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La Sicilia, terra di manghi e di deserti
Francesco Paolo Valentini lo dice come provocazione, ma c’è chi lo sta facendo davvero. Approfittando delle temperature più elevate e anche della crescente richiesta del mercato, da qualche anno in Italia si è sviluppata una proficua produzione di frutta tropicale: manghi, avocado, banane, litchi, papaie, frutti della passione. Per una volta, parliamo di effetti positivi dei cambiamenti climatici: in un territorio che si tropicalizza, diventa possibile coltivare con profitto piante normalmente localizzate ad altre latitudini.
Il fulcro di questa produzione è la Sicilia, dove un manipolo di imprenditori visionari ha fiutato l’affare e si è lanciato in questo settore promettente, sostituendo i poco redditizi agrumeti con piantagioni di alberi esotici. Ancora marginale, il fenomeno sta conoscendo una crescita vertiginosa: negli ultimi cinque anni, le superfici coltivate sono aumentate di circa sessanta volte, passando da pochi ettari a più di 500. Pietro Cuccio è il decano di quest’operazione: è dal 2002 che coltiva manghi, litchi e avocado sulla costa settentrionale della Sicilia, all’ombra di quei monti Nebrodi che declinano selvaggi verso il mare lungo spiagge sassose battute dal vento.
Siamo a Caronia, in provincia di Messina. Il frutteto di Cupitur, così si chiama la sua azienda, è a due passi dalla costa. È inizio settembre e l’estate ancora picchia con un caldo rabbioso, solo leggermente temperato da una brezza che spira dal Tirreno. Pietro mi accoglie in un piccolo ufficio buio inondato di aria condizionata, dietro una grande scrivania da cui risponde a due telefoni cellulari che squillano senza sosta. È un siciliano ultrasettantenne, che ha passato metà della vita in giro per il mondo: per anni ha fatto l’architetto a Los Angeles. Poi, quando la crisi immobiliare ha cominciato a mordere, si è trasferito alle Hawaii e si è lanciato nella coltivazione di frutti tropicali. Il progetto è andato alla grande, spingendolo a prendere altri terreni e ampliare la produzione. Finché nel 2000, alla morte della madre a cui era molto legato, ha deciso improvvisamente di tornare a casa. Lui la racconta così: un giorno, sentendo l’odore delle zagare di limone nei suoi campi hawaiani, ha provato una nostalgia struggente per la sua terra d’origine. E ha capito, dopo quasi trent’anni trascorsi lontano, che era arrivato il momento di rientrare. Da un giorno all’altro ha venduto tutto. Passati pochi mesi era in Sicilia a coltivare quegli stessi frutti tropicali con cui aveva fatto fortuna all’altro capo del mondo. «All’inizio mi hanno preso per pazzo» mi dice divertito. «Ma ora posso dire che l’intuizione era giusta.»
Con l’ausilio di alcuni agronomi dell’Università di Palermo, ha trovato i terreni adatti. Ha sperimentato molteplici varietà. Ha piantato specie diverse, studiandone l’adattamento al territorio. E ha vinto la sua scommessa: oggi produce 20.000 chili di mango, 12.000 di litchi e 10.000 di avocado all’anno. Ma soprattutto ha fatto da apripista ad altri che hanno seguito il suo esempio, vedendo che c’era un mercato maturo e condizioni climatiche ottimali.
La sua azienda è oggetto di autentici pellegrinaggi: decine di agricoltori siciliani sono venuti a incontrarlo, a visitare i campi, a chiedere consigli e informazioni per buttarsi anche loro nella mischia. Il successo della sua impresa, insieme all’ammirazione per la sua parabola di emigrante tornato in patria a portare idee e ricchezza, gli conferiscono un’indiscutibile autorità. Quando si parla della nuova tendenza della frutta esotica in Sicilia, il primo nome che viene pronunciato è il suo.
Pietro parla volentieri di sé e del suo passato. Mi racconta della sua vita in California. Delle Hawaii, baciate dal sole e da un clima che faceva crescere di tutto. E del passaggio in Sicilia, che gli ha permesso di riannodare i fili con il suo vissuto familiare. Perché se si è dovuto improvvisare agricoltore già in età matura, non è partito dal nulla. «Questa cosa ce l’avevo nel Dna» mi dice indicandomi un manifesto che troneggia dietro la scrivania. Sono immagini di inizio Novecento, in un bianco e nero sgranato. Ritraggono il suo bisnonno, che esportava arance rosse fino a Londra. Si vedono le foto dei magazzini al porto di Palermo, le navi caricate con i preziosi frutti che avrebbero raggiunto i mitici docks. Quasi si commuove quando mi racconta che l’anno scorso, «esattamente cent’anni dopo il mio bisnonno», ha esportato i suoi manghi nella capitale britannica. «È stato come chiudere un cerchio.»
Descrive il suo legame con il lontano antenato con una fierezza un po’ ostentata, quasi a giustificare il suo ritorno a casa, sulle orme di una storia con la quale non si è ancora del tutto pacificato. Quando parla della Sicilia, è un rincorrersi di odio e amore. Ne ama gli odori, i sapori, il sole. Ne soffre le difficoltà: di fare impresa, di fare sistema, di cooperare. Cuccio l’americano mal sopporta i ritmi rallentati e le atmosfere vellutate della quotidianità siciliana; i compromessi; le lungaggini e un certo tipo di attitudine fatalista nei confronti della vita. Lancia velate accuse contro nemici umani e naturali, concreti e forse immaginari: il vento in primis, che qui soffia forte e minaccia le sue piante; le banche, che si approfittano degli imprenditori onesti; e i profeti di sventura, che prima lo hanno deriso e oggi lo stanno copiando.
Pietro oscilla tra esaltazione e abbattimento. È ombroso e solare, cupo ed entusiasta, innamorato della vita e perennemente scontento. È forse più semplicemente un inquieto. Sembra un Ulisse tornato nella sua Itaca dopo aver tanto girovagato: vitale e impulsivo, appare sempre pronto a imbarcarsi in nuovi progetti che lo portino oltre i confini conosciuti, al di là delle sue personali colonne d’Ercole. Un esempio minimo ma emblematico: in un angolo del suo ufficio buio tiene appeso un poster in cui sono elencate decine di varietà tropicali. Io lo guardo con curiosità. Non vedo i mamoncillos, piccoli frutti verdi originari dei Caraibi dal sapore dolcissimo e inebriante, che ho consumato con voracità in un recente viaggio a Cuba. Gli chiedo se li conosce. Lui mi dice di no, incuriosito. Glieli mostro su Internet. Vedo nei suoi occhi balenare un guizzo, un’idea di sviluppo che non è solo opportunità imprenditoriale, ma anche e soprattutto possibilità di esplorare un territorio sconosciuto. Probabilmente non ne farà nulla, dimenticherà la cosa appena andrò via. Ma Pietro sembra così: animato da un impeto vorticoso, ansioso di raccogliere nuove sfide, di realizzare obiettivi che gli consentano di spostare il limite un pezzo più in là.
Attraverso una porticina mi guida verso la piantagione, che si sviluppa proprio dietro l’ufficio. Qui in sede ha un podere di 4 ettari. A questo si somma un altro piccolo appezzamento che affitta, poco lontano. Non sono numeri giganti. L’impresa è familiare. Ci lavorano in pochi: un agronomo fidatissimo, una manciata di operai adibiti alla raccolta e all’inscatolamento. Cuccio controlla tutto di persona: segue l’andamento delle piante, il grado di maturazione, la fertilizzazione e le tecniche di lotta biologica. «Abbiamo pochi attacchi da uccelli e parassiti. Essendo i nostri frutti non autoctoni, non li riconoscono e li ignorano» mi dice.
Il campo sembra un giardino incantato. Gli alberi di mango crescono rigogliosi, dietro a un sistema di reti che li protegge dal vento. Tutto è armonico e ordinato. Le piante non sono accatastate e ravvicinate come avviene nei frutteti italiani di mele, pere o pesche. Sono lasciate crescere a distanza, ognuna con il proprio spazio vitale. Pietro me le indica a una a una: parla delle diverse varietà, della molteplicità di frutti, indicando periodo di maturazione e caratteristiche organolettiche. C’è il Tommy Atkins, con la sua buccia violacea. Il Keitt, dalla polpa dolcissima e priva di fibra. Il succosissimo Maya. E poi il Kensington Pride, la creatura primigenia, quella da cui è iniziata l’impiantazione in Sicilia. «Oggi coltiviamo diciassette tipi di mango e ne stiamo sperimentando altri.»
È tempo di raccolta: un paio di operai lavorano nel campo e riempiono le cassette che saranno poi instradate alla vendita. I mercati principali sono la Germania, la Svizzera, il Regno Unito. E da un po’ di tempo anche l’Italia, dove l’attenzione per questi frutti sta crescendo, a tal punto che manghi e avocado sono stati inseriti dall’Istat tra i prodotti che compongono il paniere di riferimento dei consumi. Il prezzo è ottimo per i produttori, le opportunità di reddito molto interessanti. «Li vendo dai 3 ai 5 euro al chilo, a seconda della varietà, della qualità e dell’aspetto. Se pensi che i limoni sono arrivati a 20 centesimi, capisci che quello della frutta tropicale può essere un volano per un’agricoltura di riscatto.» Questo è un tema che gli sta caro: restituire dignità al lavoro; ridare vigore a una terra bellissima ma condannata da anni al sottosviluppo. Pietro si immagina un po’ precursore, un po’ profeta. Si vede forse nel ruolo di capopopolo, anche se lamenta che il popolo non lo segue. Perché lui vorrebbe tutto e subito, mentre i processi sono più lenti, soprattutto in Sicilia. «Hai dato il via a una rivoluzione» gli dico. «Si potrebbe fare molto di più» mi risponde con un tono quasi scoraggiato.
Continuiamo a girare per il campo. Mi descrive gli altri frutti che coltiva. Gli alberi di litchi, carichi di frutti dalla scorza rugosa e color lampone. Gli avocado, non ancora maturi. Mi mostra specie asiatiche e sudamericane: la carambola, con il suo tipico frutto giallo a forma di stella, il longan indonesiano, il chicozapote messicano. Sembra di stare in un orto botanico, in compagnia di una guida esperta e appassionata, che mi parla di origine delle piante, capacità d’adattamento, caratteristiche necessarie alla corretta crescita di ogni varietà.
Io gli chiedo se i mutamenti climatici abbiano un ruolo in queste nuove piantagioni. «La Sicilia è una terra adatta. Già negli anni Cinquanta si è provato a coltivare l’avocado, ma all’epoca non c’era mercato. Sì, direi che oggi il clima aiuta: le piante di mango soffrono quando ci si avvicina allo zero, muoiono se si scende a meno quattro. Crescono invece bene con primavere ed estati soleggiate e caldissime. Diciamo che le temperature attuali sono particolarmente favorevoli, ed è probabile che lo saranno sempre di più.»
Sfruttando a proprio vantaggio il nuovo trend del clima, Pietro Cuccio ha trovato una nicchia di mercato redditizia. D’altronde, la sua intera vicenda personale è un esempio di adattamento. Tornato in Sicilia, ha capito che non aveva voglia di rimettersi a fare l’architetto. Ha intuito che per dedicarsi all’agricoltura doveva sperimentare qualcosa di nuovo, che fosse più proficuo delle arance e dei limoni. Ha replicato quindi la sua esperienza hawaiana, lanciandosi in quest’impresa che ha fatto scuola, guarda al futuro e lo plasma partendo dalle nuove condizioni climatiche.
Mentre carico in macchina le casse di frutta di cui mi fa omaggio e che mangerò per tutta la settimana successiva, mi dico che persone come lui sono veri e propri creatori di immaginario. Visionari che interpretano alla lettera l’aforisma zen citato da Francesco Valentini: «Avere un problema e fare di questo un vantaggio». Perché la sfida del domani è proprio quella: creare un’agricoltura che si sappia adattare. Usare varietà più resilienti. E quando è necessario, cambiare coltivazioni, introdurne di nuove, con criterio e studio. Perché il futuro è di chi è capace di inventarlo.
Lasciando l’azienda di Pietro mi viene da pensare che non tutto è perduto. Che l’essere umano ha comunque grandi capacità d’adattamento. E che la sfida del clima si può ancora vincere. In definitiva anche noi siamo parte dell’ecosistema e, come le piante e gli animali, dovremmo adattarci, modificando i nostri comportamenti e assumendone altri in maggiore sintonia con l’ambiente in cui viviamo. Forse ha ragione Valentini: fra cinquanta o cent’anni non faremo più vino in Italia. Ma nel frattempo saremo magari diventati leader nella produzione di manghi e altri frutti tropicali.
Un hotspot nell’hotspot: la mappa rosso fuoco
Oltre a rappresentare la culla di queste nuove promettenti coltivazioni, la Sicilia vanta un altro record meno ambito: quello di essere uno dei territori più esposti agli effetti dei mutamenti climatici. A causa della sua posizione geografica, nel mezzo del mar Mediterraneo, è particolarmente vulnerabile agli eventi estremi, nonché a ondate di calore che provocano siccità e aridità nei terreni. «La nostra isola è un hotspot nell’hotspot» mi dice Vincenzo Piccione, già luminare di Scienze ambientali all’Università di Catania, nonché coordinatore di un gruppo di ricerca che da più di trent’anni studia il fenomeno della desertificazione in Sicilia.
Da quando è in pensione, il professore è più attivo che mai. Coordina instancabilmente progetti di ricerca. Si spende in conferenze pubbliche. Partecipa a iniziative sul campo. Può insomma dedicarsi a tempo pieno a raddrizzare quello che considera uno dei peggiori difetti dell’accademia italiana: la scarsa connessione con la società. «La nostra università è capace di fare grandi studi, che però difficilmente si traducono in applicazioni pratiche, a causa di una macchina burocratica infernale che non ha uguali in altre parti del mondo» mi dice.
Ha così creato una rete ampia e composita, secondo un principio che mi illustra mediante un’efficace metafora: «Una formica o una termite da sole non sono nulla, ma quando agiscono in gruppo hanno un’intelligenza collettiva superiore a quella di noi umani». L’intelligenza collettiva che ha messo in piedi si avvale di competenze variegate, fra cui quelle di un cartografo, di una matematica, di una geobotanica, di un’esperta di sistemi agrari, che incontro insieme a lui nel giardino di una bellissima villa di Taormina. Siamo ospiti della professoressa Maria Alessandra Ragusa, ordinaria di Analisi matematica nonché presidente del comitato scientifico dell’Istituto di ricerca, sviluppo e sperimentazione sull’ambiente e il territorio (Irssat), uno degli enti che fanno parte della rete del professore. È un caldo pomeriggio estivo e andiamo avanti a discutere fino a sera inoltrata, in un esaustivo brainstorming a mio uso e consumo sullo stato ambientale della Sicilia, che diventa progressivamente riflessione più ampia, condivisa, quasi filosofica su effetti e prospettive del cambiamento climatico.
Seduti intorno a un tavolo, gli studiosi mi illustrano i risultati del lavoro che hanno svolto sulla desertificazione in Sicilia. Grazie anche all’ausilio di studenti e dottorandi, hanno creato una banca dati mastodontica: 250 milioni di occorrenze georiferite che dividono tutta la regione in tessere corrispondenti a quattro classi di rischio (non minacciato, potenziale, fragile e critico). L’analisi parte da quattro parametri, di carattere sia naturale sia antropogenico: qualità del clima, del suolo, della vegetazione e della gestione del territorio. I dati raccolti con questo lavoro certosino sul campo si traducono in mappe che indicano la potenziale desertificazione, usando una scala di colori che va dal blu (non minacciato) al rosso (critico). Vista nel suo complesso, la Sicilia è una grande macchia rossa, con una fascia azzurra isolata nella parte settentrionale, in provincia di Messina, proprio in corrispondenza dell’area dove Pietro Cuccio ha i suoi terreni.
«La desertificazione è dovuta in parte a fattori naturali, come il clima e le scarse precipitazioni, e in parte a fattori umani, come la gestione non oculata del territorio» sottolinea Piccione, che ci tiene a specificare la differenza tra «desertizzazione», cioè il fenomeno naturale di avanzata del deserto, e appunto «desertificazione», cioè il degrado biologico dei terreni, in cui l’essere umano ha un ruolo più pronunciato. «Negli ultimi ottant’anni in Sicilia si è avuta una perdita media di fertilità di 117 chilometri quadrati all’anno. Le proiezioni della NASA prevedono per il 2030 un incremento di temperature di 1,4 gradi e un decremento di precipitazioni del 27 per cento nel Mediterraneo rispetto al trentennio di riferimento 1960-1990. In quest’ottica, fra dieci anni il 75 per cento del territorio siciliano sarà nella classe critica» spiega il professore. Che riassume, più prosaicamente: «Insomma, un bel casino».
Questa situazione preoccupante prefigura un futuro in cui flora e fauna saranno a rischio scomparsa, i terreni sempre meno adatti alle coltivazioni, gli incendi più frequenti. Un futuro fosco che però non fa perdere d’animo Piccione e il suo gruppo. Oggi l’attenzione sul tema è alta. La regione Sicilia ha creato una consulta dedicata. Le mappe elaborate sono note e possono essere usate per concepire risposte. Il professore ha, insomma, raggiunto almeno in parte uno dei suoi obiettivi: uscire dal recinto dell’accademia, mettere i risultati delle ricerche a disposizione della società e dei responsabili politici. Perché la desertificazione non è qualcosa di ineluttabile. È un processo determinato anche da noi esseri umani, che abbiamo quindi la possibilità e gli strumenti per invertire la tendenza.
Dopo l’introduzione di Piccione, sono gli altri membri del gruppo a descrivere il fenomeno dai loro specifici punti di vista. C’è la geobotanica Rosanna Costa, che mi parla del cambiamento nella flora, della diffusione di piante invasive resistenti a condizioni estreme e dell’indebolimento progressivo degli altri alberi, «che avranno un sistema immunitario più fragile e saranno più soggetti a virosi». C’è l’esperta di sistemi agronomici Rachele Castro, che definisce il cambiamento climatico un «cambiamento di identità del territorio». E che auspica un approccio progressivo e puntuale al problema: «Più che cercare di fermare questo fenomeno, è importante analizzarlo e mettere in atto sistemi di adattamento, da decidere caso per caso a partire da un’attenta conoscenza delle singole situazioni».
Gli studiosi concordano su un punto: la loro opera cartografica è uno strumento, che permette di fotografare lo stato dell’arte. Meglio: è un termometro, che oggi ci indica che l’isola è quasi interamente in una condizione febbricitante. Sta a noi far abbassare la colonnina di mercurio, prevedere azioni di contrasto, rivitalizzare territori troppo a lungo sfruttati, o troppo poco curati. Insieme alle varianti climatiche, su cui è più complesso intervenire nell’immediato, sono stati il cattivo uso di suoli e ambienti, i pascoli abusivi, l’abbandono dei terreni a creare le condizioni per l’intensificarsi di quella grande macchia rossa che ingloba quasi tutta l’isola. «Noi abbiamo suonato un campanello d’allarme» fa notare il professore. «Ora è il tempo dell’azione.»
Piccione è un uomo realizzato, felice di aver svolto un lavoro che gli è valso riconoscimenti e soddisfazioni. Oggi, in un’ottica di restituzione, si mette al servizio della collettività, svolgendo in questo gruppo eterogeneo e coeso il ruolo di garante, capace di mettere in sinergia le varie competenze. Coordina, senza soffocare le differenze. Ascolta e sistematizza. Ha una propensione innata al confronto, una curiosità che stimola e rende virtuoso quel metodo multidisciplinare che rappresenta «l’unico approccio possibile a un fenomeno complesso come quello della desertificazione».
Concreto e pragmatico, il professore non ama parlarsi addosso, né stare con le mani in mano. Per questo, insieme al Centro di ricerca ambientale di Messina, ha lanciato un’azione di piantumazione di specie arboree autoctone. E per questo fa da consulente a un piano operativo europeo di adattamento che si svolge tra la Sicilia, la Spagna e il Portogallo. Coordinato dall’Università di Palermo, il progetto ha identificato alcune aziende in cui attuare azioni che possano servire da casi scuola. Una di queste è a Caltagirone, al limite sud della provincia di Catania. Ed è così che ci mettiamo insieme in macchina e attraversiamo la Sicilia orientale per andare a vedere sul campo questa esperienza.
I fichi d’India e le galline felici
Viaggiamo per circa un’ora tra le campagne interne della Sicilia, sulla strada provinciale che collega Catania con il polo industriale di Gela. Accanto a noi sfilano colline immerse in una luce sfavillante, che declinano su agrumeti e campi di grano. Il paesaggio è brullo: gli alberi sono spogli, i campi vuoti dopo la raccolta. Eppure non vi leggo sofferenza. Nonostante il colore giallastro, il panorama non trasmette quel rischio di perdita imminente che si dedurrebbe dalle mappe di Piccione. Il professore guarda fuori dal finestrino, anche lui inebriato da questa bellezza cui pure dovrebbe essere abituato. Mi racconta quindi quanto la desertificazione sia strisciante, si veda e non si veda, colpisca i terreni in modo subdolo e insidioso. E faccia scoppiare incendi devastanti, come quelli che solo due mesi prima si sono sviluppati in alcuni comuni della vicina provincia di Enna, distruggendo 150 ettari di macchia mediterranea.
La maestosità dei paesaggi mi spinge a riflettere su questa regione inafferrabile, plasmata da una storia millenaria fatta di gloria e disgrazie. Terra di assalti e scorribande, invasa da tutti ma mai del tutto conquistata. Culla di artigiani e contadini, ma anche di scienziati, astronomi, scrittori. Isola per nulla isolata, anzi, al centro del Mediterraneo, e a tratti addirittura di tutto l’Occidente: qui Archimede teorizzò ed enunciò il suo celebre principio, qui Federico II di Svevia fece fiorire le lettere e le scienze. Qui sbarcarono i fenici, gli arabi, i Mille di Garibaldi e gli angloamericani. Aperta per natura, protesa all’esterno per posizione, la Sicilia finisce per inglobare il mondo intero, in un meticciato caotico e arruffato che la rende cosmopolita, poliedrica, geneticamente bendisposta verso il diverso. Accogliente ma al contempo incomprensibile, contraddittoria e stratificata, gentile e insieme irruente, è unica e molteplice, o anche «una, nessuna e centomila», come il Vitangelo Moscarda del celebre romanzo di Pirandello. I suoi figli sono ospitali fino al parossismo, legati alla loro terra da un amore viscerale. Ne conoscono i difetti, eppure non ne parlano apertamente, un po’ per pudore, un po’ per paura, un po’ forse per diffidenza. Così la Sicilia rimane un punto interrogativo, un permanente non detto, un soggetto sottinteso. Ed è forse per questo che le mappe di Piccione, quell’enorme macchia rossa che sembra condannare a un orizzonte di arsura e carestia quest’isola-mondo, non sono conosciute al di là dello Stretto di Messina. Nessuno sembra preoccuparsi veramente del futuro di questo «hotspot nell’hotspot» così vulnerabile, della fragilità di questi territori minacciati dal calore e dalla desertificazione, forse perché nessuno ne coglie l’essenza intima o forse perché tutti ne rispettano inconsciamente la ritrosia malcelata, il desiderio di autonomia, la contenuta distanza.
Mentre mi perdo nei miei pensieri, la macchina scorre su questa striscia di asfalto incastrata in fondo alla valle. Quando arriviamo a Caltagirone, ci inerpichiamo verso il suo centro storico, abbarbicato in cima a una collina. Qui abbiamo appuntamento con Michele Russo, titolare dell’azienda agricola Caudarella, e con la professoressa Paola Quatrini, la responsabile del progetto europeo Life, che per l’occasione è venuta appositamente da Palermo. Prima di portarci tutti in campagna, Michele ci dà appuntamento in un bar del centro. Ci vuole far provare a tutti i costi una prelibatezza fatta con i frutti della sua terra. Ci sediamo a un tavolino e ci viene servito un bicchiere straboccante di una granita dal colore sanguigno, quasi tendente al viola. La assaggio: il gusto è dolcissimo, la consistenza straordinaria. «Pura materia prima della mia azienda, senza zucchero né additivi» dice lui fiero. I frutti della sua terra sono i fichi d’India, che questo giovane agricoltore dalla barba scura e dallo sguardo illuminato coltiva in una tenuta di 4 ettari a poca distanza.
Dopo l’inaspettata leccornia, andiamo a vedere il campo. La distesa è selvaggia, con filari di piante che si allungano in modo all’apparenza scomposto. In realtà c’è un ordine preciso: metà estensione è curata, con potature studiate e continue; l’altra metà è mantenuta allo stato brado, «per vedere come agisce la natura quando la si lascia evolvere spontaneamente».
Il tipo di agricoltura attuata da Michele è improntato al minimo intervento possibile: nessun diserbante né fertilizzante, osservazione costante dei cicli naturali per aumentare risparmio idrico e fertilità del suolo. In questa pratica si ispira apertamente ai principi della permacultura, il metodo inventato in Australia negli anni Settanta dagli agronomi Bill Mollison e David Holmgren, che mira a riprodurre schemi e relazioni presenti in natura in modo da utilizzare i terreni senza consumarli, ottenere le produzioni necessarie permettendo all’ecosistema di rigenerarsi in continuazione. È anche per questo suo approccio che è stato scelto dal progetto Life come «azienda campione».
Portandomi per il campo, Russo mi decanta le virtù del fico d’India, «una pianta eccezionale contro la desertificazione». Mi spiega che questo frutto originario del Centro America, sacro agli aztechi e portato in Europa dallo stesso Cristoforo Colombo, ha una capacità incredibile di trattenere acqua e rilasciarla lentamente, risultando così adatto in modo particolare ai terreni aridi. «Io lo chiamo “il cammello della flora”.» Mi fa vedere come la conformazione delle piante favorisca la creazione di un microclima al loro interno, con temperature più basse e maggiore umidità, che consente lo sviluppo di altre specie sottostanti. Mi dice come all’inizio potava i rovi ma poi, osservando che questi non inibivano lo sviluppo dei cespugli di fico d’India, ha cominciato a lasciarli al loro posto. «Così ora, faccio anche marmellate di more.» Mi descrive la tecnica della «scozzolatura», che consiste nell’asportare i fiori di primo flusso e le pale più giovani in giugno, in modo da stimolare una seconda fioritura e un’allegagione più tardiva. «Questo permette di avere frutti più grossi e succosi per la maggiore abbondanza d’acqua in autunno, e anche più remunerativi in un periodo in cui in generale c’è meno frutta in vendita.» Mi racconta l’origine leggendaria di questo metodo ancestrale e ormai universalmente praticato in Sicilia, che sarebbe nato per caso da una lite di confine: «Un giorno, un agricoltore infuriato con il vicino distrusse con un bastone tutti i suoi fiori per impedirne la fruttificazione. Che invece fu solo ritardata e, per il più grande sconforto dell’aggressore, diede frutti migliori».
L’approccio di Michele mi ricorda «la rivoluzione del filo di paglia» alla base del progetto che ho visto nei vigneti delle Langhe: un’agricoltura fatta di azioni limitate, studiate e sempre in armonia con l’ambiente. Che non debilita i terreni ma li rinvigorisce continuamente, ed è quindi capace di portare avanti azioni concrete contro il rischio desertificazione. Questo è anche il senso del programma Life, che fornisce all’azienda di Russo il sostegno per realizzare alcune delle sue sperimentazioni. È la professoressa Quatrini a descrivermene gli obiettivi: «Il Life serve a sviluppare nuove tecniche e metodologie per aiutare a preparare queste terre e le comunità che le abitano ai cambiamenti climatici e contribuire al loro sviluppo socioeconomico, alla conservazione della biodiversità e al sequestro del carbonio». Per quest’agronoma viterbese trapiantata da anni in Sicilia, Michele è un pupillo, quasi un testimonial del progetto. «È il partner ideale perché già di per sé si muoveva in questa linea di pensiero. Spesso è lui a stimolare noi» dice ridendo.
L’auspicio è che l’azione dell’azienda Caudarella faccia scuola e si diffonda a macchia d’olio in un’area critica come questa, in cui il rischio desertificazione e l’abbandono delle campagne sono problemi all’ordine del giorno. «Piano piano stiamo seminando conoscenze» dice l’agricoltore. Che racconta soddisfatto come i vicini lo vengano spesso a trovare, per cominciare a imitarlo cambiando approccio. «Io ho una grande ambizione: quella di fare la sentinella ambientale, oltre che il semplice produttore di fichi d’India.»
Russo ha un approccio militante, nel senso più alto del termine. È parte attiva di un movimento di giovani contadini che fa della riscoperta della terra e di un modo diverso di coltivarla un punto di orgoglio. Vuole essere portavoce di un’agricoltura di riscossa, che si scrolli di dosso l’antica nomea di lavoro negletto e marginale, per rivendicare apertamente un ruolo primario non solo nella produzione di cibo ma anche nella preservazione dei nostri ecosistemi minacciati dall’incuria e dal surriscaldamento globale.
Perché è indubbio quello che dice Michele: gli agricoltori sono sentinelle ambientali. Sono loro a essere in prima fila nel contrasto ai cambiamenti climatici. Sono loro a subirne in modo evidente gli effetti e a pagarne direttamente il prezzo. Sono loro a conoscere meglio la situazione, perché la osservano giorno per giorno. L’ho visto attraversando tutta l’Italia, nei campi funestati dalle cimici asiatiche, tra i frutteti devastati dalle grandinate e dalle trombe d’aria, tra gli apicoltori che osservano con ansia la scomparsa dei loro preziosi insetti impollinatori. Ho visto scoramento e paura. Ma anche tanta voglia di reagire. Persino in posti apparentemente periferici, come questo campo di fichi d’India nella Sicilia profonda. Tornando in macchina verso Catania quando ormai è calata la sera, il professor Piccione è lapidario: «È vero, siamo in un bel casino. Ma con gente come Russo possiamo mantenere un po’ di speranza».