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Gli anni più caldi di sempre
La scala a chiocciola si inerpica ripida. Un piano. Poi un altro. Girando più volte su stessa, sbuca in un luogo fuori dal tempo: una stanza di 8 metri quadri, con una serie di strumenti allineati lungo le pareti. C’è il barometro di Fortin, che legge la pressione atmosferica con scale graduate in millimetri di mercurio. Il barografo aneroide, che misura invece le variazioni di pressione nel corso del tempo. Il pluviografo, che permette di calcolare le precipitazioni. Un termometro a mercurio indica la temperatura massima. Uno ad alcol, la minima. Fuori, su un piccolo balcone, un paio di altri oggetti dalla natura enigmatica. L’eliofanografo serve a calcolare la durata dell’illuminazione solare. È un bulbo di vetro montato su una sezione sferica metallica, il cui diametro è posizionato in modo tale che i raggi del sole battano su di essa dall’alba al tramonto. Su una striscia di carta attaccata allo strumento, i raggi provocano una bruciatura rettilinea, che consente di contare le ore o le frazioni di ore in cui il sole è coperto dalle nuvole. Accanto, un’altra ampolla sferica piena di alcol: il lucimetro di Bellani permette di calcolare la radiazione solare, le calorie per centimetri quadrati al minuto mediante la misura dei millimetri di alcol evaporato.
Sembra un museo di strumenti arcaici. Invece, è una stazione di osservazione meteorologica perfettamente funzionante. La più antica di Roma, e una delle più antiche d’Italia. La torre Calandrelli, fatta costruire dall’abate gesuita di cui porta il nome, è un pezzo di storia del nostro Paese. È qui, all’interno del Collegio romano, che si misurano da più di duecento anni – con più precisione dal 1788 – temperature, pressione, regimi pluviometrici, direzione e velocità dei venti.25 Una meridiana sul pavimento e sulla parete serve a indicare l’ora esatta: quando il raggio di sole che entra dalla finestra si sovrappone perfettamente alla linea, è mezzogiorno. Per anni quella meridiana ha fatto da innesco alla palla di cannone che ogni giorno viene sparata dalla collina del Gianicolo.
A portarmi in cima a questo luogo misterioso e arcano è il suo ultimo custode. Luigi Iafrate è l’instancabile gestore della stazione meteorologica, così come dell’antica e fornitissima biblioteca che le è annessa. L’uomo, che ha poco più di cinquant’anni, somiglia al Guglielmo da Baskerville del Nome della rosa. Con il suo incedere un po’ strascicato, gli occhi miopi che sbrilluccicano di passione mentre mi spiega la storia di questi luoghi, assolve con accuratezza un compito a cui è preposto lui e soltanto lui: cambiare i rotoli di carta negli strumenti, registrare le misure, segnare i numeri.
Il suo è un vezzo anacronistico. Ormai questi dati vengono forniti in modo automatico dalle varie stazioni. Ci pensano i computer. Ma lui continua a venire in cima a questa torre e cambiare i fogli di carta sui tamburi dentro gli involucri di vetro, registrare le massime e le minime di temperatura, segnare gli andamenti. Legge le misure e le annota con precisione su appositi registri. Scrive tutto con studiata lentezza e con una meticolosità che lo fa somigliare a un amanuense medievale.
Poi mi conduce attraverso un’altra scala a pioli su un terrazzo ancora più su. L’affaccio sui tetti del centro di Roma è meraviglioso: si riconoscono distintamente il Quirinale, l’Altare della Patria, alla sua sinistra la colonna di Traiano. Dall’alto si scorgono dettagli di cortili altrimenti inaccessibili alla vista, soffitti di sale affrescate, terrazzi monumentali di palazzi sconosciuti. Mentre mi immergo in questo bagno di bellezza, Luigi mi guida su una scala malferma a vedere l’ultimo strumento. Appollaiata su un palo, c’è una grande scatola di ferro, su cui campeggiano tre semisfere di metallo che girano su se stesse. All’interno del blocco è fissato un rotolo di carta, che registra i movimenti delle sfere. È un anemografo, un apparecchio che misura velocità e intensità dei venti. Cambiamo insieme il rotolo: io gli faccio luce con il cellulare, lui cerca di incastrare il blocco nelle staffe. «Ho le mani troppo grosse, ci metto sempre un po’ di tempo.» Dopo qualche tentativo, riesce nell’intento e possiamo tornare a guardare il panorama. Fa freddo ma lo spettacolo è talmente inebriante che quasi non ci faccio caso.
«Vengo una volta a settimana per mantenere viva questa stazione, altrimenti morirebbe.» Il suo è un omaggio a un luogo unico e nascosto, ed è l’espressione di una sua personale rivalsa per una storia che sarebbe gloriosa ma che non viene mai raccontata. «È in Italia che è nata la meteorologia moderna, eppure nessuno lo ricorda».
Iafrate è l’ultimo erede di quella stirpe di monaci che fin dal Settecento si occupavano delle rilevazioni meteorologiche, chiamati a svolgere questa funzione perché abituati a una vita regolare, scandita da ritmi ripetitivi e precisi. Costruita dai gesuiti, la stazione apparteneva allo Stato pontificio, che riponeva grande attenzione nella registrazione dei dati meteo. È stata ampliata con una stazione astronomica da quella figura monumentale di padre Angelo Secchi, che ne assunse la direzione nel 1850 a soli trentadue anni e la mantenne fino alla sua morte, nel 1878, osservando sempre i cieli e le stelle mentre l’Italia cambiava, diventava Stato unitario e la stessa Roma passava dal dominio del papa a quello ancora incerto della monarchia sabauda. Secchi per Iafrate è un mito. È il fondatore incompreso della meteorologia moderna: «Chissà da dove deriva la falsa credenza che sia nata in Francia».
La mia guida, che al tema ha dedicato la sua tesi di laurea, mi racconta tutte le fasi di questa storia dimenticata.26 Parte dalle rilevazioni fatte nel lontano 1654 nel Granducato di Toscana per ordine di Ferdinando II de’ Medici. Preoccupato dalle nevicate straordinarie e dalle ondate di gelo che affliggevano Firenze in quel periodo, il granduca aveva convocato i maggiori scienziati dell’epoca, quasi tutti allievi di Galileo Galilei. In parallelo aveva creato un sistema di osservazioni sincrone, cioè fatte tutte allo stesso istante in stazioni diverse, per avere una panoramica dell’andamento climatico generale. «Quell’impostazione, fondamento della meteorologia sinottica moderna, ha significato l’esordio degli studi atmosferici come scienza» mi dice emozionato Iafrate. Chiusa bruscamente quell’esperienza per le alterne vicende politiche del Granducato, la storia è proseguita altrove. Fino alla fondazione, più di cento anni dopo, di questo osservatorio in cui ci troviamo, dove il tempo sembra effettivamente rimasto fermo ad allora.
Iafrate mi porta in biblioteca. C’è un numero enorme di libri, manuali, scritti di vario genere sulla meteorologia. Ci sono le serie di bollettini, che raccoglievano giorno per giorno i dati delle stazioni dell’allora Stato pontificio con piogge, temperature minime, massime, condizioni del mare. «All’epoca interessavano soprattutto i dati relativi all’agricoltura e alla navigazione, quindi i venti, la pioggia, l’eventuale siccità.» Ne apro alcuni a caso e li sfoglio con un’attenzione un po’ reverenziale. Prendo il decennio 1850-1860. Leggo i dati scritti a mano. «Pioggia fra mezzanotte e mezzodì», «Qualche goccia», «Vento forte». Guardo le temperature e vedo minime ormai estranee da queste parti, con il termometro che in gennaio andava costantemente sotto lo zero. Cerco poi una data emblematica: 20 settembre 1870, il giorno in cui i garibaldini sbrecciarono Porta Pia e sottrassero Roma allo Stato pontificio. «Bello. Cannonate al mattino, furfanterie fino a sera. Nord e sud-ovest leggero. Cresce poco il barometro» segnala il bollettino, mescolando eccezionalmente la precisione dei dati meteo a elementi soggettivi di cronaca cittadina.
Nell’archivio della biblioteca ci sono più di tremila faldoni, che documentano 40 milioni di osservazioni provenienti dalle varie stazioni meteorologiche sparse per l’Italia. Il soffitto affrescato riproduce le principali: da Roma a Venezia, da Padova a Milano. È un luogo da fiaba, unico nel suo genere in Italia. E tra i pochissimi al mondo a poter vantare serie pluricentenarie di dati meteo-climatici. Eppure giace dimenticato. È chiuso al pubblico e per visitarlo bisogna inoltrare formale richiesta al Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea), l’ente del ministero dell’Agricoltura a cui è stata affidata la gestione. Nel 2015 ne è stata decretata la chiusura. Oggi sopravvive – o meglio galleggia – solo grazie all’abnegazione di Iafrate, che ha talmente insistito da ottenere il permesso di venire qui ogni tanto, tenere d’occhio gli strumenti e aprire la biblioteca agli studiosi che ne facciano richiesta. Ma è come un residuato, su cui non si investe un centesimo. E che viene conservato solo per forza d’inerzia e per il volontarismo del suo fedele custode.
La torre Calandrelli abbandonata a se stessa mi pare una metafora potente. È un simbolo palese della poca attenzione che riponiamo in Italia sul tema cruciale dei cambiamenti climatici. Mentre in tutto il mondo si parla della questione, noi lasciamo deperire un luogo unico, che potrebbe essere usato per fare ricerche o divulgazioni, oppure essere allestito come museo, mostrando gli strumenti, le serie meteorologiche, le stanze cariche di storia della sua biblioteca. Nulla si fa di tutto ciò, in una visione miope che cancella così un pezzo di passato utile a capire il presente e prefigurare il futuro. Perché se la stazione è stata creata per registrare dati meteo, ovvero le manifestazioni atmosferiche in momenti precisi, l’enorme quantità di bollettini costituisce una serie climatica che ci consente non solo di studiare l’andamento e il mutamento del clima nelle nostre città, ma anche e soprattutto di farlo capire, raccontarlo, comunicarlo. Iafrate continua a portare avanti il suo lavoro, più o meno nell’indifferenza generale, sperando che le cose cambino, che la torre sia riabilitata. Ma sotto sotto sa che non accadrà. È consapevole che la scarsa attenzione per quella storia misconosciuta, che fece dell’Italia la culla della meteorologia moderna, è l’ennesima manifestazione di un Paese che ha perso la coscienza delle proprie radici ed è concentrato su un eterno e immobile presente.
Da Frankenstein alle serie climatiche
Se la torre Calandrelli è a rischio e funziona solo a intermittenza grazie al volontarismo di Iafrate, il patrimonio delle rilevazioni meteo che qui sono custodite non è stato per fortuna dissipato. È stato digitalizzato insieme a dati provenienti da altre stazioni e raccolto in una serie che viene gestita all’Istituto di Scienza dell’atmosfera e del clima del Cnr di Bologna. Michele Brunetti è il fisico che la coordina ed è anche la persona costantemente interpellata quando si parla di variazioni di temperature decennali o centenarie, cioè ogniqualvolta escono quelle notizie, ormai tanto frequenti da non essere quasi più notizie, dell’anno o del decennio più caldo di sempre.
Quando lo chiamo al telefono mi risponde con il fiatone da una cima del Trentino, dove sta partecipando a una spedizione di ricerca dendroclimatologica; sta cioè cercando in montagna residui di tronchi fossilizzati. Questa branca della climatologia, oggi sempre più rilevante, è basata su un criterio semplice: si osservano gli anelli di accrescimento degli alberi, la cui formazione alle nostre latitudini ha cadenza annuale, per ricavare informazioni sull’andamento del clima. Tanto più ampio è lo spazio tra due anelli consecutivi, tanto maggiore sarà stata l’attività vegetativa della pianta in quel preciso anno, il che può darci notizie su temperature, piovosità e umidità della zona.
La dendroclimatologia è una delle passioni di Brunetti. Nel suo ufficio di Bologna, dove lo vado a trovare qualche giorno dopo la mia intempestiva telefonata, ha appesi alla parete esemplari di minitronchi che ha raccolto personalmente sulle montagne. Mi racconta quindi che i residui fossili trovati nelle varie zone dell’arco alpino dimostrano una sostanziale omogeneità e confermano i dati delle osservazioni fatte nel corso dei secoli dalle varie stazioni.
Per il suo ruolo di responsabile della banca dati, Brunetti è diventato di fatto uno storico del clima. Mi ripropone, ampliandola di dettagli, la dissertazione di Iafrate sulle rilevazioni fatte in Italia, a partire dal lavoro lanciato dal Granducato di Toscana alla metà del XVII secolo. Mi parla delle serie storiche. Delle tendenze e delle anomalie. Si dilunga sul 1816, noto come «l’anno senza estate», e sulle conseguenze che l’atipico freddo ebbe sulla storia della letteratura. In quell’anno, l’eruzione del vulcano Tambora in Indonesia aveva diffuso così tanta cenere nell’atmosfera che si ebbe in tutto il mondo un’estate con pochissimo sole. L’Europa, che ancora si stava leccando le ferite delle guerre napoleoniche, fu travolta da un’ondata di gelo, che distrusse i raccolti, fece aumentare il prezzo dei beni alimentari e provocò moti per la fame. La leggenda narra che in quell’anno terribile Mary Shelley, il marito Percy e alcuni loro amici furono costretti a restare al chiuso durante le loro vacanze in Svizzera. E decisero così di gareggiare tra loro a chi sarebbe stato in grado di scrivere la storia più spaventosa. Dalla temperatura glaciale di quell’anno e dalla condizione di domicilio coatto a cui dovettero adeguarsi uscirono opere memorabili, come Il vampiro di John Polidori e Frankenstein o il moderno Prometeo dell’allora giovanissima Shelley. Curiosamente in quest’ultimo libro, il primo incontro tra Victor Frankenstein e la sua orripilante creatura avviene in un luogo a noi noto, il ghiacciaio della mer de glace del Monte Bianco, che Mary e il marito avevano visitato poco tempo prima restandone molto impressionati. «Una massa di ghiaccio ondulato, come se il gelo avesse improvvisamente legato le onde e i vortici di un potente torrente»,27 così lo descrive la scrittrice, dandoci una rappresentazione di maestosità che stride con l’aspetto attuale del ghiacciaio e che rappresenta una prova paleoletteraria dei cambiamenti climatici.
Dopo questa digressione, Brunetti mi racconta della banca dati che coordina e delle informazioni che questa fornisce sul lungo periodo. Le evidenze che emergono confermano la definizione dell’Italia come hotspot, che già mi hanno fornito i vari altri studiosi del clima che ho incontrato. «I dati indicano che in Italia l’aumento di temperatura è più marcato rispetto al trend della media globale.» Mostrandomi un grafico, il fisico mi spiega come la temperatura media sia cresciuta dal 1800 a oggi di 0,1 gradi ogni dieci anni, ossia di un grado al secolo. «Ma questo trend non è costante. È in continuo aumento: dal 1980 a oggi abbiamo avuto una crescita di 0,44 gradi al decennio.» Questo vuol dire che la tendenza di incremento attuale è quasi di un grado ogni vent’anni. «E purtroppo è un processo in costante accelerazione» mi dice Brunetti. Poi, per rendere l’idea, mi fa vedere una mappa dinamica dell’Italia in cui sono indicate le variazioni della temperatura media nel corso degli anni. Man mano che ci avviciniamo ai tempi più recenti, e in particolare a partire dagli anni Ottanta, la mappa si fa sempre più rossa, come se fosse arroventata.
È la rappresentazione iconica di quello che leggiamo sui giornali e a cui siamo ormai tristemente abituati: l’inanellarsi di anni sempre più caldi. «Il 2018 è stato il più caldo dal 1800 a oggi, con un’anomalia di 1,58 gradi in più della temperatura media rispetto al trentennio di riferimento (1971-2000)» mi conferma Brunetti. Prima del 2018, c’era stato il 2015, con 1,44 gradi in più rispetto alla media. Prima ancora, il 2014, con 1,39 gradi in più. Un singolo caso può essere un’anomalia. Tanti casi messi in fila diventano una tendenza. «Il fatto che dal 1800 a oggi, venticinque dei trent’anni più caldi in Italia si siano registrati dopo il 1990 rappresenta una significativa evidenza statistica.»
Mi mostra poi un’altra slide, in cui accanto alle temperature medie compaiono delle figurine stilizzate: in corrispondenza degli anni Settanta c’è un omino, mentre due bambine con le treccine spiccano vicino agli anni Dieci del nostro secolo. L’omino è lui medesimo, che oggi ha quarantacinque anni e ha vissuto l’infanzia a cavallo tra gli anni Settanta e gli Ottanta. Le bambine sono le sue figlie. «È significativo che il clima in cui stanno vivendo loro sia di 1,5 gradi superiore a quello in cui vivevo io alla loro età» dice il ricercatore.
Questo è il punto: la straordinaria velocità con cui il cambiamento sta avvenendo e ci sta travolgendo, lasciandoci sbigottiti, incapaci di agire o di elaborare soluzioni. Il target dell’accordo di Parigi, che si propone di ridurre le emissioni di gas a effetto serra per mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2 gradi rispetto all’era preindustriale, è stato già ampiamente superato nel nostro hotspot nazionale. «In Italia, siamo già a più 2,2 gradi» certifica Brunetti. Due gradi non sembrano molti, ma in un essere umano sono la differenza che passa tra uno stato di benessere e la febbre alta. Nell’ambiente provocano tutti quegli effetti a cui assisto attraversando l’Italia: ghiacciai che scompaiono, mari che inondano le coste, venti che diventano uragani, siccità che distruggono i raccolti, specie mai viste che colonizzano i nostri territori e i nostri mari, piante e animali che impazziscono.
La situazione è di un’urgenza assoluta e richiederebbe interventi drastici. Ma è incredibilmente assente dal dibattito pubblico. L’ecatombe del 2003, quando in Europa morirono 70.000 persone per il caldo, è un evento dimenticato, come se non fosse mai successo o se fosse stato un accidente della storia. Non se ne parla, anche se tutti i modelli previsionali ci indicano che quello è il futuro con cui ci dovremo confrontare. Anche se le temperature che attualmente abbiamo sono del tutto fuori fase: mentre sto scrivendo queste righe, il dicembre 2019 si chiude con una temperatura media mensile in Italia di più 1,9 gradi rispetto al periodo 1981-2010, stabilendo il record del «secondo dicembre più caldo di sempre». Anche se i ghiacciai alpini si fondono e arretrano a ritmi di 40 metri l’anno. Anche se i litorali si ritraggono con un’ampiezza da far paura. Se le acque alte eccezionali a Venezia diventano la norma. E se i fenomeni atmosferici estremi flagellano il nostro territorio con frequenza quotidiana, anzi, cinque volte al giorno nel 2019.
Il cambiamento climatico è il grande rimosso. Gli annunci allarmati che danno Brunetti e i suoi colleghi dal loro osservatorio della banca dati cadono nel vuoto. «Forse non siamo bravi noi a comunicare» dice lui con l’umiltà dello scienziato, incline per deformazione professionale a mettere sempre in discussione i risultati del proprio lavoro. O forse la situazione è così grave che ci spinge semplicemente ad attivare un meccanismo di rimozione collettiva, volto a sublimare un problema che ci sovrasta e per il quale non siamo in grado di trovare soluzioni. È quella «grande cecità» di cui parla lo scrittore indiano Amitav Ghosh in un suo pregevole libro.28
Questa è la lezione tratta dall’incontro con Brunetti, che con l’imperturbabilità del ricercatore mi mostra le sue mappe incandescenti, sempre più rosse man mano che passano gli anni. O dalla visita privatissima che mi ha regalato Luigi Iafrate alla torre Calandrelli. Quella stazione meteorologica che chiude, quel pezzo di storia messo in soffitta e coperto da un velo di polvere corrisponde all’oblio che avvolge le vittime dell’estate torrida del 2003, e più in generale al disinteresse per gli effetti del surriscaldamento globale nel nostro Paese. La chiusura della stazione meteorologica del Collegio romano ci dice molto su quello che siamo e su quello che abbiamo scelto di non essere e di non fare. Diventa l’emblema di un’Italia che osserva il disastro dall’orlo dei fiumi che straripano, dai campi che si incendiano, dalle coste travolte dalle onde.
Nel XVII secolo, Ferdinando II de’ Medici aveva agito: osservando la neve e il freddo innaturali, aveva deciso che quel fenomeno andava studiato per trovare delle soluzioni e aveva chiamato presso di sé i migliori scienziati. Oggi abbiamo fior di studiosi, che si dedicano a ricerche approfondite e creano modelli d’avanguardia. Sono quegli studiosi che sto incontrando in tutta Italia, come Michele Brunetti. Come Gianmaria Sannino dell’Enea o il fisico dell’atmosfera Antonello Pasini. O Luigi Cavaleri, e tutto il gruppo dell’Ismar di Venezia. O come tanti altri che non ho visto di persona, ma di cui ho letto i lavori. Studiano indefessamente, spesso con mezzi limitati. Analizzano quello che accade anno per anno, mese per mese. E lanciano grida di allarme per una situazione che appare loro sempre più drammatica. Eppure, non li ascoltiamo. Accogliamo le loro conclusioni con un silenzio imbarazzato. Con tutti i dati in nostro possesso, con la certezza ormai insindacabile di essere al centro di un hotspot climatico e che i prossimi anni ci vedranno sempre di più nell’occhio del ciclone, è arrivata forse l’ora di uscire da quel meccanismo di rimozione collettiva che ci avvolge e di trasformare l’insipienza in azione, riacquisendo quella centralità che ci è testimoniata dalla storia gloriosa della torre Calandrelli o da quel cenacolo di innovazione che fu la corte di Ferdinando II de’ Medici a Firenze.