Postfazione del curatore
Avevo con me parecchie foto, mappe, punte di lancia in pietra, un pezzo di sale, grosso come un pugno. Ho sparpagliato ogni cosa sul tavolo della trattoria e ho raccontato ai miei amici la spedizione con Reinhold Messner.
Ci eravamo aggregati a una carovana del sale dei tuareg, che nonostante i TIR e gli aeroplani ancora attraversano a dorso di cammello gli spazi enormi del Sahara. Per due settimane avevamo solcato il mare di sabbia del Ténéré, sempre uguale a se stesso, dune gialle sotto un cielo blu lucente – quando il tempo è buono. Ma spesso avevamo avvertito sulla faccia il vento freddo del nord che smorza i colori uniformandoli in un grigio spento, che riempie gli occhi di sabbia, fino a farli lacrimare per il dolore. Ogni giorno abbiamo cavalcato o camminato senza interruzione dall’alba al tramonto. Era la carovana a dettare il tempo, il passo allungato dei cammelli dava il ritmo adeguato a questo paesaggio dominato dal nulla, senz’acqua e vegetazione.
Avrei potuto proseguire per ore, ma il mio pubblico era sì interessato alla mie descrizioni etnografiche, ma più ancora a una domanda di tutt’altro genere: «Ma com’è questo Messner? Non dev’essere un tipo facile!»
La domanda mi viene posta con una certa regolarità. Sono considerato un «esperto» in materia, dato che ci conosciamo da vent’anni, abbiamo viaggiato in tanti paesi e ho scritto parecchio su di lui.
Nell’opinione pubblica si è consolidata l’immagine di un egocentrico che agisce obbedendo al motto: «Molti nemici, molto onore», uno che polarizza l’attenzione e sfrutta ogni occasione per attaccare l’avversario. Messner viene considerato una specie di provocatore infaticabile che, contrariamente alla maggior parte dei suoi contemporanei, non è giunto a patti con le istituzioni, che siano i club alpini o gli ambienti politici altoatesini.
Lo stesso sembra si possa dire sul piano privato. I delusi da Messner, da Peter Habeler ad Arved Fuchs fino a Hans Kammerlander e ai «compagni» del Nanga Parbat, hanno contribuito alla creazione dell’immagine di un uomo di successo privo di scrupoli.
Per molto tempo Messner è stato amato dai media, che hanno enfatizzato le sue azioni spettacolari sulle prime pagine dei giornali. Ora invece è più di moda prendere le distanze da lui, la leggenda dell’alpinismo. Del resto, la diffusione delle notizie sembra rispettare la regola formulata a suo tempo dallo scrittore latino Tacito: accogliamo con favore tutto ciò che è negativo, perché ha l’apparenza della franchezza, mentre la lode nasconde l’accusa dell’essere asservito.
Chi e cos’è in realtà Reinhold Messner?
Nella sua autobiografia, La libertà di andare dove voglio, e poi nella sua retrospettiva La mia vita al limite, Messner è diventato il narratore della sua stessa vita. È forse questa la risposta alla domanda? Non ha quindi già raccontato tutto quello che vorremmo sapere di lui?
Dal punto di vista dello storico la risposta è no. Nulla è più complesso, nel campo della ricerca delle fonti, della propria memoria. Questo vale non solo per Messner, ma anche per i suoi lettori e ascoltatori. Max Frisch diceva che un uomo fa un’esperienza, poi cerca di raccontarla in modo adeguato. Chi oggi viene a contatto con Messner durante le conferenze, in televisione, in pubblico, lo vede all’apice della sua gloria, legge la sua vicenda a ritroso come la logica ascesa verso il successo. Ma non è sempre stato così.
Negli anni Sessanta c’erano molti bravi arrampicatori. L’affermazione secondo cui la tragica spedizione alla parete Rupal del Nanga Parbat, durante la quale morì Günther, fratello di Messner, avrebbe dato il «la» alla sua carriera di alpinista fuoriclasse, è una vera stupidaggine. Ed è fuori discussione che la sua famosa salita dell’Everest senza ossigeno avrebbe potuto provocare quei danni cerebrali che il partner di Messner, Habeler, temeva.
Per quanto così non appaia, questo «cursus» era programmato, e sarebbe potuto terminare in qualunque momento, sia sul piano esistenziale – basti pensare al volo quasi mortale di Messner in un crepaccio sul versante nord dell’Everest, nel 1980 – come anche sul piano finanziario – l’acquisto di Castel Juval fu proprio quello che pensava suo padre: un’avventura non valutabile.
Pensiamo anche ai cambiamenti in questa esistenza. Mai tematizzati, perché tutto andava bene e quindi si giustificava da sé, ma comunque presenti. Sarebbe stato ragionevole immaginare che un alpinista non più giovane, che ha da tempo alle sue spalle le imprese più eclatanti, si trasformi in formidabile attraversatore di deserti e di distese polari? E poi, che Messner, anche a carriera «attiva» conclusa, sarebbe stato ricercato come conferenziere, nonché intervistato su qualunque questione in ambito alpinistico? La sua scelta di diventare eurodeputato, la realizzazione dei suoi musei: tutto facile, perché si chiama Messner?
Messner non può rispondere alla domanda dei miei amici, anche se volesse. Infatti, quando cerchiamo di osservare noi stessi, ci siamo d’intralcio. Quindi è necessario uno sguardo esterno.
Ognuna delle sue imprese al limite – gli ottomila, i deserti di sabbia o di ghiaccio, o le ricerche sulle tracce dello yeti – ha suscitato un enorme clamore mediatico. Anche in seguito è stato spesso intervistato come uomo politico al Parlamento europeo, come ideatore della Messner Mountain Foundation, come trainer di manager, infine come ideatore e gestore dei suoi musei della montagna. A volte il tono è stato discutibile, come nel dibattito, condotto con durezza e astio, intorno a una sua eventuale responsabilità per la morte del fratello Günther.
Le interviste più importanti della sua vita – una ricerca costante del limite –, sono riassunte in questo volume: da giovane arrampicatore libero che con le sue tesi rivoluzionò l’arrampicata, a soggetto «estremo» che vedeva se stesso come il «Re Sole», fino al «Vecchio della montagna» che riunisce in Alto Adige il suo lascito alpinistico in un «museo diffuso».
Leggendo viene a galla il filo rosso di questa vita, ma si evidenziano anche i cambiamenti. Ci sono motivi che ritornano, ad esempio la sua lotta decennale a favore di un alpinismo «corretto», il suo ribadire che un alpinismo privato dei pericoli sarebbe una contraddizione in termini, la sua arringa a favore delle zone protette nelle regioni montane, il principio dell’assunzione di responsabilità. Possiamo osservare Messner che si reinventa, che non resta legato all’esperienza portata dall’età, bensì rimette in gioco i diversi aspetti della sua personalità come scrittore, agricoltore biologico, collezionista d’arte, committente, conferenziere o fondatore di musei. Che una vita così piena possa risultare faticosa per gli altri, traspare spesso dalle risposte a domande fin troppo ingenue. Quando si hanno grandi programmi si è impazienti.
Le interviste del periodo che va fino a circa il 1980 si svolgono sullo sfondo delle sue spedizioni più note, iniziate con il Nanga Parbat e proseguite fino all’Everest. Per il lettore che conosce poco Messner vengono presentate in brevi resoconti, con lo spirito del Messner di allora, non di oggi.
Se nel primo terzo del libro predomina l’alpinista, le altre due parti del volume sono dedicate alle sue attività di «camminatore», ricercatore, agricoltore di montagna, politico e consulente di manager. Non è stata nemmeno tralasciata la discussione con i «compagni di cordata» della spedizione del 1970, che inizia con i primi attacchi del 2002 e si protrae fino alle ultime interviste del 2005, dopo il ritrovamento dei resti di Günther Messner sul ghiacciaio Diamir.
Le interviste sono integrate da testi finora inediti dello stesso Messner: conferenze, dichiarazioni di principio su temi d’attualità, reportage su paesi e viaggi che Messner ha affrontato al di là delle grandi spedizioni. I capitoli si aprono con introduzioni scritte da Messner appositamente per questo libro, che sono allo stesso tempo un commento da un punto di vista attuale.
«Ma che tipo è in realtà?» – la domanda posta inizialmente è alla base di questo libro. Messner mi ha dato carta bianca per quanto riguardava la scelta e i tagli da apportare alle interviste. Sono rimaste inalterate dichiarazioni che anche a lui oggi appaiono esagerate. La sua collaborazione è stata precisa, chiara, caratterizzata dalla piena fiducia. Reinhold Messner è così.
RALF-PETER
MÄRTIN
Francoforte sul Meno, luglio 2006