo, provincia di Cuneo, una delle aree frutticole più produttive d’Italia. Il paesaggio è un susseguirsi ininterrotto di campi di mele, susine, pesche, pere, kiwi e albicocche. Quasi tutti i terreni sono sovrastati da reti: per far fronte ai sempre più frequenti eventi atmosferici estremi, i proprietari hanno installato protezioni antigrandine. Ma oggi il flagello è un altro. A decimare i frutteti è un insetto venuto da lontano: la cimice asiatica.
Entro in un campo. Gli alberi tutti uguali sono stretti gli uni accanto agli altri, in file tanto dritte che paiono disegnate con il righello. Passando con un trattore tra i filari, il proprietario lavora alla raccolta. Mette le mele in cassette, che impila sul retro della macchina in due colonne distinte: in una quelle adatte alla vendita, nell’altra quelle da scartare perché danneggiate. La prima è bassissima, quasi schiacciata dalla seconda: il rapporto è di uno a dieci. Il coltivatore, un uomo sulla sessantina con lo sguardo affranto, non ha voglia di parlare. Comunica a gesti: scuote la testa e indica le casse. Non c’è altro da aggiungere. Quest’anno il raccolto è tutto da buttare.
La situazione dell’uomo incupito sul trattore è la stessa che vivono centinaia di suoi colleghi in tutta la provincia. E non solo: la Halyomorpha halys, questo il nome scientifico dell’insetto orientale, ha colpito in Emilia-Romagna, in Veneto, in Lombardia, in Friuli-Venezia Giulia e in Trentino-Alto Adige. Tutto il settore agricolo del Nord Italia soffre dell’azione di quest’animaletto vorace e imbattibile, che si riproduce a velocità mostruosa e soprattutto nei nostri territori non ha alcun antagonista naturale. I danni sono colossali: solo in Piemonte si stimano 180 milioni di euro di mancati introiti per la stagione 2019-2020. Nella provincia di Ferrara, principale area di produzione delle pere italiane, si parla di 350 milioni di euro.
Mi allontano dal trattore. Con il permesso del proprietario giro per il frutteto. Le cimici svolazzano a centinaia tra le foglie. Su quasi tutti i frutti ce n’è una, a volte anche più d’una. Mi soffermo a osservarne un paio mentre mangiano: estraggono dalla bocca una specie di proboscide, bucano la scorza del frutto e succhiano il nettare. Una volta sazie, volano via. Il loro passaggio lascia un piccolo bozzo sulla superficie mentre all’interno la polpa assume un colore ocra, come di sughero. E la mela va scartata, non è più commercializzabile.
«Quest’insetto è particolarmente infido perché si muove tanto ed è polifago, mangia qualsiasi cosa. Il che rende più difficile la sua cattura» mi dice Lorenzo Martinengo, il tecnico agricolo della Coldiretti che accompagnandomi per la provincia mi mostra l’entità dell’ecatombe. Visitiamo insieme diversi frutteti, in cui invariabilmente constatiamo danni tra il 50 e il 90 per cento del raccolto. I coltivatori più intraprendenti hanno innalzato reti laterali per limitare l’ingresso delle cimici. Insieme alle protezioni antigrandine, gli alberi sono come in gabbia, avvolti in una duplice recinzione. «Questo riduce un po’ l’impatto, ma non lo annulla. Anche perché bisogna stare attenti a chiudere le reti al momento opportuno, senza bloccare dentro eventuali insetti e ottenere così l’effetto opposto.»
Lorenzo ha poco più di trent’anni. Dopo la laurea in Agraria ha cominciato a lavorare per la confederazione agricola. E, trovandosi sulla linea dell’emergenza, è diventato suo malgrado un esperto di questa nuova specie aliena. Oggi sa tutto su diffusione, comportamento e mezzi che possono essere adottati per contrastarla. «La cimice asiatica è stata avvistata la prima volta in Emilia-Romagna nel 2012. Qui in Piemonte è arrivata l’anno dopo. E da allora non ha fatto che aumentare la sua presenza.»
Insieme ai colleghi ha disposto sul territorio una serie di trappole per studiare gli areali di propagazione. Sono delle grandi piramidi all’interno delle quali ci sono dei feromoni di aggregazione, composti chimici che attraggono gli insetti e ne favoriscono la cattura. «Ma la loro efficacia è relativa. A noi servono soprattutto per capire i loro spostamenti.»
Una volta in strada, Lorenzo apre il portabagagli della macchina ed estrae una specie di cono di plastica. È la parte superiore della trappola, quella dove sono posizionati i feromoni e dove si concentrano gli animali catturati. «Non l’ho tirata fuori prima, per evitare reazioni scomposte da parte degli agricoltori» mi dice serissimo. «Se vedono altre cimici oltre a quelle che hanno nei campi, potrebbero alterarsi.» Il cono è stracolmo. Gli insetti si muovono in modo frenetico. Si accalcano sulle pareti, cercando una via di fuga che non riusciranno a trovare: la trappola è fatta in modo che, una volta entrato, non puoi più uscire. Il tecnico mi mostra le differenze tra gli esemplari maschili e quelli femminili, le diverse età di sviluppo, le caratteristiche salienti dell’animale, chiamato anche «cimice marmorata» per via della colorazione scura e striata del dorso. Sul retro si vede una specie di scudo di protezione. «È un insetto incredibilmente resistente, una vera e propria macchina da guerra.»
La specie aliena che osservo attraverso il cono di plastica è un altro effetto collaterale dei cambiamenti climatici. Come nel caso delle nuove creature del Mediterraneo di cui mi ha parlato Adriano Madonna, la proliferazione di questo insetto esotico è il risultato indotto di un mutamento delle caratteristiche climatiche dei nostri ecosistemi. Arrivato attraverso gli scambi commerciali con qualche nave container dall’Asia orientale, ha trovato da noi un habitat perfetto. «Gli inverni più miti degli ultimi anni gli consentono di sopravvivere e quindi di moltiplicare la propria presenza. Ogni femmina depone 28-30 uova anche dieci volte all’anno. Così, ha una crescita esponenziale, che gli ha permesso di colonizzare l’ambiente in pochissimo tempo.»
Con la sua forza distruttiva, la cimice asiatica sta polverizzando gran parte della produzione agricola del nostro Paese. Come mi ha detto Martinengo, è «polifaga», mangia di tutto. Non attacca solo le piante da frutto, ma anche colture cerealicole come il mais e legumi come la soia. In tutto il Nord Italia, dal cuneese al ferrarese passando per il Trentino e il Veneto, un unico grido di dolore si leva contro questo agente devastatore, apparentemente invincibile: non c’è prodotto chimico che lo debelli. Le reti hanno un’efficacia limitata. I feromoni per la confusione sessuale, che generano finte tracce e disorientano i maschi evitando la riproduzione, funzionano a singhiozzo. Perché la presenza del parassita è capillare, troppo massiccia e trasversale per ottenere risultati durevoli. Dalla Pianura Padana all’arco alpino è dappertutto. Nel Sud non è ancora diffuso in modo rilevante, ma è solo questione di tempo: arriverà anche lì e troverà condizioni anche migliori grazie alle temperature più alte.
L’unica soluzione per fronteggiare questo incubo venuto da fuori sembra essere l’importazione di un altro alieno. Dopo tentativi falliti con insetti autoctoni, i ricercatori hanno sentenziato che bisogna inserire nel nostro territorio il suo antagonista naturale, che da noi non è presente. Si chiama Trissolcus japonicus e, come indica il nome, viene anch’esso dall’Estremo Oriente. È un piccolo imenottero, che parassita le uova della cimice; depone cioè le sue uova all’interno di quelle dell’antagonista distruggendole. Nota come «vespa samurai», è la nuova ancora di salvezza a cui si aggrappa speranzoso tutto il settore agricolo. Per permetterne la diffusione, il governo ha decretato una deroga al rigido regolamento che vieta l’introduzione di specie aliene sul territorio nazionale. E vari enti di ricerca stanno studiando eventuali effetti indesiderati dell’arrivo di questo insetto, che è quasi invisibile a occhio nudo e in realtà non somiglia per nulla a una vespa. A breve dovrebbero partire i lanci in natura. Intanto, in attesa delle autorizzazioni, i primi esemplari sono comparsi in alcune zone d’Italia, forse per effetto di quegli stessi scambi commerciali che hanno portato la cimice o forse come risultato dell’intraprendenza di qualche agricoltore esasperato che ha voluto agire in modo autonomo.
Il nuovo arrivato produrrà altri danni, oltre ad aggredire il suo nemico designato? Esperti ed entomologi assicurano di no. Ma la lotta che si prefigura tra la cimice asiatica e la sua antagonista vespa samurai, che sembra uscita pari pari da un manga fantascientifico, è il segno della nostra epoca. Un’epoca in cui le merci si spostano, le malattie si diffondono, le specie aliene colonizzano nuovi territori.
Bloccare in partenza il propagarsi di questi parassiti è praticamente impossibile: bisognerebbe monitorare ogni singolo container, scandagliare i bagagli di tutti i passeggeri che arrivano in aereo. Controllare a uno a uno tutti gli autoveicoli che passano le frontiere terrestri. In Australia lo fanno: hanno schierato negli aeroporti dei cani addestrati a riconoscere la cimice all’olfatto. Ogni nave che attracca sull’isola viene esaminata con attenzione: dopo il ritrovamento di singoli esemplari, alcuni cargo sono stati rimandati indietro e riammessi solo dopo un passaggio di fumigazione. Da noi, ormai il danno è fatto. La cimice asiatica si è integrata. Ha trovato un habitat perfetto per la sua sopravvivenza e si è sentita a casa. «Probabilmente nel tempo si stabilirà un nuovo equilibrio. Spunterà qualche antagonista. Ma i tempi della natura non sono quelli dell’essere umano: non possiamo certo dire agli agricoltori di aspettare che l’ecosistema si rimetta in asse» osserva Martinengo.
La cimice è la specie più dannosa in questo momento, ma non è l’unica. È solo la punta più visibile di un iceberg di dimensioni enormi, e di un fenomeno con cui saremo chiamati sempre di più a fare i conti. Il tecnico mi cita gli altri parassiti alieni che hanno invaso il suo territorio: «C’è la Popillia japonica, o coleottero giapponese, che si nutre di vegetali e frutti scarnificando le piante e rovinando i prati. C’è la Drosophila suzukii, il moscerino della frutta originario del Sud-Est asiatico, che attacca ciliegie, mirtilli, lamponi, fragole e uva deponendo le uova nel frutto prossimo alla maturazione». Se scorriamo i principali agenti patogeni che hanno colpito le nostre colture negli ultimi anni, la gran parte viene da fuori: dal punteruolo rosso nordafricano, che ha divorato molte delle nostre palme, alla vespa velutina, o calabrone asiatico, che aggredisce le api in Francia ed è presente ormai anche in Liguria. La stessa Xylella fastidiosa, il batterio che ha decimato gli ulivi in Salento e sta risalendo tutta la Puglia, sarebbe stata trasportata secondo l’interpretazione dominante su piante ornamentali provenienti dal Costa Rica.
Ogni territorio oggi ha la sua croce, che cerca di affrontare come può. La cimice è diventata un’emergenza nazionale perché colpisce ovunque e senza distinzioni. Non dà scampo e si muove come un bulldozer travolgendo tutto quello che trova sulla sua strada. Oggi possiamo osservarla e cercare di contrastarla, mantenendo la consapevolezza che quella delle specie aliene è una delle molteplici sfide imposte dal clima che cambia. Perché ogni variazione di temperatura, ogni mutamento di ecosistema porta con sé conseguenze diverse, che non siamo in grado di prevedere finché non ce le troviamo di fronte.
Dal gambero killer al giacinto d’acqua, il database degli alieni
Uno dei maggiori esperti di specie aliene in Italia è Piero «Papik» Genovesi, noto zoologo nonché prolifico autore di testi scientifici, tanto da risultare il ricercatore più citato al mondo nelle pubblicazioni di scienze ambientali. All’Istituto superiore per la ricerca e la protezione ambientale (Ispra) di Roma, è il coordinatore di diversi gruppi di lavoro nazionali e internazionali per monitorare la presenza di questi nuovi organismi e immaginare soluzioni ogniqualvolta questi si trasformano in un problema. È quindi spesso invitato a convegni, per dare pareri e scambiare informazioni su quella che è diventata una vera e propria emergenza dei nostri tempi: l’incredibile proliferare di specie alloctone, che in vari casi possono diventare invasive e devastanti per gli ecosistemi in cui si diffondono o vengono introdotte.
Quando lo chiamo la prima volta al telefono, sta per entrare a un’audizione alla Commissione agricoltura della Camera dei deputati, dove terrà una relazione proprio sulla cimice asiatica. Pochi giorni dopo, nel suo ufficio di Roma, mi mostra il database delle varie specie aliene presenti nel mondo e in Italia. È una lunghissima lista che comprende organismi acquatici e terrestri, animali e vegetali. «Abbiamo calcolato che negli ultimi trent’anni nel mondo il numero di specie aliene è aumentato del 76 per cento e in Italia, nello stesso periodo, addirittura del 96 per cento.» Questa crescita vertiginosa è dovuta a due fenomeni: la globalizzazione, che ha incrementato a dismisura gli scambi commerciali, e quindi la possibilità che organismi alieni siano portati volontariamente o involontariamente sul territorio; e il cambiamento climatico, che ha creato habitat favorevoli a nuovi organismi, come la stessa cimice. «Le temperature sempre più alte rendono il nostro continente più adatto a moltissime specie tropicali, che fino a pochi decenni fa non avrebbero potuto insediarsi nei nostri climi» dice Genovesi. Per la sua particolare posizione in mezzo al mare e per l’aumento delle temperature più marcato, anche sulla questione delle specie aliene il nostro Paese si conferma un hotspot, un luogo dove l’espandersi di queste presenze non sempre benvenute è più vistoso che altrove.
La velocità e la consistenza dei numeri ci mette di fronte a un fenomeno del tutto inedito. Nel corso della storia, le specie animali e quelle vegetali hanno sempre viaggiato da un capo all’altro del pianeta, spesso trasportate da mercanti, soldati o esploratori. È il caso di diverse piante o animali che ormai fanno parte della nostra dieta o sono caratteristici dei nostri paesaggi. Come il riso, arrivato in Europa nel IV secolo a.C. in seguito alle campagne asiatiche di Alessandro Magno. O il pomodoro, importato dall’America da Hernán Cortés nel XVI secolo e promosso a re delle nostre tavole due secoli dopo. O ancora il fico d’India, che ai nostri occhi è parte integrante delle campagne del Sud Italia, ma che fu portato da Cristoforo Colombo di ritorno da quelle che lui pensava fossero le Indie. Passando agli animali, il tacchino ha fatto la sua comparsa in Europa nel Cinquecento, anch’esso a bordo delle prime navi dei conquistadores di ritorno dal Nuovo Mondo. Oggi tuttavia i viaggi si moltiplicano; gli spostamenti di merci e persone raggiungono livelli incredibili. Le modalità di trasporto sono enormi e non sempre controllabili. Ai mercanti di ieri corrispondono i turisti di oggi. Alle caravelle, le immense navi porta-container.
Così la varietà di specie invasive che minacciano i nostri ecosistemi è diventata tanto colossale quanto sconosciuta ai più. «Attualmente siamo molto concentrati sulla cimice, perché produce danni inestimabili. Ma in Italia sono presenti più di tremila specie aliene, di cui oltre il 15 per cento invasive, ovvero tali da causare impatti significativi.»
Lo studioso mi elenca le più rilevanti. Mi parla del giacinto d’acqua, una pianta idrofila che copre come un tappeto le superfici ostacolando la navigazione e limitando la penetrazione di luce e ossigeno negli strati più bassi, con impatti notevoli su flora e fauna. Importata come pianta ornamentale, è ormai presente come infestante in vari bacini di acqua dolce in tutta Italia. «È una delle specie più dannose e fino a poco tempo fa la si poteva comprare online.» Mi cita il gambero della Louisiana, detto anche «gambero killer» per la sua capacità di vivere sia in acqua sia sulla terra divorando tutto quello che incontra. Il suo arrivo è legato a un’avventura commerciale finita male: all’inizio degli anni Novanta una piccola società di Massarosa, in provincia di Lucca, ebbe l’idea di importarne alcuni esemplari per allevarli e rivenderli a scopo alimentare. I crostacei fuggirono, invasero il vicino lago di Massaciuccoli e cominciarono a infestare i giardini e le case dei paesi limitrofi, con scene di panico tra la popolazione e una vera e propria caccia al gambero da parte dei pescatori locali. Da allora si sono diffusi nelle acque interne di tutta Italia: esemplari sono stati trovati persino nel ragusano, anche se non è chiaro come abbiano fatto a spingersi fin lì. Genovesi passa poi alle nutrie: introdotte negli anni Venti del Novecento per produrre pellicce, sono state liberate in natura quando il settore è andato in crisi, non prendendo nella dovuta considerazione la loro incredibile capacità di adattamento. Oggi sono presenti in tutto il Centro e Nord Italia e costituiscono una vera e propria calamità per gli argini dei corsi d’acqua e per i campi agricoli. Il ricercatore mi mostra infine un video da YouTube: si vedono dei parrocchetti dal collare, i pappagallini verdi che da alcuni anni sono una presenza familiare per chiunque viva a Roma. Introdotti come animali da compagnia alla fine degli anni Novanta, sono stati liberati dai proprietari e hanno proliferato in modo incredibile. Al momento vivono nei parchi delle città, cibandosi di quello che trovano. Ma la situazione potrebbe rapidamente evolvere. Nel filmato che mi fa vedere Genovesi, assalgono campi agricoli mangiando tutto quello che incontrano. «È solo una questione di tempo. Prima o poi arriveranno in campagna e saranno un problema.»
L’Ispra ha lanciato un programma di sensibilizzazione, destinato alla popolazione e in particolare ai più giovani, per identificare e segnalare le specie aliene. L’Europa dal canto suo ha stilato un elenco che ne conta quarantanove invasive, per le quali sono vietati l’introduzione e il transito; il trasporto, la vendita, il commercio e l’utilizzo, ma anche lo scambio, la riproduzione e il rilascio nell’ambiente. Le iniziative si moltiplicano, perché la loro diffusione ha effetti sul settore agricolo ma anche su quello sanitario: la zanzara tigre, giunta in Italia nel 1990 dagli Stati Uniti con un carico di pneumatici usati e diventata ormai di casa, è stata il vettore della prima epidemia di febbre chikungunya in Europa, scoppiata nel 2007 in provincia di Ravenna. E potrebbe trasmettere altri virus non presenti sul nostro territorio.
«Ogni anno l’Europa spende tra i 12 e i 30 miliardi di euro per sradicare o fronteggiare le conseguenze delle specie invasive» dice Genovesi. Che sottolinea come sia importante mantenere alta l’attenzione, cercare di monitorare la situazione. E adottare strategie di contrasto. «Oggi possiamo prevedere meglio rispetto al passato quali specie potrebbero diventare invasive e bloccarne quindi l’importazione prima che arrivino nel nostro Paese» dice il ricercatore con un discorso che vale per tutti quegli animali e quelle piante che sono stati introdotti per scopi ornamentali o di compagnia, come il giacinto o i parrocchetti. Ma di fronte alla cimice poco sembra possibile, se non riprodurre in casa nostra il suo antagonista naturale. Creare in laboratorio la creatura che l’attacca, sperando che questa famosa vespa samurai si limiti ad aggredire le sue uova e non produca altri squilibri inattesi.
La app contro le specie aliene
Alla Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige, a poca distanza da Trento, si stanno attrezzando in diversi modi per affrontare il problema. Questo centro di ricerca è una vera e propria cittadella dell’agricoltura, che sorge là dove nel 1874 l’assemblea del Tirolo fondò nel territorio allora austroungarico un istituto agrario d’avanguardia, con lo scopo di promuovere e innovare l’agricoltura locale. Oggi continua quest’attività, con un campus fatto di aule, serre, laboratori, uffici e 120 ettari di area verde, che unisce la formazione all’innovazione, lo studio alla divulgazione. Le centinaia di ricercatori che qui lavorano hanno un rapporto stretto con la realtà produttiva del luogo e sono riusciti a stabilire una collaborazione abbastanza inedita in Italia tra ricerca e applicazione, laboratorio e terreno.
Tra le tematiche che vengono affrontate c’è anche quella delle specie aliene, e in particolare della cimice asiatica, che negli ultimi anni è stata avvistata anche qui. L’arrivo in provincia risale al 2016 e i ricercatori della Fondazione sono riusciti a ricostruire persino il tragitto dei primi insetti, giunti come autostoppisti a bordo di un camper acquistato di seconda mano in Veneto. Da allora le presenze si sono moltiplicate, anche se per il momento l’entità dei danni è decisamente inferiore a quella che si registra in altre regioni.
Data la rilevanza del settore melicolo da queste parti, dove ha sede il consorzio Melinda, ci si è attivati immediatamente per evitare il peggio. Per i tecnici e i ricercatori della Fondazione Mach, la lotta alla cimice è diventata una priorità. Hanno cominciato a occuparsene seguendo diverse strategie: hanno studiato la morfologia dell’animale, analizzato le forme di lotta biologica con le vespe samurai, verificato l’efficacia di mezzi di contenimento come le reti. E hanno sperimentato strumenti di citizen science: hanno cioè sviluppato un’app chiamata bugMap, che dal cellulare consente di inviare informazioni e foto relative alla presenza di quelle che sono considerate le due specie invasive più pericolose, la cimice asiatica e la zanzara tigre. «Abbiamo pensato di coinvolgere i cittadini per ottenere un monitoraggio costante ma anche per sensibilizzarli su questa tematica» mi spiegano mentre mi fanno vedere su un monitor il funzionamento dell’applicazione, il numero delle rilevazioni e la crescita a macchia d’olio dell’areale di diffusione della cimice. La gran parte delle segnalazioni avvengono in Trentino, dove il progetto è stato lanciato durante diversi incontri pubblici e dandogli grande rilevanza sui media. Ma anche nelle altre regioni si cominciano a ottenere risultati interessanti. Si vede come la cimice sia già arrivata al Sud, in particolare in Puglia, pur se non in modo così massiccio come nella Pianura Padana.
I ricercatori mi mostrano gli esemplari minuscoli di vespa samurai che stanno studiando. Mi indicano altri imenotteri che potrebbero svolgere la stessa funzione, anche se in modo meno efficace. Mi raccontano poi un altro possibile meccanismo di contrasto: creare insetti sterili, cioè rendere infertili gli individui maschi attraverso bombardamenti mirati di raggi gamma. Una radiazione che deve essere dosata opportunamente, mi spiegano, per non indebolirli troppo e renderli meno agili nella competizione con gli altri individui invalidando così tutta l’operazione.
Mentre osservo l’armamentario messo in atto dalla Fondazione per fronteggiare il flagello, dalle vespe samurai allo studio sui raggi gamma, dalla app sul cellulare alle varie altre tecniche di contenimento, rimango affascinato dalla capacità di reazione dell’istituzione, dall’integrazione virtuosa tra pubblico e privato nella provincia, dall’approccio proattivo con cui per una volta il problema viene preso di petto. Dall’altra parte, però, avverto una latente perplessità. L’ipertecnologia che viene dispiegata mi pare l’ultima difesa dell’essere umano contro un incubo che lui stesso ha generato. Tutte queste soluzioni, sia pur importanti e quanto mai necessarie, mi paiono eludere alcuni interrogativi di fondo: perché questi insetti alieni stanno aggredendo i nostri campi? Cosa ci sta raccontando questa invasione?
E allora mi domando: questi rimedi, che non affrontano le cause del problema, non saranno effimeri? Non saranno uno straccio con cui si asciuga il pavimento bagnato, senza riparare il rubinetto che perde? Non saranno insomma l’ennesima azione fatta in emergenza, che predilige la cura invece della prevenzione? Non intendo dire che si è agito tardi. L’arrivo delle specie aliene – e della cimice in particolare – ha un che di ineluttabile. Essendo difficile da controllare e da bloccare, sarebbe stato complicato giocare d’anticipo. Le misure attuate dalla Fondazione Mach e dagli altri enti impegnati su questo fronte, come l’Ispra o il Crea di Firenze che sta coordinando tutta la partita dell’immissione della vespa samurai, sono cruciali e devono essere messe in atto con la massima tempestività.
I miei dubbi sono di natura più profonda, quasi ontologica. Questa diffusione così massiccia di organismi invasivi mi pare il frutto avvelenato dei nostri tempi. Di un mondo globalizzato, freneticamente attraversato da scambi e commerci e convulsamente scosso dai cambiamenti climatici. Da questo punto di vista la comparsa delle cimici nei nostri campi, di questi invasori venuti dall’Asia in modo silenzioso che stanno spolpando le nostre produzioni (e i redditi dei nostri agricoltori), deve essere un monito per tutti noi. Deve essere interpretata come la rivolta radicale di un ecosistema troppo a lungo maltrattato, che oggi ha deciso di restituirci con gli interessi quanto gli abbiamo tolto. Estremizzo un po’, ma il senso è questo: la cimice e gli omologhi invasori ci stanno dicendo che il modello agricolo portato avanti fino adesso non è più valido; va ripensato il paradigma. Va rovesciato il modo in cui si produce, il quanto, il come e il perché. Va rimodulato lo stesso ruolo degli agricoltori, da intendersi non solo come produttori di cibo al minor costo possibile ma anche come custodi del territorio. Giacché in un certo senso tutto si tiene: le cimici arrivano perché fa più caldo e distruggono i campi perché questi sono meno resilienti, troppo sfruttati in modo intensivo e meno capaci di opporsi a questi attacchi.
In un’epoca in cui si susseguono ondate di calore prolungate, diminuisce la disponibilità d’acqua, aumentano gli eventi estremi e proliferano specie invasive, sarà sempre più complicato produrre il cibo di cui abbiamo bisogno. Bisogna quindi invertire la tendenza. Correre ai ripari. Pensare a modi di coltivare più sostenibili e meno impattanti. Perché la cimice è un sintomo, non è la malattia. La si può aggredire con un’aspirina, si chiami essa vespa samurai o raggio gamma, e la si può forse annientare temporaneamente. Ma la febbre tornerà più alta di prima e si manifesterà in altre forme, se non si agisce sulle cause. Se non si ascolta il grido acuto che ci sta lanciando la natura. Ancora una volta: gestire questa emergenza in modo oculato senza voltarsi dall’altra parte è una delle sfide maggiori dei nostri tempi.