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Vaia, il vento che ha distrutto i boschi

Il paesaggio è livellato, i fianchi della montagna innaturalmente spogli. Dove c’erano alberi, ci sono solo fusti schiantati. Dove spiccava il verde, c’è il marrone-rossiccio della terra che si confonde con i cippi anneriti. I boschi sembrano reduci da un bombardamento a tappeto: migliaia di tronchi giacciono al suolo, accatastati senza ordine come stecchi di un gigantesco gioco di Shanghai. Le radici fuoriuscite dal terreno, rivolte al cielo, somigliano a braccia ferite che chiedono pietà.

A polverizzare questi boschi non sono stati gli esseri umani, ma la forza della natura. È successo tutto in una notte, quella tra il 29 e il 30 ottobre del 2018, quando la cosiddetta «tempesta Vaia» ha colpito con violenza inusitata: un vortice di venti che ha superato i 200 chilometri orari, travolgendo tutto quello che incontrava, soprattutto in Veneto, ma anche in Trentino, in Alto Adige, nella parte occidentale del Friuli e in quella nord-orientale della Lombardia. Ha sradicato i fusti dalle radici, facendoli letteralmente volare via e ripiegare su se stessi. Il bilancio finale somiglia a un bollettino di guerra: 41.000 ettari di boschi cancellati, 16 milioni di alberi, 8,6 milioni di metri cubi di legname abbattuti in pochi minuti. Il direttore del dipartimento della Protezione civile nazionale, Angelo Borrelli, ha usato un unico aggettivo per descrivere l’accaduto: apocalittico.

A un anno di distanza, i danni sono ancora visibili: le strade sono state sgomberate, ma i fianchi delle montagne portano evidenti i segni delle ferite. Molti dei versanti intorno alle valli sono un cimitero a cielo aperto di pini, abeti, faggi, accasciati là dove sono stati abbattuti dal vento. Come se il tempo si fosse fermato a quella notte. In verità, si è lavorato senza sosta per ridare una parvenza di normalità a questi pendii scorticati. Ma si tratta di un compito erculeo: le zone sono impervie, i numeri colossali. In molti casi non è stato possibile rimuovere i fusti. In altri si è deciso di lasciarli al loro posto perché, anche se caduti, rappresentano un argine contro possibili valanghe.

Rocca Pietore è l’epicentro della tempesta, il comune che ha contato il maggior numero di danni. I monti che circondano questo borgo del bellunese, adagiato su una strada che si inerpica verso il massiccio della Marmolada, sono un’ininterrotta spianata di alberi caduti. Qui il vento e l’acqua hanno colpito con insolita furia, sconvolgendo il paesaggio e compromettendo i luoghi più iconici della zona: il livello del lago di Alleghe, rinomato per le sue acque luccicanti, si è alzato di 2 metri a causa dei detriti e degli alberi finiti nel bacino. Poco più sopra i serrai di Sottoguda, il celebre canyon patrimonio dell’Unesco, sono spariti sotto un fiume di fango.

Siamo a inizio novembre e nevica da ore. I tronchi coperti dal manto bianco brillano di una luce fioca, quasi scomposta. Il paese è immerso in un silenzio irreale, come se l’intera comunità fosse ancora in raccoglimento a ricordare l’anniversario della tragedia, appena passato. Nell’aria aleggia un senso di impalpabile inquietudine: il timore ancestrale che la natura possa riesplodere con violenza pare mescolarsi alla precisa consapevolezza che ci vorranno anni perché tutto torni come prima.

«Qui in quei giorni sono scesi 700 millimetri d’acqua. Sono esondati ventiquattro torrenti su trenta che abbiamo nel nostro territorio. E sono caduti 600.000 alberi. Se tieni conto che qui abbiamo 1200 abitanti, fanno 500 alberi a testa, compresi i bambini.» Questi numeri da capogiro me li dà il sindaco Andrea De Bernardin, un uomo sportivo sulla cinquantina, fisico atletico da montanaro, il capello arruffato e lo sguardo cupo che porta ancora stampati i segni del trauma subito. Al solo ripercorrere il ricordo di quei giorni terribili, il suo volto si tinge di un bianco funereo. «È successo tutto verso le cinque di pomeriggio di lunedì 29 ottobre. Erano tre giorni che pioveva senza sosta, ma la situazione era gestibile. A un tratto, abbiamo sentito come un urlo. Era il vento che schiantava tutto. Una cosa mai vista prima.»

Dopo quell’urlo, si è scatenato l’inferno. L’acqua ha cominciato a cadere a cascate. Il vento ha sradicato alberi e tralicci. Le case hanno tremato. Per De Bernardin è un miracolo che non ci siano state vittime. «Nella provincia è stata diramata un’allerta rossa esortando tutti a non uscire.» E tutti sono rimasti tappati in casa, ad ascoltare impauriti la furia degli elementi. Nel frattempo, Rocca Pietore restava isolata. I telefoni hanno smesso di funzionare. La luce è saltata. La rete Internet è finita fuori gioco. Solo il giorno dopo ci si è resi conto dell’entità dei danni. Il sindaco racconta di come alle prime luci dell’alba abbia visto gli alberi abbattuti, i tralicci della luce divelti, le strade inondate di fango e intasate dai tronchi. È riuscito ad andare a piedi più a valle e a coordinarsi con gli altri comuni colpiti, in uno sforzo che ancora oggi gli appare prodigioso. «C’è stata la partecipazione di tutti, con un’abnegazione straordinaria. Nessuno si è pianto addosso, per tutti i giorni dell’emergenza.»

E l’emergenza non è durata poco: il comune è rimasto a lungo senza elettricità e per ben ventitré giorni senz’acqua corrente, perché la tempesta aveva rotto l’acquedotto e spazzato via una piccola diga che c’è sopra il paese. «È stato come un mini Vajont» dice De Bernardin azzardando un paragone che da queste parti non si fa a cuor leggero: siamo a poco più di 50 chilometri dal luogo dove nel 1963 è crollata la famosa diga, trascinando con sé interi villaggi e la vita di quasi duemila persone. Come sottolinea il sindaco, fortunatamente la tempesta Vaia qui non ha provocato morti: le tre vittime di Vaia sono state in Trentino e nel Feltrino. Ma ha comunque segnato un territorio intero, che ancora fatica a riprendersi.

Il comune di Rocca Pietore ha subito danni per 110 milioni di euro, su un totale di quasi un miliardo e mezzo per l’intero Veneto. I soldi sono stati stanziati, i primi interventi d’emergenza sono stati fatti. Ma si tratta di un’opera di ripristino immane, che richiederà anni. «Siamo stati molto rapidi nella prima azione. Ora dobbiamo gestire tutti i pericoli correlati a un territorio sconnesso, che non presenta più le caratteristiche di prima.» Sui monti che circondano il paese, i tronchi caduti incombono minacciosi. Il sindaco sa che se viene giù troppa neve e se questa supera l’altezza degli alberi a terra, il rischio slavine diventa altissimo. «Siamo pronti a diramare ordini di evacuazione. Io stesso sono coinvolto perché la mia abitazione è proprio in mezzo a un’area a rischio.»

Fuori continua a nevicare. Sono fiocchi lievi, quasi impercettibili. Ma De Bernardin è preoccupato. Nelle due ore che passiamo insieme, guarda ossessivamente le previsioni meteo sul cellulare. Mentre mi racconta di Vaia, della reazione della sua comunità, dei lavori che si sono fatti e di quelli che sono stati messi ad appalto, vagola fra i siti, cercando di fare una sorta di media matematica tra le previsioni più allarmanti e quelle più rassicuranti. Per il weekend successivo, è prevista una perturbazione di una certa intensità, che potrebbe far tracimare il livello della neve. «È diventato una specie di tic. Guardo il meteo in modo compulsivo, da quando mi sveglio la mattina a quando vado a dormire. La mia vita è cambiata per sempre.»

De Bernardin riveste il suo ruolo di leader un po’ controvoglia. Sono undici anni che è sindaco. Dopo due mandati, pensava di lasciare la mano. Ma poi è arrivata Vaia e alle elezioni successive non se l’è sentita di abbandonare la sua gente. Era ormai diventato il punto di riferimento di una comunità ferita, che non si è fatta abbattere ma anzi si è rimboccata le maniche.

Questi sono territori in cui non è facile vivere. Sono aree di montagna, sempre a rischio spopolamento, tanto più ora che l’economia turistica su cui si reggono è in parte compromessa dai danni della tempesta. «Io temevo che dopo Vaia la gente decidesse di abbandonare. Di andare in pianura. Invece, abbiamo dimostrato che le opere si possono fare. Abbiamo ricostruito un acquedotto in altura in ventitré giorni, chiudendo il cantiere diciassette giorni prima del previsto.» Il sindaco è fiero e addolorato al tempo stesso. Non dorme più come prima. E cerca di scacciar via la paura che una nuova Vaia – o qualcosa di simile – si abbatta contro il suo fragile comune. «Statisticamente è quasi impossibile. Questi sono eventi che si verificano con tempi di ritorno centenari» dice cercando di convincere se stesso mentre guarda ancora una volta il meteo sul cellulare.

Il racconto millenario dei boschi fragili

Non sono venuto quassù da solo, ma insieme a una guida preziosa e competente. Già tenente colonnello dei carabinieri, esperta di boschi, alpinista e fervida ambientalista, Paola Favero è una ex forestale dai molteplici interessi. Oltretutto, è un’instancabile divulgatrice: a questi luoghi ha dedicato testi naturalistici, racconti per ragazzi, articoli e conferenze. Da poco ha scritto, insieme all’oceanografo Sandro Carniel, un libro proprio su Vaia e su come quanto accaduto qui ci dica molto a proposito del clima che cambia e di quello che verrà.19

È con lei che mi avventuro in una lunga ricognizione attraverso le valli e i versanti colpiti dalla tempesta nella provincia di Belluno. Partiamo da Ponte Mas, il luogo simbolo dove il fiume esondato ha sradicato una casa lasciandone un’altra intatta a penzoloni sullo strapiombo, e ci inoltriamo tra i paesaggi incantevoli e feriti dell’Agordino, del Cadore, più in basso del Feltrino.

Paola è una donna di terreno. Di queste zone conosce ogni angolo, sia per il lavoro che ha fatto per una vita – è andata in pensione da poco – sia per la sua passione di escursionista ed esploratrice. È stata lei all’inizio degli anni Novanta a fare la scoperta sensazionale di un «bosco vetusto», una sorta di miniforesta primaria sul Col Nero, nella riserva naturale di Somadida, non lontano da Misurina. «Un giorno mi sono imbattuta quasi per caso in quell’ambiente incredibile, sviluppato naturalmente senza intervento umano, con piante che avevano anche seicento anni» mi dice con gli occhi che le si gonfiano di orgoglio.

Appena parla di Vaia invece si incupisce. Raccontare del vento che ha tramortito per sempre questi suoi luoghi la riempie di tristezza. «Quando, all’indomani della tragedia, ho visto cosa era successo, sono rimasta sgomenta.» Non è però piombata nel pessimismo. Lo sgomento si è trasformato in stimolo per entrare in azione. Dal giorno della tempesta, Paola ha deciso di dedicare ogni sforzo alla sua attività di divulgazione. Ha lasciato il corpo e cominciato a girare l’Italia per parlare di quello che è accaduto qui e di quanto questo sia un sintomo inequivocabile di un mutamento significativo che avrà enormi impatti sulla vita di tutti noi. «Siamo di fronte a qualcosa di assolutamente nuovo» mi dice mentre mi indica i tipi di alberi caduti, i diversi sistemi silvicoli e i vari modi in cui questi hanno reagito alla tempesta. «Qui sono scomparsi ecosistemi centenari. Non solo i boschi monospecifici, per loro natura più fragili, come quelli di abeti rossi dell’Altopiano di Asiago. I venti a quella velocità hanno spazzato via tutto, anche alberi con radici più solide e profonde, come i larici o i pini cembri. Sono scomparsi i boschi magnifici della Val di Fiemme, quelli da cui Stradivari e i maestri liutai cremonesi attingevano la legna per i loro violini. O quelli della Val Visdende, che la Serenissima curava in modo quasi maniacale perché da qui traeva la materia prima per costruire Venezia.»

Se tempeste di questa portata si verificano ogni tanto al di là delle Alpi – nel 1999 l’uragano Lothar tra Germania, Francia e Svizzera ha prodotto danni venti volte superiori a quelli di Vaia –, da noi si tratta di qualcosa di inedito. Paola ha spulciato gli archivi, ha letto le dettagliate relazioni della Repubblica di Venezia, persino le cronache più antiche di epoca romana, alla ricerca di qualche traccia di eventi simili. Non ha trovato nulla, non un cenno a un evento minimamente paragonabile. «I veneziani erano molto meticolosi, erano abituati a segnare qualsiasi cosa. Ne avrebbero parlato.»

Ma, al di là delle sue perlustrazioni da storica amatoriale, le grandi piante secolari le avevano già dato la risposta che cercava. «Se sono crollati fusti vecchi anche trecento anni, significa che mai erano stati esposti a venti di quell’intensità.» Quando parla degli alberi, Paola quasi si commuove. Sembra credere in una sorta di alito della natura, di respiro collettivo dei boschi, come se questi fossero effettivamente abitati da quei «geni del bosco Vecchio» protagonisti del famoso racconto di Dino Buzzati,20 che era nato proprio da queste parti. Il legame viscerale, quasi intimo, con questi ambienti distrutti emerge di continuo durante la nostra lunga esplorazione. A ogni valle dove ci fermiamo per vedere i segni del disastro confronta quello che era prima e quello che è – o non è più – adesso. Mi descrive il «taglio cadorino», cioè saltuario e mirato per non indebolire l’ecosistema, che da secoli si pratica nella riserva di Somadida e che lei è riuscita a mantenere quando era a capo della forestale. Mi spiega nel dettaglio le differenze tra le tipologie di bosco nei vari territori, assai poco evidenti per me che vengo dalla pianura.

Ma il trasporto con cui racconta e analizza non vuole essere mera testimonianza, né ripiegamento nostalgico su un passato stravolto per sempre. Se Paola scrive i suoi libri e va in giro a parlare della sua esperienza, se mi accompagna per questi luoghi, è perché crede che Vaia sia stata un paradigma, una sorta di manifestazione esantematica di una malattia molto più profonda e potenzialmente nociva. «Questi ecosistemi si sono evoluti nel corso di milioni di anni entrando in equilibrio con tutti i fattori climatici, come le temperature, gli apporti nevosi, la presenza o l’assenza di acqua e i venti. Quello che è accaduto è che uno di questi fattori climatici, cioè il vento, è andato fuori range, cioè ha assunto comportamenti diversi da quelli che ha avuto per milioni di anni. E l’ecosistema non è stato in grado di assorbire la botta.» Paola non ha dubbi: questi alberi caduti devono essere presi come un monito, un avvertimento tragico sugli effetti dei cambiamenti climatici, con cui saremo chiamati sempre di più a fare i conti. «Da anni, camminando nel bosco vedevo che il suolo era più secco, più disgregato. Sentivo l’ecosistema in sofferenza. Il clima che muta ha conseguenze su tutto l’ambiente. Ma chi è in città ha una percezione ridotta di questi fenomeni, perché vive in una bolla.»

Da questa convinzione Paola ha tratto le linee guida per la sua azione. Per scrivere il suo libro ha coinvolto una truppa di ricercatori e specialisti. Insieme al coautore Carniel, ha chiesto pareri e interventi di climatologi, botanici, micologi, entomologi. Ha radunato un vero e proprio gruppo di lavoro, che le ha fornito gli strumenti e la griglia interpretativa per i suoi interventi, le sue conferenze, la sua opera di sensibilizzazione. Da quando è andata in pensione, è al servizio di questa causa: raccontare, sensibilizzare, sollecitare alla riflessione. È una specie di soldatessa sul fronte del cambiamento climatico. Dal suo osservatorio dei boschi fragili, Paola mi ripete la stessa cosa che mi hanno descritto scienziati, studiosi, agricoltori, pescatori che ho incontrato in giro per l’Italia. I cambiamenti a cui stiamo assistendo stanno avvenendo a una tale velocità per cui gli ecosistemi perdono la propria resilienza, la capacità millenaria di adattarsi alle mutate condizioni dell’ambiente in cui vivono. «Gli unici che si mostrano resilienti» dice con una punta di sarcasmo, rovesciando il significato stesso della parola «sono gli esseri umani, che continuano a comportarsi come se nulla stesse accadendo, ignorando i segnali che manda loro la natura.»

Il maestro delle piante e dei fiori

Uno dei più autorevoli componenti del gruppo messo insieme da Paola Favero è il botanico Cesare Lasen, primo presidente del Parco nazionale delle Dolomiti Bellunesi e oggi membro del comitato scientifico della Fondazione Dolomiti Unesco. Lo andiamo a trovare a fine giornata nella sua casa vicino a Feltre, una villetta con giardino un po’ appartata da cui si gode una vista spettacolare sul tramonto autunnale. Cesare è un uomo esile, di un garbo antico, che parla a voce bassa soppesando accuratamente ogni parola. È una pura creatura dolomitica, nella duplice connotazione che tale definizione può assumere: solido e infrangibile dietro un’apparente delicatezza, ha la stessa muta autorevolezza di una cima rocciosa. Con Paola si vedono e si sentono spesso. Partecipano a gruppi di lavoro comuni, fanno conferenze insieme. Ed è curioso vederli interagire: quanto lei è irruente, abitata da una foga e da un iperattivismo che le derivano dalla sua passione civile, tanto lui è posato, riflessivo, imbevuto di una serenità olimpica che traspare da ogni parola che pronuncia, da ogni gesto che fa.

Lasen vive immerso in questi luoghi, dove è nato settant’anni fa in una casa ancora più isolata, «senz’acqua né energia elettrica, neanche una strada asfaltata ci arrivava», in una frazione di una frazione di Feltre di cui incidentalmente porta anche il nome. Dopo un breve soggiorno a Milano negli anni Settanta, è tornato da queste parti. E non si è più mosso, impegnandosi in un’opera di insegnamento e divulgazione, ma soprattutto di contatto con l’ambiente, che incessantemente osserva e cataloga. Da anni raccoglie esemplari di fiori e piante, per poi seccarli e inventariarli in una serie di quaderni, che non sono solo oggetto della sua ricerca scientifica, ma anche testimonianza concreta del suo rapporto intimo con la natura.

Questo suo vivere in contiguità con la terra lo avvolge di un’aura quasi mistica. Sembra capace di entrare in sintonia, se non addirittura in aperta comunicazione, con l’universo vegetale: delle piante parla usando termini come «comunità», «colonie», «famiglie», in opposizione al mondo della fauna, per sua stessa conformazione più individualista. A sentirlo parlare, emerge un’ammirazione incontestabile per il sistema di organizzazione di alberi e boschi, come se questi fossero strutturalmente orientati a perseguire quel bene comune che l’essere umano pare invece aver perso di vista.

Anche per Lasen, come per Paola Favero, Vaia è stata uno strazio. Vedere i boschi magnifici delle sue Dolomiti collassare su se stessi gli ha provocato un dolore profondo. «Ma paradossalmente la tempesta può diventare un’opportunità» mi dice spiazzandomi. Poi spiega: «Quanto successo può stimolarci a ripensare il sistema di gestione del nostro patrimonio silvicolo e più in generale il modello di sviluppo prevalente». Il botanico non si sofferma sulle cause; il passato è passato. La tempesta è arrivata e ha fatto i danni che tutti sappiamo. Ora bisogna guardare avanti e decidere cosa fare. Perché il futuro ci dirà che tipo di rapporto vogliamo avere con il territorio e con quegli scrigni di biodiversità che sono i nostri boschi. Lasen insiste sulla differenza tra le esigenze del paesaggio, che si offre ferito e sventrato all’occhio umano, e che pertanto esorta a un intervento quanto più tempestivo, e quelle della natura, che ha modalità e dinamiche diverse, altrettanto se non più importanti. Secondo lui, se la fase dell’emergenza è stata gestita in modo eccelso, sarebbe ora più opportuno avere un approccio il meno interventista possibile: non procedere con piantumazioni artificiali, ma lasciare che la natura faccia il suo corso, riconquisti i territori, trovi un suo equilibrio. «Ovviamente bisogna valutare sito per sito, versante per versante. Capire dove esiste un rischio di valanghe, dove è necessario ristabilire la viabilità secondaria. Ma è utile mantenere un approccio dinamico: nella sua tragicità, la tempesta Vaia è un’occasione unica per progredire nel campo della pianificazione e del monitoraggio, anche nel contesto attuale dei cambiamenti climatici.»

Da botanico e creatura dolomitica, Cesare osserva i segnali del mutamento. Parla di innalzamento progressivo del limite del bosco, di arrivo di specie nuove da ambienti più caldi. E della maggiore incidenza di fenomeni estremi come Vaia. Pensa che il cambiamento sia graduale ma inarrestabile e per questo richieda di agire con sollecitudine. «In generale, credo che i nuovi scenari climatici ci impongano di rivedere il nostro stile di vita. E anche ripensare al modo in cui è stata vissuta la montagna negli ultimi decenni, vista soltanto come area di estrazione per beni destinati ai consumi urbani (legname, acqua, materie prime varie) o al massimo deputata a mere attività ricreative, da sfruttare quindi piuttosto che da proteggere.» Lasen auspica un mutamento di rotta, un’inversione a 180 gradi, verso un’epoca di maggiore sobrietà e minori consumi, verso una relazione più armonica e attenta con l’ambiente. «Bisognerebbe ribaltare quelle logiche consumistiche che stanno mettendo in evidenza le intrinseche criticità del sistema, a partire dalla presunzione che le risorse naturali siano illimitate.»

Per il momento, il suo messaggio non sembra trascinare le folle. Mentre lo ascolto prefigurare nuove sobrietà e un rapporto più equilibrato con la natura e con la montagna, mi torna in mente un’immagine che solo qualche mese fa mi ha profondamente turbato. Ero proprio da queste parti. Per festeggiare il Capodanno, avevo raggiunto un caro amico che ha una casa a poca distanza da quella di Cesare. Un giorno abbiamo deciso con le famiglie di fare un giro e portare i ragazzi a sciare. Siamo partiti in macchina di buon mattino. Attraversando le valli colpite da Vaia, ho visto per la prima volta la devastazione causata dalla tempesta, quei cimiteri di alberi caduti che mi sarebbero in seguito diventati così familiari. Arrivati a San Martino di Castrozza, abbiamo constatato che la maggior parte degli impianti era chiusa per vento. Allora abbiamo raggiunto l’unica pista operativa a fondo valle: il parcheggio era pienissimo, l’attività ferveva. Intorno allo skilift c’era una lunga fila. Poiché non era caduta neve nei giorni precedenti (né in realtà per tutta la stagione), i cannoni sparavano a tutto spiano. C’era quell’atmosfera sintetica e triste che invariabilmente trasmettono gli impianti artificiali: la striscia bianca srotolata come un telone di plastica sulla collina brulla, gli sciatori che andavano su e giù con gesti ripetitivi e stanchi, i gatti delle nevi arenati ai lati come simulacri di astronavi decadenti. Sembrava di assistere al fiacco svolgersi di un divertimento artefatto. Ma qualcos’altro rendeva lo spettacolo tanto innaturale da risultare grottesco, quasi insopportabile. Tutt’intorno alla pista giacevano cumuli di alberi schiantati dalla tempesta. La musica esplodeva a palla dagli altoparlanti e riecheggiava in modo del tutto incongruo su quel paesaggio lacerato. Siamo rimasti qualche minuto a osservare le persone sciare senza curarsi del disastro che le sovrastava. Abbiamo scattato qualche foto e siamo andati via. Riguardando oggi quegli scatti, penso agli sforzi di Paola Favero, alle parole sagge e misurate di Cesare Lasen, al messaggio che secondo loro i boschi caduti hanno voluto mandarci e mi viene da pensare che abbiamo ancora molta strada da fare per superare il nostro senso di indifferenza nei confronti di mutamenti devastanti che ci si palesano di fronte agli occhi ma che ci ostiniamo a non guardare.

Cinque fenomeni estremi al giorno

La tempesta Vaia è stata la manifestazione più eclatante di una mega-perturbazione che in quei giorni ha colpito tutto il Nord Italia. Si è trattato di un vero e proprio tifone, generato da una vasta area di bassa pressione, che ha prodotto mareggiate sulle coste della Liguria, distruggendo il porto di Rapallo e isolando a lungo la località di Portofino. E che è all’origine di quell’ondata di acqua alta a Venezia che Anna Toscano e Gianni Montieri mi hanno descritto nel loro salotto prima di essere travolti dalla nuova marea straordinaria.

Queste tempeste e questi venti eccezionali sono il risultato diretto dei cambiamenti climatici? «È difficile affermarlo con certezza» mi risponde Antonello Pasini usando la necessaria cautela dello studioso. «Ma è sicuro che il riscaldamento del mar Mediterraneo libera una maggiore quantità di energia nell’atmosfera e aumenta la possibilità che si verifichino eventi di questo tipo.» Questo fisico del clima del Cnr mi tiene un’accurata lezione su dinamiche dell’atmosfera, andamento di cicloni e anticicloni, tornadi e super-celle, confermandomi quello che mi aveva già detto Gianmaria Sannino all’Enea dal punto di vista dello studioso dei mari. Il Mediterraneo si sta scaldando più velocemente degli oceani. Sta aumentando di volume e al contempo liberando calore che rende più probabili i fenomeni estremi. Questo spiega la maggiore incidenza di eventi prima rari sui nostri territori: grandinate di dimensioni inusuali, piogge tropicali, venti devastanti, come appunto quello che ha spazzato via i boschi del Nord-Est.

La tempesta Vaia dell’ottobre 2018 ha avuto un’eco enorme, così come l’acqua alta a Venezia del novembre 2019. Per il loro impatto, l’entità dei danni, l’alto valore simbolico, questi due episodi hanno attirato l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. Ma sono solo la punta di un iceberg ben più imponente. Il nostro Paese è sempre più soggetto a questo tipo di accadimenti. «Il surplus di energia presente nell’atmosfera non può che scaricarsi con violenza sul territorio: fenomeni che un tempo erano gestibili diventano così più devastanti» mi dice Pasini, ripetendomi poi la stessa frase pronunciata da Sannino all’Enea. «L’Italia e il Mediterraneo sono un “hotspot climatico”, un luogo dove gli effetti del riscaldamento globale si misurano in modo maggiore che altrove.»

Per verificare quanto siamo effettivamente al centro di un hotspot, mi affido a un database europeo che registra i cosiddetti «eventi estremi»: tornado, piogge torrenziali, grandinate eccezionali, tempeste di neve, valanghe. Si chiama European Severe Weather Database (Eswd), è accessibile a tutti su Internet e consente di fare ricerche avanzate per singole nazioni e per specifici intervalli temporali.21 Focalizzo la mia attenzione sull’Italia e sull’anno appena trascorso: nel 2019 ci sono stati 1665 eventi classificati come «estremi», quasi cinque al giorno. Si tratta perlopiù di fenomeni circoscritti ad aree geografiche limitate e che quindi raramente hanno guadagnato rilevanza sulla stampa nazionale. Mi sembra comunque un numero enorme. Confronto allora il dato italiano con quello di Paesi simili a noi per estensione, la Spagna e il Regno Unito. Vedo che in tutto il 2019 nella prima si sono verificati 282 eventi estremi, nel secondo 240, l’85 per cento in meno rispetto all’Italia. Provo allora ad allargare la ricerca su una serie temporale più lunga, spalmata su vent’anni. Registrando il numero di fenomeni estremi nei tre Paesi dal 1999 a oggi, noto in tutti i casi una curva ascendente. Con una non trascurabile differenza: rispetto agli altri, da noi questa linea ha una crescita molto più marcata negli ultimi anni. Senza entrare nei dettagli tecnici, citerò qui i risultati di due anni di riferimento, presi come benchmark decennali: il 2009 e il 1999. Il risultato è il seguente: in Italia nel 2009 si sono verificati 328 eventi estremi, in Spagna 310, nel Regno Unito 79. Nel 1999, in Italia se ne sono registrati 21, in Spagna 25, nel Regno Unito 33. Cosa ci raccontano questi numeri? La prima considerazione è che il fenomeno sta crescendo ovunque. A questa affermazione si può obiettare che forse si stanno semplicemente affinando gli strumenti di rilevamento, soprattutto attraverso segnalazioni che le tecnologie digitali rendono più facili. La seconda considerazione – che è invece incontrovertibile e in un certo senso inquietante – è la seguente: il nostro Paese, che prima registrava numeri simili a quelli dei suoi omologhi europei, è oggi nettamente in pole position. Si trova nell’occhio del ciclone.

Quanta consapevolezza c’è nell’opinione pubblica di detenere questo poco invidiabile primato? Tutti questi eventi estremi, con la loro accresciuta incidenza, vengono di norma etichettati come effetto di un generico «maltempo». Il che di per sé non è errato, ma in un certo senso trascura le cause e ignora il contesto in cui tali fenomeni avvengono. Se il vento, la pioggia, il caldo si abbattono in modo sempre più devastante sui nostri territori è perché sono cambiati i modelli climatici. È sempre Pasini a spiegarmi da fisico dell’atmosfera quali sono le principali novità degli ultimi anni. Innanzitutto è praticamente scomparso l’anticiclone delle Azzorre, che portava stabilità sui nostri territori. Quello che una volta era l’eroe delle nostre estati, che garantiva bel tempo e temperature abbastanza fresche, si è spostato più a nord, seguendo l’andamento delle temperature in rialzo degli oceani. E ha lasciato spazio alla risalita di anticicloni africani provenienti dal Sahara, quindi più caldi. Sono loro i responsabili delle estati sempre più roventi, con prolungate ondate di calore a cui ci stiamo abituando negli ultimi anni, ma anche dell’estremizzazione di altri fenomeni, determinata proprio dal maggior differenziale di temperatura e dalla maggiore quantità di energia termica nell’atmosfera. Il tanto decantato «clima mediterraneo» sta insomma perdendo la sua mitezza e i caratteri che lo rendevano unico. E sta assumendo connotati più vicini a quelli di climi tropicali.

A questo punto Pasini mi parla dei cosiddetti «Medicane». Questo termine tecnico, che una volta era usato solo dagli studiosi ma che oggi compare sempre più frequentemente sui media, è una contrazione delle parole «Mediterranean» e «Hurricane», ed è usato per designare i cosiddetti «uragani mediterranei», tifoni con venti molto sostenuti che si originano sul mare e possono colpire con violenza anche le coste.

L’innalzamento della temperatura non fa aumentare solo l’incidenza, ma anche e soprattutto la potenza di questi fenomeni. Su questo aspetto il fisico ha condotto un esperimento. Insieme al collega Mario Marcello Miglietta, ha studiato un tornado che ha colpito la città di Taranto nel novembre del 2012 con violente mareggiate, causando un morto e 60 milioni di euro di danni. Ne ha quindi considerato lo sviluppo attraverso un modello che presupponeva temperature superficiali del mare diverse.22 All’epoca dell’evento, la temperatura dello Ionio era circa un grado superiore rispetto alla media climatologica del periodo. «Abbiamo effettuato degli esperimenti modellistici, andando a modificare la temperatura del mare di più e meno un grado rispetto a quella osservata, nell’ambito di nuove simulazioni. Queste ultime hanno evidenziato che con un grado in meno (ovvero con la temperatura della superficie del mare pari alla media climatica di fine novembre) il tornado non si sarebbe sviluppato. Al contrario, aumentando la temperatura di un grado, sarebbe stato molto più intenso.» Questo è quello che probabilmente accadrà nei prossimi anni: a causa dell’aumento della temperatura del mare, gli uragani mediterranei colpiranno il nostro Paese in modo sempre più forte e con effetti dirompenti.

Quanto siamo attrezzati ad affrontare questa situazione di maggiore intensità dei fenomeni? Se in effetti poco si può fare quando arrivano venti distruttivi come quelli di Vaia, è indubbio che i nostri territori saranno chiamati sempre più a adattarsi a un clima che diventa estremo. Cosa che al momento è ancora lungi dall’avvenire, come dimostra la cronaca quasi quotidiana di smottamenti, valanghe, crolli di infrastrutture determinati anche da manifestazioni climatiche fuori dall’ordinario. Pasini ha coniato in proposito una formula molto efficace, quella di «equazione dei disastri».23 La sommatoria di tre fattori – l’accresciuta virulenza degli eventi meteo-climatici, la fragilità del territorio italiano e l’esposizione delle nostre case e dei nostri beni – amplifica gli effetti del cambiamento climatico, rendendo il nostro Paese particolarmente vulnerabile, con un conseguente incremento dei costi umani ed economici. Una stima precisa è difficile da fare, perché bisogna tener conto di diversi elementi e perché gli effetti seguono un andamento parabolico, cioè aumentano in modo non lineare rispetto all’aumento di intensità.

In un recente rapporto, l’Agenzia europea per l’ambiente ha calcolato i danni provocati dagli eventi estremi dal 1980 al 2017. In totale, l’Unione Europea ha subito impatti computabili per 426 miliardi di dollari. Tra tutti i ventotto Paesi, il nostro è stato, dopo la Germania, il più toccato: ha avuto danni per 64,6 miliardi di dollari.24

Il fatto di trovarsi al centro di un hotspot climatico ci pone di fronte alla necessità di rivedere tutto il modello di gestione del territorio, come auspica Cesare Lasen per quanto riguarda la montagna. O come mi ha detto il professor Paolo Pileri, artefice della pista ciclabile sul Po e instancabile alfiere della battaglia contro il consumo di suolo. O come esorta lo stesso Pasini, che di mestiere fa altro e si limita a indicare i rischi connessi all’estremizzazione del clima. Ripensare le nostre città e le nostre campagne, il rapporto con l’ambiente, la rete infrastrutturale, nonché gli assiomi del modello produttivo e agricolo è la sfida enorme a cui siamo chiamati. Una sfida difficile ma non impossibile, a cui dovremo concorrere tutti, come cittadini, rappresentanti dei comparti produttivi, forze sociali e soprattutto esponenti politici, con la sollecitudine che richiede l’urgenza della situazione.