La curiosità perduta
Nessuna gara agli ottomila
Il mio interesse per gli ottomila traeva spunto innanzitutto dalla ricerca di nuove vie difficili, poi dallo stile, infine dal percorso. Ho organizzato da solo le mie spedizioni. La gara, sulla quale tante parole si sono spese negli ultimi tempi – chi riesce a conquistare per primo tutti gli ottomila –, è stata una gara mediatica, ma non si è mai svolta nella realtà.
Quando tutte le vie facili erano state salite osammo attaccare le pareti più verticali degli ottomila. Poi cercammo di trasferire lo stile alpino sulle grandi montagne. Infine seguirono le solitarie e la sfida del concatenamento di due ottomila.
Alla fine mi sono ritrovato con alle spalle diciotto salite a ottomila, delle quali non sono andate a buon fine la parete sud del Dhaulagiri, quella del Lhotse e del Makalu, l’invernale al Cho Oyu. Forse i miei fallimenti, e il fatto di essere salito due volte su quattro ottomila, aiutano a chiarire ciò che non volevo essere: un collezionista di ottomila.
FINO ALLA FINE DEL MONDO.
Non la via, il percorso è
l’obiettivo.
Riflessioni sulla grande avventura dell’alpinismo
Il fatto che abbia scalato tutti i quattordici ottomila è irrilevante per la storia dell’alpinismo. Probabilmente è una notizia marginale, come a suo tempo, nel 1911, la scalata di tutti i quattromila nelle Alpi, a opera di un alpinista del Vorarlberg, il dottor Karl Blodig. Quante migliaia di alpinisti nel frattempo hanno superato nelle Alpi tutte le vette oltre la magica soglia dei quattromila metri? Chi li conosce?
Nel 1987 il polacco Jerzy Kukuczka ha scalato il suo quattordicesimo ottomila, seguito dallo svizzero Erhard Loretan. Nel 2010 saranno circa cinquanta gli alpinisti ad aver raggiunto questo traguardo. Tuttavia l’alpinismo himalayano non è certo concluso con questi «record».
Se questo tipo di alpinismo deve restare un’avventura ai confini estremi, gli attori coinvolti devono individuare nuovi problemi da risolvere e trovare nuovi percorsi per giungere all’obiettivo. Quando nel 1924 George L. Mallory puntò all’Everest, «perché c’è», il suo obiettivo era la vetta. Per Chris Bonington e la sua squadra, che nel 1975 salirono la difficile parete sud-ovest, l’obiettivo era la via. Ora che la montagna è stata salita senza bombole, lungo le vie più difficili, in solitaria, nel periodo dei monsoni e in inverno, ciò che conta è il percorso alla vetta. Non il record. Perché non è detto che chiunque si «precipiti» sulla vetta più velocemente di chi lo ha preceduto sia per forza un innovatore.
Gran parte degli alpinisti oggi si aggrega alle grandi spedizioni commerciali, che puntano a raggiungere la vetta con qualunque mezzo. La consegna non è più by fair means, bensì by any means. Anche le tante spedizioni leggere che al campo base del K2 o del Nanga Parbat si riuniscono in spedizioni più massicce nel loro modo di procedere sono ben lontane dallo stile alpino, molto più di quanto non lo fossero le spedizioni nazionali degli anni Cinquanta, che potevano contare solo su loro stesse e che svolsero un’opera pionieristica di cui ancora oggi possiamo avvalerci.
Erhard Loretan costituisce un’eccezione, quando per esempio con la guida Norbert Joos traversa le tre cime dell’Annapurna I, oppure nel pieno del monsone sale la nord dell’Everest – in quarantott’ore tra salita e discesa. Questo tipo di «record» suscita tutta la mia ammirazione. Non però la salita veloce lungo una via completamente preparata, dal campo base fino alla vetta, attrezzata con una catena di campi allestiti da altri.
Può darsi che gli sponsor, interessati più agli slogan pubblicitari che alla vera avventura, puntino a questi record. Non è a loro che possiamo credere quando è in gioco l’autenticità nei territori estremi fra sport e avventura. I pionieri non sono «uomini senza confini», bensì uomini che partono per il mondo della sconfinata incertezza. La salita più veloce sul K2 lungo una via preparata mi dice meno del lento progredire lungo un cammino ignoto.
La parete sud del Lhotse, dove sono stato costretto a ripiegare due volte e sulla quale nel 1989 è morto Jerzy Kukuczka.
Nell’alpinismo la velocità non mi ha mai impressionato tanto quanto lo stile e il modo di affrontare le situazioni più impegnative. Solo questi due aspetti dovrebbero indurre la giovane generazione di alpinisti ad andare oltre ciò che è stato fatto finora. Ci sono ancora molte pareti inviolate, e non solo sugli ottomila.
Lo stile con cui si risolvono i «problemi» rimane l’aspetto più importante. Non è colpa nostra se i governi di Pakistan e Nepal distribuiscono così tante autorizzazioni, al punto che è diventato difficile iniziare e portare a termine una prima in modo autonomo. Ma dipende anche da noi inventare «problemi» nuovi. È innovativo solo chi ha fantasia e va dove non vanno gli altri. Noi, la mia generazione di alpinisti, siamo saliti in stile alpino e senza ossigeno, senza catena di campi e senza autoassicurazione, fino alla vetta più alta della Terra, da soli fino alla vetta dell’Everest. Abbiamo realizzato le montagne più alte del mondo lungo vie nuove, pareti verticali, creste infinite. Abbiamo superato gli ottomila, li abbiamo scalati in tutte le stagioni. Ne abbiamo scalati due di seguito in coppia, senza scendere al campo base fra l’uno e l’altro; abbiamo portato a termine la «tripletta», tre ottomila in una stagione. E tutto ciò che è stato fatto una volta può essere ripetuto. Come in qualunque altro campo, è più facile ripetere che inventare.
È evidente che anche l’alpinismo d’alta quota ha due orientamenti generali – iniziative commerciali e pionieristiche –, dopo che l’alpinismo tout court ha assunto nel tempo aspetti molto variegati: l’arrampicata indoor e sportiva, l’alpinismo classico e l’alpinismo di spedizione e d’alta quota. Quest’ultimo viene sempre più interpretato come un modo di viaggiare, non più come il «gioco» al confine del possibile. Organizzati dalle agenzie, guidati da un capogruppo, sostenuti dai portatori indigeni, ci si fa portare in vetta. Si prenota l’Everest come si prenota un viaggio a Maiorca: pensione completa, guida e assicurazione, tutto compreso. L’«avventura organizzata» è in realtà una contraddizione in termini, ma resta una possibilità. In ogni senso. Innanzitutto ha un grande valore commerciale, come un tempo le imprese pionieristiche. E promette un risultato positivo. Sicuro. Più dell’ottanta per cento di coloro che hanno affrontato un ottomila nell’ambito di una spedizione commerciale ha avuto successo. Questo naturalmente depone a favore degli organizzatori, non certo degli ambiziosi protagonisti. E dello spirito del tempo.
La vera avventura contempla anche il fallimento, che la commercial expedition deve escludere. Perché è la via più sicura per la vetta e perché finanziatori e pubblico a casa non sanno distinguere fra avventura e show. Non ho nulla contro l’alta percentuale di successo. Quello che mi disturba sono i resoconti inesatti. Le vere avventure non possono essere messe in scena, al massimo possono essere documentate con un paio di foto.
Nell’alpinismo d’alta quota non esiste un regolamento universalmente valido. Esistono i limiti che ci si può imporre autonomamente, e un linguaggio comune. «Stile alpino» significa una salita senza indicazioni, senza aiuti esterni, senza preparazione. Una «solitaria» inizia alla base della montagna, dove i portatori si fermano. «Senza maschera» significa rinunciare alle bombole in ogni fase dell’impresa, anche durante le pause e il sonno.
La solitaria sull’Everest è molto più significativa che non i «quattordici ottomila», una svolta nell’alpinismo d’alta quota. Se finora abbiamo cercato vie relativamente facili per poter arrivare sul tetto del mondo da soli e con pochi ausili tecnici, ora lo scopo è raggiungere l’obiettivo lungo le vie più complesse. Oltre alla parete sud-ovest dell’Everest si può pensare a molte altre varianti, forse improponibili, come la salita dal Lhotse-Shar fino alla vetta principale del Lhotse e la discesa alla sella sud, per poi proseguire per l’Everest.
Meeting di alpinisti al castello di Juval. Sullo sfondo Reinhold Messner con Jerzy Kukuczka (a destra), che per secondo ha realizzato la scalata di tutti i quattordici ottomila.
Il mio alpinismo non è stato alpinismo di conquista come quello di Hillary, Buhl e Bonatti. È stata la ricerca di nuovi valori estremi. A prima vista illogico, ma caratterizzato dall’incertezza, come l’alpinismo dei pionieri. Il grande alpinismo di domani sarà ancora più folle, in quanto contraddittorio.
Rimane solo una regola aurea: più diventa difficile documentare un’avventura, più questa ha valore. Fino a quando si può mettere in scena, filmare, giocare, l’incertezza è limitata. Perché il cammino al limite inizia là dove finisce lo spettacolo. Sono sempre stato scettico sui documentari più spettacolari. Anche nel mio caso. Quando è in gioco la sopravvivenza dimentichiamo la macchina fotografica e tutto viene dopo. L’hic et nunc non determina più il successo o l’insuccesso, ma separa la vita dalla morte.
(Panorama, novembre 1987)
IL RITORNO DELLA LEGGENDA.
Messner a proposito di Mallory.
Settantacinque anni
dopo la sua morte è stato ritrovato il corpo del pioniere
dell’Everest. Per Messner la dimostrazione definitiva: «Non è mai
arrivato alla vetta».
Nel 1924 George Mallory è stato in vetta all’Everest o no?
Il ritrovamento conferma: Mallory e Irvine non possono essere stati in vetta. Ho già formulato questa tesi nel 1980. All’epoca l’Everest sul versante nord era scalabile solo in un punto, il couloir Norton, che il compagno di Mallory, Edward Norton, tentò di salire prima di lui nel 1924. Fallì. Il punto del ritrovamento della salma dimostra tuttavia che Mallory non ha seguito quella via, in effetti l’unica a condurre in vetta. Mallory e Irvine, impegnati nella salita, superarono il primo gradino di roccia. Molto probabilmente arrivarono fino al Second Step, il «secondo gradino», a circa 240 metri dalla cima. Che tuttavia non era superabile. Fu salito per la prima volta nel 1975, e vi furono fissate delle scale d’alluminio portate dal fondovalle.
Questo significa che Mallory e Irvine non ebbero alcuna chance?
Non nel 1924. Sono arrivati fin lì, poi però si sono trovati davanti un ostacolo insormontabile e hanno dovuto capitolare. C’erano solo due possibili varianti in quella situazione: si sono diretti alla parete est, impresa di una difficoltà infernale. Ma se avessero traversato verso la parete e lì avessero avuto l’incidente, oggi il corpo di Mallory si troverebbe da tutt’altra parte. Avrebbero anche potuto optare per il couloir Norton, ma in questo caso il corpo di Mallory sarebbe stato trovato più a ovest. L’unica conclusione corretta è che sono tornati indietro e sono precipitati sulla parete nord, a est del Second Step, dove è stato ritrovato Mallory.
Questo significa che Mallory e Irvine sicuramente non sono saliti sulla vetta.
No, tutto concorda alla perfezione. Che i media adesso facciano arrivare Mallory fino alla vetta è la stessa storia dello yeti. Il popolo vuole essere ingannato.
Cosa succederebbe se venisse ritrovata la macchina fotografica di Mallory con le foto della vetta?
Allora avremmo una risposta univoca: ci sono stati. E una domanda aperta: come ci sono arrivati? Di certo non superando il Second Step. Ma non ci sarà nessuna foto della vetta. Era impossibile.
Lei non l’ha visto, il corpo di Mallory.
C’era la neve, sono salito durante il periodo dei monsoni.
Come si possono immaginare le ultime ore nella vita di Mallory?
I due sono finiti in un banco di nebbia, tipico del monsone, una situazione che facilmente significa la perdita totale dell’orientamento. Diventa impossibile trovare un punto di riferimento, perché la visibilità è al massimo di un metro o due. Mallory e Irvine dovevano essere già allo stremo, hanno cercato di superare il Second Step, ma hanno dovuto convenire che con i loro mezzi primitivi, piccozze, corde e ramponi, l’impresa era senza speranza, perciò sono tornati indietro. È a questo punto che si dev’essere verificato l’incidente: erano legati, uno dei due è caduto e ha trascinato l’altro nell’abisso.
L’alpinista Odell sostiene di aver visto Mallory e Irvine addirittura a 8530 metri.
Questa affermazione non è dimostrata. In seguito Odell, con il quale ho parlato a lungo dell’accaduto, non ha più confermato il fatto di aver visto effettivamente Mallory e Irvine. E con certezza li ha visti sul primo gradino, in fase di salita.
Quanti cadaveri si incontrano sulla via alla vetta dell’Everest?
A dozzine, ormai.
Quando, avvicinandosi alla vetta, si incontra un cadavere, non si pensa al rischio che si corre?
L’eventualità di morire emerge brutalmente. Nel 1984 seppellii un austriaco sul Gasherbrum II. I parenti mi pregarono di farlo, così lo seppellii in un crepaccio. Trovammo dei francesi sul Makalu, ma li lasciammo dov’erano. Non sono autorizzato a rimuovere cadaveri non identificati.
Come mai il corpo di Mallory è stato ritrovato solo oggi, settantacinque anni dopo?
Perché ancora nessuno l’aveva cercato sul serio. Quest’ultima spedizione è stata intelligente, gli alpinisti hanno ispezionato l’area che circonda la zona dove, nel 1933, era stata rinvenuta la piccozza di Irvine.
(News, maggio 1999)
L’alpinismo a un punto di svolta
Era mio proposito prendere le distanze da quegli alpinisti che si trasformano sempre più in turisti, e da quegli ottomila che una stagione dopo l’altra vengono preparati per le salite di massa. Ciò nondimeno mi pongo la domanda se io, Reinhold Messner, non abbia a che fare con tutto ciò, seppur indirettamente. Con le mie imprese sugli ottomila non ho forse contribuito a rendere così popolari e attraenti queste «spedizioni», al punto che oggi moltissimi organizzano una «gita» in Himalaya quando in passato non ci avrebbero neppure pensato? Forse le mie imprese spingono altri alpinisti a imitarmi e così a sopravvalutare le loro capacità, senza tenere nel giusto conto le difficoltà?
MORTE ATTRAVERSO LA TECNICA.
La tragedia dell’Everest
Ho qualcosa da rimproverarmi? No. Perché se i tanti che sono morti avessero davvero seguito il mio esempio e i miei principi, forse oggi sarebbero ancora vivi.
Il mio principio consiste nell’affrontare anche la più alta montagna della Terra senza l’ausilio dell’ossigeno. La maggior parte delle vittime, invece, ha fatto ricorso alle bombole. Si potrebbe parlare di una sorta di dipendenza dai respiratori. In quelle condizioni, quando la riserva di ossigeno si esaurisce, diventa impossibile sopravvivere nella zona della morte.
Se gli alpinisti tenessero fede al mio principio e rinunciassero da subito ai respiratori, si presenterebbero due possibilità. Senza l’aiuto dell’ossigeno, il tentativo di salire l’Everest apparirebbe loro irrealizzabile, e non lo affronterebbero neppure. Oppure si renderebbero subito conto, salendo con grande fatica, fino a che punto possono contare sulle proprio forze. Senza l’«elisir» contenuto nelle bombole non potrebbero mai raggiungere un’altezza che alla prima criticità trasformerebbe la situazione in una trappola mortale.
Chi va in montagna contando solo sulle proprie forze il più delle volte torna anche indietro. Chi invece si affida alla tecnologia per appagare la propria ambizione al primo problema tecnico rischia la vita, non avendo imparato a valutare le proprie forze, a dosarle e ad affidarsi esclusivamente alle proprie energie naturali.
Posso solo sperare che dalla recente disgrazia il governo nepalese tragga rapidamente l’unico insegnamento corretto e in futuro vieti quei tentativi di salita all’Everest che contemplino l’utilizzo delle bombole. Se infatti l’uomo non è abbastanza ragionevole da affrancarsi, almeno in ambito alpinistico, dalla dipendenza ossessiva e addirittura mortale dalla tecnica, allora si dovrà imporglielo.
(Der Spiegel, novembre 1979)
IL PREMIO DELLA PAURA.
Cosa fa di una montagna una
montagna?
Un invito a riflettere
No, non voglio vedere le Alpi chiuse al turismo. Il libero accesso alle montagne e ai territori vergini è un diritto al quale l’uomo non deve rinunciare, ma che le autorità tenderanno a limitare se i territori inviolati, verticali e orizzontali, continueranno a essere trasformati in parchi di divertimento accessibili a molti.
Da quando è il consumo e non la gerarchia dei pericoli a dominare la scena in montagna, da quando i chiodi a espansione e tutti gli accorgimenti possibili sono diventati la normalità, tutti vogliono sperimentare, in modo possibilmente veloce e massiccio, ciò che la montagna offre in termini di «avventura». Si pretende quindi sempre più da norme e assicurazioni, le vie si fanno sempre più artificiali e attrezzate alla perfezione, al punto che dell’aspetto originario della montagna si perde ogni traccia. La mia preoccupazione in questa operazione di distruzione della natura non riguarda tanto il fatto che prima o poi il «divertimento» potrebbe cessare del tutto, perché potrebbe essere vietato, quanto per il fatto che in modo subdolo si dimenticherà ciò che in passato caratterizzava la montagna.
La parete nord dell’Eiger, negli anni Trenta la più grande sfida alpinistica al mondo.
Alla conquista delle montagne in senso geografico seguì la «colonizzazione», grazie a rifugi e vie preparate. Infine ha fatto la sua comparsa una schiera di «utilizzatori-salutisti» della montagna che ambiscono a un parco di divertimenti a cielo aperto! Una volta addomesticate, le montagne diventano teatro di iniziative spinte all’eccesso, una messinscena di ogni sorta di ideale. Anche se questa mentalità «salutista» non ci ha donato né montagne sane né attori sani, nessuno se la sente di mettere in chiaro le vere cause del decadimento di questo alpinismo, e l’occupazione del territorio prosegue. Conseguenza: la stragrande maggioranza degli amanti dell’avventura ha oggi in testa una visione assolutamente irreale della natura, nel momento in cui affronta una qualche salita, e pratica sport su terreni montani più o meno preparati che vengono descritti con sobrie sequenze di numeri: un numero indica l’altezza della parete, un altro la difficoltà, un altro ancora l’altezza della vetta. Anche se il numero degli incidenti cresce in valore assoluto e l’elemento selvaggio perde vigore, i responsabili perseguono la colonizzazione della montagna, inneggiando, nella loro incapacità di previsione, a prospettive future di lungo termine.
All’inizio degli anni Settanta la rete delle vie alpine è stata estesa «grazie» all’iniziativa dei club alpini e con il sostegno dei comuni e delle regioni. Oggi i club alpini contribuiscono affinché vengano attrezzate le vie classiche, piantando chiodi di sosta e intermedi. I gestori dei rifugi inneggiano a una via autonoma per ogni vetta, segnata e attrezzata, perché, senza l’esercito dei «consumatori d’avventura» che vanno là dove le pareti e le creste sono predisposte per il loro divertimento fit for fun, sarebbero costretti a chiudere i battenti.
Forse è tardi, eppure ci dovremmo interrogare su ciò che accade veramente quando la natura umana incontra quella alpina: qui va ricercato il significato dell’alpinismo. Non è stato forse William Blake e dire che da quest’incontro potrebbe derivare qualcosa di grande?
Proiettata nel futuro, l’attività alpinistica ha due possibilità: o si svincola ulteriormente dalla natura – alpina e umana – e si trasforma in sport puro, oppure torna ai valori senza tempo della montagna. Nel primo caso la montagna si sostituirebbe alla natura, nel secondo rimarrebbe tale e quale e nelle città verrebbe eretta una «montagna sostitutiva». In un cantiere. Non importa la scelta che intendiamo fare, ma quella che possiamo permetterci. Non abbiamo solo la responsabilità del futuro dell’alpinismo: portiamo anche quella per la montagna e il suo significato per l’umanità. La natura non conosce morale, e la montagna non commette errori, che sono appannaggio esclusivo dell’uomo. Perciò pretendo una messa in discussione dei valori.
La maggior parte dei «consumatori di outdoor» ha da sempre preteso una natura addomesticata per i suoi divertimenti no limits. Le conseguenze sono visibili dappertutto: vie preparate fino alla vetta dell’Everest. Come se in Europa la natura selvaggia fosse un modello in via d’estinzione, si tende a modificare la natura, a limitarla, adattandola a una società del tempo libero che a sua volta giudica sorpassata la «disciplina del rischio» e la paura intesa come elemento regolatore in alta montagna.
Sono soprattutto i club alpini che continuano ad attrezzare le Alpi, in modo capillare e con i sistemi tecnologici più efficienti, cosicché sempre più persone possano arrivare a provare soddisfazione per le proprie prestazioni. Come se all’attuale livello evolutivo non corrispondesse più ciò che all’inizio della storia dell’alpinismo era considerato ovvio nel rapporto con la montagna – sforzo e soprattutto rischio –, questi «aspetti sgradevoli» vengono eliminati uno dopo l’altro. E sono sempre più numerosi coloro che, fra questi «consumisti dell’avventura», fanno fatica a porre dei limiti a loro stessi. Un tempo c’era il «consumo del pasto» – birra e panino nel rifugio –, oggi abbiamo il «consumo dell’avventura»: lo strapiombo attrezzato davanti al rifugio; canyoning o hiking fra l’arrivo della funivia e il parcheggio. Gli «operatori dell’avventura» mirano a produrre emozioni in serie, puntando sulle potenzialità del mercato mitteleuropeo dei «consumatori d’avventura» in cerca di esperienze straordinarie.
Il mio invito a fermarsi, a modificare questa mentalità, a trovare un orientamento nuovo, è ora sostenuto dalla preoccupazione che proprio noi alpinisti rendiamo sempre più impossibile l’alpinismo.
Un millennio che muoverà i suoi primi passi soprattutto in multisale, parchi acquatici e di divertimento deve poter rinunciare a rinvenire mega-arene nelle Alpi e in ciò che resta di sano delle montagne della Terra. Il «consumatore d’avventura» che avesse la voglia, nonché le possibilità economiche per farlo, trova già tutto in città. E allora costruiamo il centro sportivo alpino con ghiaccio artificiale e tetto strapiombante accanto all’Ocean Park e alla gru del bungee-jumping. Lasciamo però che le montagne restino come sono! Solo così potremo essere sicuri di trovare qualcosa di inusuale quando arrampichiamo. Ma attenzione, in montagna né il divertimento durante il rischio (to risk it) né tanto meno l’eccitazione (thrill) possono essere presi come unità di misura, né la sola fortuna o uno spettacolo naturale, bensì solo la sintesi di capacità, meraviglia, esperienza, attenzione, che sopravvivranno solo se maestosità, difficoltà e rischio non verranno totalmente eliminati da questo ambiente naturale.
Ripeto, non pretendo né il «numero chiuso» né un divieto d’arrampicata sulle Alpi. Piuttosto, desidero un modo nuovo di avvicinarsi alla montagna, un atteggiamento diverso da parte degli attori coinvolti. Con questo non intendo una «vacanza in sintonia con la natura», né il «rilassamento completo». Ciò che mi preme è che gli alpinisti non vengano messi sullo stesso piano di bungee- jumper e altri sportivi da «scarica adrenalinica». Certo, anche noi da una parte abbiamo una visione romantica della natura, e dall’altra vogliamo dominarla e possederla. Ma prima di tutto, se vogliamo che l’alpinismo estremo non venga ulteriormente banalizzato, dobbiamo smettere di trasformare la natura selvaggia, ricorrendo a mezzi artificiali, in una pseudonatura confortevole e priva di rischi. La parete nord dell’Eiger non deve trasformarsi in un palcoscenico all’aperto; la pseudomontagna appartiene alla città, con tanto di prato artificiale e servita dalla metropolitana.
L’uomo, in quanto «essere carente», non è a suo agio in alta montagna, almeno non per lungo tempo, e i pantofolai che si risvegliano solo per paura di perdersi qualcosa o per pura noia potranno sempre vivere l’avventura in un europark o nel cyber-space.
Non possiamo continuare a trasformare le montagne in mondi artificiali, con tanto di possibilità di free-fall e pseudopericoli. Che noia! Se vogliamo salvare l’alpinismo, dobbiamo difendere le montagne anche dal numero eccessivo di alpinisti. E questo non per mezzo di divieti, bensì tutelando l’autenticità della montagna, che seleziona gli alpinisti consentendo loro di arrivare solo fin dove resistenza, abilità e paura glielo permettono. Una montagna senza pericolo di incidenti è un inganno.
Ciò che esigo è un’etica della sopravvivenza che valga sia per il singolo alpinista sia per l’alpinismo. E poiché la paura è efficace solo se ci tocca in prima persona, va detto con chiarezza che, al di là della vita del singolo alpinista, vale il principio per cui senza il pericolo come elemento regolatore gli alpinisti distruggono le montagne. Il mio sostegno a favore del pericolo è quindi un impegno positivo a favore della natura selvaggia delle montagne. La montagna conserva un valore per l’uomo solo in quanto ambiente incontaminato, ed è questo valore che va difeso e salvato, non solo per i milioni di escursionisti, arrampicatori e alpinisti, ma per l’umanità intera. Al contrario delle aree coltivate e sfruttate, dove l’uomo domina la natura, l’ambiente selvaggio montano deve essere inteso come uno spazio in cui l’uomo rinuncia spontaneamente all’attività di addomesticamento e dove non vive perennemente. Tutti gli interventi tecnici – che si tratti di strade o cavi elettrici, trasmettitori o chiodi a espansione – devono restarne lontani. Il valore della natura selvaggia – che alla lunga diventa anche il suo valore economico – è inversamente proporzionale al grado di esplorazione che vi viene compiuta.
Ma se l’esplorazione delle montagne proseguirà all’infinito, insieme all’ambiente selvaggio montano distruggeremo tutte le esperienze possibili – e perciò il senso stesso dell’alpinismo.
Se oggi già due terzi degli incidenti in montagna sono da ricondurre all’ignoranza o alla sopravvalutazione di sé degli attori sulla scena, questo significa anche che la ricerca isterica della sicurezza alla fine provoca l’esatto opposto di ciò a cui vorrebbe tendere. Noi alpinisti abbiamo perso di vista la valutazione dei pericoli e l’interazione con il rischio. Bisogna che torni a essere chiaro che ogni pericolo in montagna è un rischio, e che nessuno è obbligato a salire. Affrontiamo un rischio quando il danno che ne può conseguire è da imputare solo al nostro comportamento, un pericolo se subentra l’elemento della imprevedibilità. Dobbiamo perciò imparare a valutare adeguatamente i rischi che la montagna comporta. Fra una minaccia percepita e una reale non dev’esserci più alcuna differenza. Se da un lato aumenta la consapevolezza sugli esiti del comportamento umano, e sempre più pericoli si trasformano in rischi, dall’altro i rischi possono essere affrontati sempre meglio grazie a un’attrezzatura più raffinata. Ma come l’alta velocità sulle piste di sci ampie, spianate e sovraffollate è diventata il fattore di pericolo numero uno, allo stesso modo la sopravvalutazione di sé dell’escursionista, l’ingenuità dell’arrampicatore dilettante nel couloir innevato, la hybris dell’alpinista della domenica sul K2, trasformano in divertimento lo stimolo verso l’estremo e, grazie a GPS, slick e cellulare, soccombono di fronte al rischio residuo sulle montagne attrezzate. Nonostante i progressi tecnologici, soprattutto nel campo della comunicazione, l’uomo non dovrebbe trattenersi troppo a lungo nei luoghi dove non può produrre nulla. La rinuncia spontanea al ruolo di invasori della montagna, e non la disponibilità di rifugi, dovrebbe unire fra loro gli alpinisti.
In futuro dovremo porre al centro dei nostri sforzi comuni le montagne e la loro autenticità, se ciò a cui teniamo è la conservazione dei suoi valori. L’esperienza al limite, che sosteniamo per noi stessi e contro noi stessi, magari con qualche amico, pienamente consapevoli e in un ambito in cui valgono regole autoimposte, è una sfida del tutto personale e allo stesso tempo un tentativo intrapreso autonomamente di sopravvivere nell’elemento selvaggio. Mette in risalto dei confini, i confini del fattibile. Il sapere costituiva il metro del potere, e tale deve tornare a essere. Con tutto il rispetto per i club alpini come istituzione, negli ultimi tempi hanno perso di vista la necessità di porre nuovi obiettivi. Le lamentele sui costi di gestione dei rifugi, un’organizzazione farraginosa e la scarsa disponibilità a mettersi in gioco da parte di chi ricopre le cariche direttive, fanno parte di un’antica strategia che si continua a perseguire nonostante il calo nel numero di associati. Il compito dei club alpini, tuttavia, non può più essere quello di idealizzare l’armonia con la natura di un’epoca passata, o di venire incontro a chi desidera rilassarsi e vivere l’avventura, ma piuttosto definire un comportamento che tuteli montagna e alpinisti. La soluzione non sta in una regolamentazione dettagliata di interi domaine di arrampicata. Nell’alpinismo ciò che conta è il «come», non il «se».
Con Otti Wiedemann e Anderl Heckmair; ho portato la loro concezione di alpinismo sugli ottomila.
La struttura per l’arrampicata realizzata nell’ex area Krupp di Duisburg potrebbe suggerire il futuro. L’alpinismo, che è nato all’epoca della rivoluzione industriale, proseguirà indoor proprio fra le rovine delle fabbriche. Lasciamo alle sezioni dei club alpini i loro rifugi, comunque molto frequentati, ma non costruiamone di nuovi. Il futuro dell’alpinismo si svilupperà anche nelle palestre cittadine, nei centri alpini e nei vertical park. I parchi divertimenti funzionano benissimo, e dal punto di vista ecologico il concetto di «montagna» si colloca al posto giusto in un agglomerato residenziale: una caduta in pieno centro cittadino non avrebbe esiti disastrosi. I club alpini e le guide potrebbero perciò porsi il compito di informare, anziché realizzare infrastrutture destinate al consumo in un ambiente selvaggio. L’ambiente deserto ha valore solo in quanto tale. Il silenzio, il pericolo, la grandiosità costituiscono il potenziale della montagna: costringono l’uomo a essere solo con se stesso, a saper aspettare, a trovare alternative, a osservare e a riconoscere i propri limiti.
E quando gli utenti saranno più competenti e la spirale dell’«avventura a tutti i costi» si interromperà, quando le mode passeggere saranno finite e avremo rifiutato il principio del «sempre di più», potrebbe aprirsi l’epoca che auspicavo più di trent’anni fa con il concetto di alpinismo di rinuncia.
L’inversione di rotta è improponibile, anche se la carenza di protezione delle Alpi appare evidente. Alla protezione è stato anteposto lo sfruttamento, e un cambiamento presuppone molta autocritica, dote assai rara fra gli alpinisti. Il nostro cammino è sempre stato una linea retta: all’inizio le Alpi hanno suscitato spavento, poi la loro grandiosità ha colmato l’uomo di sorpresa, affascinandolo, e poi, in un crescendo, si è arrivati all’eccesso di sfruttamento che ormai osserviamo ovunque. Ma perché non torniamo indietro, se non riusciamo a progredire senza aiuti? Perché compriamo la sicurezza? Contro la paura? Solo per vanità? Perché non ci fermiamo per stupirci, nel momento in cui ai nostri occhi si rivela un pezzo di mondo disabitato? Non sarà la competizione senza scrupoli a indicarci il futuro dell’attività alpinistica, bensì una cultura nuova: quella della rinuncia, di una conoscenza più profonda e di una maggiore capacità di sorprenderci.
Nella mia visione ci sono la salute e il rispetto profondo delle montagne, e non l’ipocrisia degli alpinisti per i quali ogni morto in montagna è un morto di troppo, ma che con la loro isteria dell’assicurazione hanno reso possibile che si cadesse nel precipizio in fila indiana. Dobbiamo rispettare rischi e pericoli per quello che sono, poiché rappresentano una minaccia solo per noi che intendiamo salire. Oltre ai club, anche le guide alpine potrebbero contribuire al tema della «salute delle montagne». Solo ponendo al centro della loro filosofia valori come pericolo, silenzio, solitudine, accanto al valore della sicurezza, si garantiranno un’attività a lungo termine. I funzionari dei club alpini, le guide e gli alpinisti, chi prende le decisioni e chi le subisce devono essere le stesse persone e non, come nei dibattiti politici, allontanarsi sempre più fra loro: solo così potremo pensare a sviluppi duraturi. Una filosofia della rinuncia all’attrezzatura non significa divertimento senza impegno, è come una simbiosi fra difesa e utilizzo della natura. I club alpini e le associazioni ambientaliste potrebbero finalmente collaborare, non solo per acquisire e proteggere intere zone da ulteriori esplorazioni: l’ambiente inviolato della montagna indica anche uno spazio dedicato alla fantasia, riservato allo spirito umano.
Non intendo escludere le persone dal mondo dell’alta montagna, che può rimanere accessibile a tutti solo se si rinuncia a ogni ulteriore forma di esplorazione – capillare, tracciando e descrivendo le vie; o brutale, scavando e perforando. Chi vive in città e conosce la natura solo attraverso i media deve poter avere a disposizione un ambiente montano non manipolato dall’uomo. In montagna la natura si manifesta all’uomo solo quando i pericoli, la fatica e l’esposizione non vengono circoscritti. Lo stupore e il rispetto di fronte alla natura salveranno la montagna. A lungo termine è questa l’unica filosofia possibile – e l’alpinismo continuerebbe a essere per noi un dono!
(Umweltjournal, maggio 1999)
LA VETTA DELL’AUTOINGANNO.
Niente entusiasmo, nessuna sensazione di
gioia –
solo immondizia: l’Everest è scaduto a bene
di consumo per chiunque
Sull’Everest è di nuovo alta stagione. Ogni anno in maggio torme di alpinisti, uomini e donne, giungono da ogni parte del mondo alla vetta più alta della Terra. Con l’aiuto di sherpa e guide, la via di salita preparata da colonne di centinaia di portatori, poco prima dell’inizio del monsone estivo, ricomincia il pellegrinaggio verso l’ultimo traguardo prestigioso di rilevanza internazionale. Spesso i membri dei gruppi che si travestono da conquistatori dell’epoca coloniale, si ritrovano bloccati in coda sulla cresta. I «signori bianchi», i sahib, che non portano lo zaino, vengono trasportati sul tetto del mondo come «turisti tutto compreso». Il turismo globale ha raggiunto la vetta del monte Everest.
Questa primavera perfino un cieco e un alpinista con una gamba sola puntano alla vetta. Come se la montagna più alta della Terra – da sempre meta ideale della vanità umana – potesse essere considerata anche come palcoscenico per gli invalidi. No, non mi meraviglia il fatto che oggi il «gigante di ghiaccio», inviolato un secolo fa e cinquant’anni dopo meta degli alpinisti migliori, venga utilizzato per l’autorappresentazione. Nell’epoca del Grande fratello, anche l’Everest si presta alle messinscene più stupefacenti. Abbiamo rubato ogni mistero alla montagna, e ora appartiene a tutti. In un mondo «in rete» anche l’arena della solitudine diventerà accessibile, e quindi banale. Lassù solo l’esibizione dell’avventura e i record mantengono qualche interesse. Non solo la salita più veloce, ma anche la permanenza più lunga sulla vetta e la coda più lenta sulla cresta hanno un valore. Un diciassettenne, il più giovane, e un sessantunenne, il più anziano, sono già stati in vetta; il pilastro sud è la via più difficile, la parete est la più pericolosa e la cresta nord-est la più lunga.
Il turismo di massa quindi non solo ha raggiunto la montagna più alta del mondo, ma l’ha anche fatta sua. E ha rivoluzionato la nostra concezione dell’Everest. «L’Everest per tutti», recita lo slogan dei tour operator che si sono specializzati nel commercio di aria sottile. Anche i ministeri di Nepal e Cina fanno a gara fra loro per vendere il maggior numero possibile di autorizzazioni, gli ambiti trofei «Everest-Summit».
Come se non bastasse, questa montagna dei record è stata scoperta dai trekker, e di conseguenza la presenza dei media è garantita. Fin dall’inizio dell’esplorazione dell’Everest si è mirato ad attirare l’attenzione del pubblico dei non esperti. Perché altrimenti tutti questi record? «Record mondiale di altezza» nel 1922, 1924 e 1933. Nel 1933 anche «record della tenda», il campo più alto dove avessero mai dormito degli alpinisti. Lassù in alto non si dorme, si aspetta. Si aspetta l’alba, la possibilità di raggiungere la vetta oppure di finire nel Guinness dei primati grazie a un’idea strampalata. Al limite, per la quantità di immondizia che una spedizione raccoglie sul percorso e abbandonata dalle squadre della stagione precedente. Le bombole che i «conquistatori della vetta» hanno lasciato dietro di sé, formerebbero, impilate una sopra l’altra, una torre ben più alta dell’Everest – una dimostrazione di come l’uomo riesca ad avere la meglio persino sul corrugamento terrestre?
È vero, l’Everest è in grado di produrre ormai solo titoli negativi: montagna di rifiuti, zona della morte per fanatici dell’adrenalina, parco divertimenti per turisti che sono già stati ovunque. Da quando su Internet e nei cataloghi delle agenzie di viaggio che offrono l’«Everest for everybody» viene venduta l’idea che con i soldi si può comprare la salita al Nirvana, anche la montagna più alta del mondo, venerata dai nepalesi come Saragmatha e dai tibetani come Chomolongma, è diventata un bene di consumo, una meta costosa ma ineguagliabile. L’aspetto più sensazionale è la storia delle sue ascensioni, dove le disgrazie sono più numerose delle vittorie. Uno su dieci «conquistatori della vetta» muore. Ciò significa che il prestigio viene offerto non solo in cambio di denaro, ma anche della vita umana. È mai esistito nulla di più costoso?
Nel 1982 ho portato a termine con un’attrezzatura minima la parete nord del Kanchenjunga, detto anche «Kanch», tentata nel 1932 dalla spedizione di Dyhrenfurth.
Con un viaggio organizzato sul tetto del mondo la maggior parte dei «turisti degli ottomila» intende acquistare qualcosa di più, oltre all’affanno, allo sfiancamento e al gelo della zona della morte. Anche se i loro zaini riportano lo slogan LA CONQUISTA DELL’INUTILE, si riempiono la bocca con presunte gesta eroiche, con la «vittoria della vetta» e lo spirito di conquista. Anche se sono gli sherpa a svolgere tutto il lavoro preparatorio e le guide alpine ad assumersi ogni responsabilità, questi «alpinisti» si sentono come dei pionieri ed esibiscono la conquista della vetta come il segno distintivo di un ordine cavalleresco. Dopotutto sono stati in vetta, come un Hillary, un Tensing, un Bonington!
Perché i non alpinisti si candidano per un’esperienza sull’Everest? È facile immaginare che sia più difficile scalare una montagna di quasi novemila metri rispetto a una come il Cervino. Tutto ciò non impedisce che danarosi alpinisti della domenica prenotino l’Everest per le vacanze, benché da soli non oserebbero mai salire sull’Eiger. Ormai i percorsi sono due: da sud e da nord. A centinaia ripercorrono queste vie, preparate stagione dopo stagione da truppe di sherpa. Anche chi rinuncia ai kulis, sfrutta le infrastrutture delle spedizioni commerciali e approfitta della cura di queste piste. Ma dove una via è battuta, il mistero svanisce e trionfa la banalità. Non c’è da meravigliarsi che ci siamo abituati alla fattibilità dell’Everest. In fondo è questo l’unico aspetto sensazionale. Quanta energia, quanto denaro e coraggio sono stati impiegati dal settembre del 1921 fino al maggio del 1953 per conquistare il «tetto del mondo»? Uno sforzo immane. Fu la prima salita del 29 maggio 1953 a decretare la fine dello splendore, della maestosità e della grandezza dell’Everest.
No, nemmeno oggi l’Everest può essere considerato un prodigio fra le montagne della Terra. Ma poiché le due vie classiche alla vetta non presentano più punti difficili e nessuno percorre più le altre vie, si va perdendo l’elemento della grandiosità. Di questo è convinto soprattutto chi inscena le proprie salite per il grande pubblico. E questo è il motivo che ha portato alla moda dell’«alpinismo parassitario». Alpinisti famosi si mettono in gioco solo se la catena dei campi delle spedizioni commerciali è già organizzata. I cosiddetti camp-people non conoscono freni. Sanno che i turisti sono viziati e che si portato dietro ovunque il loro cuoco. Così si fanno aiutare anche loro. In cambio di una mancia, naturalmente, e al riparo dei campi alti che incontrano lungo il cammino. Si fa una bevuta così, mentre si passa. Ormai anche le bombole sono reperibili ovunque, almeno per le emergenze.
Poiché quindi sull’Everest tutto dipende dalla velocità e la via deve essere preparata per gli alpinisti inesperti, tutti i record di cui si parla là in alto sono una menzogna. Perché chi riesce a essere veloce solo grazie agli altri rimane un parassita. Questo non è altro che alpinismo dei numeri. Non solo si sale sempre più velocemente a quote alle quali non è consentito perdere tempo, ma con altrettanta velocità si cerca di eliminare qualunque ostacolo.
Nel 1996 alcuni indiani rimasero appesi sulla cresta di vetta, ben legati a una corda non lontano dal Second Step. Mentre alcuni giapponesi passavano da quel punto nella loro marcia verso la vetta, uno degli indiani implorò aiuto. Inutilmente – i giapponesi avevano fretta. Gli alpinisti indiani morirono. Mai visto un tale egoismo. E tanta mancanza di senso di responsabilità.
La differenza fra un’impresa al limite e la salita in sicurezza di turisti confusi sta nel fatto che le imprese al limite sono un progetto a se stante, mentre l’abbandono organizzato del mondo civilizzato viene celebrato come se fosse un’impresa al limite. L’attenzione non è quindi rivolta a chi sa, bensì alla casalinga, che tanto per fare qualcosa affronta l’Everest indossando i panni dell’alpinista. Il mondo alla rovescia. Il fatto che gli operatori turistici, nonostante l’isteria per la sicurezza, dimentichino spesso ogni norma a favore del profitto, è un altro discorso. Un tempo sull’Everest si rinunciava al comfort, ma non si trascurava il senso di responsabilità. I viaggi avventura, invece, che offrono qualunque cosa – protezione del gruppo, conduzione, il massimo comfort possibile –, restano, benché pseudoavventurosi, pericolosi. La descrizione di alcune gesta eroiche è utile per chiarire nel migliore dei modi questa contraddizione.
Ciò che nei libri viene citato come «gioia della vetta» e «contatto con Dio» corrisponde probabilmente a un desiderio, non a emozioni vissute realmente. Certo, anche le vette già conquistate conservano la loro forza d’attrazione, ma una volta arrivati su, l’unica cosa che interessa è ridiscendere. Fino a quando una salita alla vetta resta provvisoria, può avere l’effetto di una droga cui non si ha facilmente accesso. Sulla vetta però nessuno vuole restare a lungo. No, sulla vetta dell’Everest, dove cielo e terra sembrano toccarsi, non si è più vicini all’infinito che più in basso, e tanto meno più vicini alla verità o alla gioia. Lassù in alto non si può parlare di euforia, e nemmeno di conoscenza o di pensieri, ciò che importa è solo ridiscendere, sopravvivere.
Tutto è cominciato con la follia di porsi un’ultima meta mai raggiunta. Polo Nord e Polo Sud – punti fittizi – erano già stati raggiunti. Negli anni Venti del secolo scorso l’Everest venne idealizzato come Terzo Polo, il «Polo Est». La sua grandezza mobilitò non solo l’alpinismo britannico. Come se l’Everest rappresentasse l’ultimo punto inesplorato sulla carta. Il prezzo pagato per quel mistero furono numerose vite umane, un prezzo decisamente elevato.
Fra il 1921 e il 1953 una dozzina di spedizioni tentarono l’esperimento. Sempre più numerosi erano quelli che riuscivano ad arrivare più in alto. Nel 1953 finalmente i britannici ebbero successo. L’unico aspetto significativo fu la conquista della vetta. Lo stile e la velocità di progressione non ebbero alcuna importanza. La prima salita dell’Everest non ebbe nulla a che fare con i numeri e le stravaganze, né con le rivalità. Alcuni mesi prima gli svizzeri si erano avvicinati in modo preoccupante alla vetta. Le attrezzature, testate come per un allunaggio – scarponi, tende, abbigliamento, piccozze, ramponi, maschere –, ebbero un significato esclusivamente pratico, non sportivo o di mercato. Gli alpinisti di tutto il mondo si erano identificati con il traguardo, e i britannici si affermarono una volta di più come gli esploratori dell’inesplorato. L’Everest non solo era diventato il simbolo dell’unione profonda, ma fu anche il polo al quale gli inglesi arrivarono per primi.
Quando Hillary, l’apicoltore neozelandese, raggiunse la vetta con il suo sherpa, il 29 maggio 1953, i due erano sostenuti da una dispendiosa iniziativa britannica. Arrivarono quindi in vetta, a 8850 metri, piccozza alzata con la bandiera attaccata che li sovrasta ancora più in alto. Per fortuna la macchina fotografica non si bloccò – le prove sono perciò inconfutabili. Ai loro piedi popoli, religioni, e una serie di predecessori morti. Ciò che avevano fatto per il mondo di allora era più di un semplice gesto di autoesaltazione. Era stato raggiunto il traguardo, al quale corrispondeva un ideale, e così si chiuse un capitolo.
I primi inglesi a perdere la vita sull’Everest, Irvine e Mallory, diventarono improvvisamente più interessanti dei conquistatori della vetta, i quali fra l’altro non erano nemmeno inglesi. Fu così che Mallory si trasformò in un mito. George Leigh Mallory, il cui corpo sarebbe riemerso nel 1999 – una salma nel ghiaccio. Il corpo di Mallory non si è conservato disidratato e congelato, oppure mummificato come Ötzi, ma mantenuto nel suo grasso. Come una figura di cera. Intonso, come la statua di un dio greco, il cadavere di un essere umano giaceva alle pendici della montagna, in mezzo ai detriti. Da settantacinque anni. E all’improvviso ha fatto la sua apparizione, a 8250 metri di quota. Un ritorno macabro, in ogni caso un evento sensazionale. Colui che, a quanto si racconta, voleva scalare l’Everest solo perché «c’era», era morto nella maniera più indicata. Il suo ritrovamento ha scalzato dai titoli dei giornali tutti gli altri morti sull’Everest, e probabilmente sarà così per anni. Il monte Everest gli appartiene.
Oggi i decessi in quella parte di mondo vengono comunicati via satellite, e i morti sono presto dimenticati. Come nel 1996, quando i membri di varie spedizioni commerciali vagarono senza guida nella zona della morte per poi scomparire. Una dozzina di loro perse la vita. Avevano sì raggiunto la vetta che avevano scelto sul catalogo, ma non erano riusciti a riportare a valle senza conseguenze nefaste la loro «vittoria». Non è rimasto loro nulla di ciò che avevano prenotato: riconoscimento, gloria, immortalità.
Ormai tutti quelli che sono stati in vetta sanno che non ci si inerpica sulla cima della montagna come eroi, ma con problemi ai polmoni, il fiato corto e il cervello annebbiato. Eppure sono sempre più numerosi quelli che vogliono tentare. Sono soprattutto gli inesperti a mettere in mostra l’ambizione di emulare le imprese dei vicini di casa, dei membri della sezione o dei compagni di passeggiate. Alcuni, pochi, arrivano in vetta, distrutti – la maggior parte di loro torna indietro, ma confusa, con vuoti nella memoria a breve termine e un ricordo distorto della salita. Lassù non è solo la nostra capacità di giudizio a diventare incerta, ma anche la visione d’insieme. La ridotta forza di volontà, l’ipoemia e l’apatia frenano lo spirito nella zona della morte. L’Everest – la vetta della vanità.
Nel 1933 Frank Smythe era rimasto intrappolato sull’Everest nella neve polverosa. Vent’anni prima che Hillary e Tensing conquistassero la vetta dall’altro versante della montagna, Smythe rimase bloccato per ore in quel punto. Una quantità immensa di neve sottile trasportata. Che fu la sua salvezza. Tentò di scavare una fossa con le mani, per poter progredire ulteriormente. Le difficoltà tecniche sono superabili, anche nella zona sommitale dell’Everest, mentre la neve in cui si sprofonda fino ai fianchi può bloccare qualunque salita. In simili situazioni, alla disperazione si aggiunge la solitudine. Sentirsi persi nel punto più alto della Terra fa sì che ci si veda come dall’esterno. Smythe pensava perfino di condividere le sue scorte con un alter ego. Quando poi si precipita non si prova né spavento né paura di morire, solo sorpresa. È come se, molto lontano da lì, qualcun altro stesse perdendo la vita. No, questo non significa che l’alpinismo d’alta quota sia un incubo, ma che a quelle altezze e senza maschera si diventa schizofrenici – del resto forse è solo così che si riesce a sopportare tanta fatica, paura e solitudine.
A quelle quote non esiste l’ebbrezza da quota, ma solo il mal di montagna. Anche la tanto celebrata «gioia per la vetta» è del tutto innaturale. Lassù non c’è nulla da conquistare: nessun tesoro, nessuna conoscenza, nessun favore divino. Gli indigeni, ai nostri occhi «primitivi incolti», evitano le vette delle montagne. Con grande ragionevolezza si muovono solo se vengono pagati per farlo.
È così che si è sviluppato il mestiere di portatore, nel quale oggi eccellono gli sherpa, veri animatori sul percorso verso un Nirvana che esiste solo nell’immaginazione dei loro clienti. Sulla vetta dell’Everest c’è spazio per pochi uomini confusi e spossati, che gli indigeni aiutano a salire e scendere. Ma alla fine ognuno ha ottenuto ciò che voleva: gli sherpa la loro ricompensa e i sahib la sensazione di essersi avvicinati per un attimo al cielo.
Con la prima ascensione la vetta dell’Everest ha sì perso il suo alone mitico, ma rimane pur sempre la più alta. Dopo il passaggio di più di mille persone, la neve è calpestata come su tutte le altre montagne, eppure dove, se non lì, si può essere più vicini a ciò che la gente di pianura considera il cielo? La vetta dell’Everest è la meta turistica più ambita dei giorni nostri. Sono molti quelli disposti a spendere una fortuna pur di arrivarci.
Quando, ormai quasi venticinque anni fa, l’8 maggio 1978, strisciai verso la vetta carponi, il vento era così impetuoso che in alcuni tratti sia io che Peter Habeler non riuscivamo a stare in equilibrio. Costantemente impegnato a cercare di mantenere la faccia sottovento, potevo vedere solo il turbinio della neve, la sagoma del mio compagno al mio fianco e di tanto in tanto un pezzetto di cielo scuro. Nient’altro. Mi spingevano a tener duro l’ululato ininterrotto della tempesta nelle orecchie e i polmoni che sembravano impazziti nella cassa toracica.
Solo l’importanza dell’ossigeno nell’atmosfera, dal quale dipende la vita sulla Terra, può spiegare l’interesse suscitato dalla nostra salita dell’Everest senza maschera. Così non vennero riconosciuti la fatica, il gelo, le difficoltà respiratorie, ma la nostra impudenza, la decisione di agire contro ogni regola. Quando due anni più tardi affrontai di nuovo l’Everest in solitaria, la cosa non scatenò alcun clamore.
Nel frattempo avevo dimenticato l’impegno, la paura e la disperazione della prima salita. Oppure li avevo rimossi? Con quanta naturalezza noi alpinisti siamo capaci di mentire a noi stessi! È difficile immaginare cosa voglia dire stare lassù: i piedi sempre gelidi; le calze umide nella tenda; la sete implacabile, il mal di testa, la nausea; il cibo disgustoso; la tenda angusta, la sensazione di soffocamento e di panico. Ma l’automenzogna va avanti – gli alpinisti d’alta quota sono fantasiosi, e si inventano traguardi sempre nuovi.
Nel 1980, all’ultimo bivacco, la mattina mi sentivo male quanto la sera precedente. La vita in tenda era davvero miserabile. Impossibile riposare, tanto meno dormire a quelle quote. Il viso, le mani, i piedi – tutto gelato. Il sole era debolissimo. La parete sotto di me ripidissima; dove la neve non teneva, tentavo disperatamente di pestare il piede finché il rampone non arrivava alla roccia. Non mi spaventava il rischio delle slavine, solo la lontananza. E la preoccupazione di tornare indietro.
In vetta non vidi niente per la nebbia. Nessuno spettacolo divino, nessuna gioia, nessun orgoglio. Niente. Nemmeno un pensiero elevato. Come un automa eseguii le operazioni che avevo programmato: foto, tosse, inginocchiarsi, sosta a occhi chiusi. Poi la discesa.
A ogni modo mi guardo bene dal vestire i panni del moralista e dal mettere in guardia gli alpinisti della domenica di fronte al pericolo di perdere la vita. Anch’io ho affrontato la montagna con atteggiamento ingenuo. E Hillary? Certo, lui dovette prima di tutto cercare la via, e l’attrezzatura di allora può apparire ridicola rispetto a ciò che il mercato offre oggi – abbigliamento in goretex, attrezzi di titanio. Ma con la nostra convinzione di essere superiori alla natura ci siamo comportati in maniera stupida, tanto quanto tutti quelli che sono venuti dopo di noi. Quelli che nel farlo hanno perso la vita – più di cento – non erano certo i peggiori. Hanno solo avuto meno fortuna.
Il mito incarnato da Mallory ha molto più a che fare con l’aspirazione e il fallimento che non con il raggiungimento della vetta. Forse anche con la sua misteriosa sparizione. La salita di Mallory rimase avvolta nel mistero, e forse proprio per questo motivo il morto non trova pace. Il suo destino fu di soggiacere all’enigma, di restare lassù e dimostrare dove l’umanità può arrivare, prima di arrendersi al mistero.
Attualmente l’Everest è coperto dalle corde, dalle scale, dai depositi di bombole, un mondo crudele. La montagna più alta del pianeta è severa, spaventosa e assassina come non mai. Le persone ragionevoli fanno bene a rinunciare all’offerta allettante dell’«Everest for you». Quelle ancora più ragionevoli si limitano ad ammirare la montagna più alta dai finestrini dell’aeroplano, senza per questo pagare cifre esorbitanti a operatori turistici senza scrupoli, che vendono l’illusione che un viaggio tutto compreso sull’Everest valga più di una vacanza low cost a Maiorca.
(SZ am Wochenende, aprile 2001)