Dietro a tutto ciò c’era forse la sensazione di dover fare meglio del gruppo?
No, ero mosso solo e unicamente dalla mia ambizione sportiva. Mi motivava molto poter dire che facevo da solo pareti che fino a quel momento erano state affrontate sempre da due persone, e comunque considerate vie «criminali».
(Playboy Interview 1, Moewig Taschenbuch 6402)
Il fascino della parete verticale
Quando verso la metà degli anni Sessanta mi dedicai all’arrampicata estrema nelle Dolomiti, la direttissima era il dernier cri dell’alpinismo. Noi alpinisti più giovani ne restammo affascinati e fummo incantati dalle possibilità che ne derivavano nell’ambito dell’arrampicata artificiale. A quei tempi il chiodo a espansione era la norma, le staffe sostituivano prese e tratti d’arrampicata. Tedeschi e italiani erano ossessionati dalla ricerca di assurde superdirettissime al monte Popena e alla punta Emma. Si era aperta l’era dell’arrampicata tecnologica. Chi fra di noi avrebbe ancora dato ascolto a quelli che predicavano l’opposto, cioè la rinuncia totale a trapani, «cordoni ombelicali» e chiodi? Cercavano di inculcarci che di fronte a vie veramente impegnative il ricorso al «cordone ombelicale» era inevitabile. Fiduciosi nel progresso, anche noi ci piegammo all’ideologia della direttissima.
Inizialmente anch’io mi sentii attratto dalle sirene dell’arrampicata artificiale. Solo molto più tardi cambiai idea, quando capii che l’idea della direttissima aveva ostacolato i progressi nell’arrampicata libera. Questo non accadde certo dall’oggi al domani, ma sentivo che con l’idea della direttissima «da ferramenta» l’alpinismo avrebbe imboccato un vicolo cieco se non fosse intervenuto un «sovvertimento dei valori». La superdirettissima non aveva forse distrutto un ideale? In linea di principio il «settimo grado», un gradino al di sopra di ciò che era allora considerato il limite, era possibile, ma veniva interpretato in modo scorretto.
Già allora ogni chiodo usato per la progressione mi sembrava un compromesso. Poi crebbe in me l’ambizione di affrontare in libera qualunque via. Mi feci sempre più audace, volevo lanciare la sfida al «settimo grado», volevo conquistarlo. Consapevole del fatto che solo nell’arrampicata libera avrei potuto raggiungere un livello superiore al sesto grado, mi riallacciai alle idee di Paul Preuß, il quale già all’inizio del Novecento rifiutava ogni ausilio tecnico nella salita di una parete.
I miei compagni di arrampicata: Sepp Mayerl e Heindl Messner.
Mio padre sulla parete sud della Gran Fermeda.
Insieme a compagni che la pensavano come me speravo, grazie ad allenamento e concentrazione migliori, di poter rinunciare ai chiodi tutte le volte che fosse stato possibile. Sulle pareti non ci prefiggevamo una linea rigida, ma puntavamo a una tecnica d’arrampicata sempre più raffinata. Avevamo i nostri idoli: Max Niedermann che negli anni Cinquanta aveva aperto difficili vie di roccia, Erich Abram, di Bolzano, Hias Rebitsch o Hans Vinatzer, gardenesi.
Ero quindi diventato nemico dell’arrampicata artificiale e iniziai la mia «lotta» contro questo modo di salire, nello spirito di Paul Preuß. Perciò nel 1965 scrissi sul quotidiano altoatesino Dolomiten, in un articolo intitolato «Mord des Unmöglichen» (Assassinio dell’impossibile), non senza polemica: «Quel che conta è superare le difficoltà, non aggirarle, così proclama Paul Claudel. La stessa cosa affermano i sostenitori della direttissima, che tuttavia già all’attacco sanno che nessun ostacolo potrà fermarli. Sanno anche fin dall’inizio che non sarà impresa da poco, ma sono certi che raggiungeranno la vetta. Si sono posti un problema che in fondo non esiste nemmeno. Una volta ho domandato se ci fosse un punto della salita che potesse fermarli. Hanno riso. Ormai è passato molto tempo».
Certi alpinisti vogliono essere sicuri di farcela fin dall’inizio. Se per caso incappano in una giornata negativa e non riescono a superare un punto difficile, senza pensarci troppo fanno un buco e piantano un chiodo a espansione, anche se quel tratto è sempre stato arrampicato in libera.
Proviamo a osservare uno di questi sostenitori della direttissima: non sa cos’è la paura, benché la parete si sviluppi davanti ai suoi occhi gialla e strapiombante. Sta seduto sulla sua staffa, appeso all’ultimo chiodo, pratica un buco nella parete liscia, pianta un chiodo, sposta le staffe, infila il piede nell’ultima o penultima staffa, si appende di nuovo e fa un altro buco più in alto. Magari qualche giorno dopo è stanco, ma non per questo rinuncia. Ha ancora cinque giorni di vacanza e chiodi a profusione. Chiodo dopo chiodo impone alla parete la sua via, nient’altro.
Lo spit è diventato un comportamento abituale, perlomeno per una parte degli alpinisti moderni. Ho già detto che non è possibile cavarsela con i mezzi consueti. Chi non è disposto a tornare indietro porta con sé il coraggio sotto forma di metallo. In questo modo le pareti non vengono più salite, bensì lavorate, tiro dopo tiro. Quel che non si riesce a fare oggi si farà domani.
Certo nessuno rifletterà sul fatto che la prossima generazione potrà affrontare in libera tratti che oggi vengono aperti ricorrendo agli spit.
Se si lascia aperta la possibilità di aprire nuove vie, gli alpinisti del futuro continueranno a tentarle finché non avranno successo nei tratti dove oggi, senza il ricorso agli spit, saremmo costretti a ripiegare.
Per mettersi dalla parte del giusto alcuni, che peraltro sono fieri di poter esibire nel loro quaderno delle salite grandi prime o prime ripetizioni, sostengono che molte vie di libera sono pericolose, troppo pericolose, e che per pure ragioni di sicurezza bisognerebbe avere con sé chiodi semplici o a espansione. Quindi non sarebbero il coraggio e le capacità i fattori determinanti, bensì la tecnica.
Spesso le salite durano diversi giorni, e oggi i chiodi si contano a centinaia. Si pensa che fare marcia indietro sia semplicemente riprovevole, perché tutti sanno che i moderni ausili consentono qualunque cosa, anche una direttissima strapiombante dall’inizio alla fine.
In altri tempi, all’epoca delle grandi salite in libera, gli alpinisti, se mi è consentita questa immagine, hanno scritto il loro entusiasmo sulle pareti. Oggi, invece, con chiodi e spit scrivono sulla montagna la loro cieca ambizione. L’assicurazione meccanica ha preso il posto della sicurezza interiore, che deriva solo dall’esperienza e dalla conoscenza. Non di rado capita che il risultato ottenuto da una cordata venga calcolato in base al numero dei bivacchi allestiti e il coraggio in base ai chiodi piantati. Le capacità di un arrampicatore libero vengono sottovalutate e semplicemente bollate come mancanza di responsabilità.
Mi domando come si possa aver confuso i valori etici dell’alpinismo moderno.
Da quando l’impossibile è stato cancellato, l’alpinismo ha perso il proprio valore originario ed è spesso decaduto fino a una triste mediocrità.
Forse i primi che sulle Alpi hanno fatto ricorso ai chiodi a espansione, alle corde da recupero e alle corde fisse, avevano l’ambizione di avvicinarsi ai limiti del possibile, più di quanto non fosse avvenuto in precedenza. Oggi però ogni confine viene spostato e solo chi si dà regole proprie è in grado di ritrovare i valori del passato.
Dieci anni sono bastati per cancellare il concetto di «impossibile» nell’alpinismo.
A un’osservazione superficiale potrebbe sembrare un progresso. In realtà l’alpinismo tecnologico è solo una scorciatoia. Oggi si chioda troppo e si arrampica poco.
L’impossibile, il drago, è morto, e Sigfrido è rimasto disoccupato. Non ricorro a questa immagine tratta dall’epica germanica per sostenere l’opinione che gli alpinisti debbano essere eroi, ma perché nell’uomo il coraggio si dirige istintivamente alla ricerca del quasi impossibile, per mettersi alla prova nel confronto con esso.
Ma quando l’impossibile viene annullato, non esiste nemmeno il quasi impossibile, e l’alpinismo estremo è condannato a esaurirsi. Solo chi ha il coraggio di affrontare una parete molto difficile con scarsissimi ausili tecnici incontra quell’elemento di avventura che è la ricchezza dell’alpinismo.
Senza pensarci due volte la generazione della direttissima ha assassinato l’impossibile, e dico assassinato perché l’impossibile non è stato superato, bensì cancellato con mezzi indegni. Chi non si impegna contro questo sistema, è altrettanto responsabile del vicolo cieco che l’alpinismo ha imboccato. Se mai un giorno gli alpinisti apriranno gli occhi, forse sarà troppo tardi. Non sarà così facile recuperare l’impossibile.
Tre generazioni di alpinisti: con Riccardo Cassin, il più grande degli anni Trenta, e Lothar Brandler, il genio dell’arrampicata degli anni Cinquanta.
La generazione che ci ha preceduto ha piantato un sacco di chiodi sulle pareti più selvagge, e nostro compito sarà quello di liberarci da questa situazione confusa. Ci hanno insegnato a lavorare con chiodi e staffe, ad arrampicare sulla linea a goccia d’acqua; nostro compito è cercare di indicare alle generazioni future altre vie.
Dobbiamo trovare un confine, un confine al quale avvicinarci. E se non dovessimo raggiungerlo, non dovremmo superarlo ricorrendo a trucchi.
Oggi come allora sono convinto del fatto che solo l’arrampicata libera è l’esperienza più completa. Oggi come allora sono convinto che senza l’impossibile non esista più il mistero; ma senza mistero non sono più possibili nuove esperienze. Ho sempre pensato che la mia via sarebbe stata quella della rinuncia, la rinuncia ai trucchi estremi della tecnica, e che solo così sarebbero aumentate le difficoltà nell’arrampicata. Al grido di «lotta dura al trapano» ho portato a termine le mie imprese più ardite in libera, nonché le mie prime sulle Dolomiti. Avrei voluto realizzare tutte le pareti estreme, questo era il mio unico desiderio. Ho messo in gioco tutta la mia ambizione per migliorare la mia condizione e le mie capacità tecniche. Nel 1969 finalmente raggiunsi il top della forma. In quell’anno fu determinante la mia partecipazione a una spedizione sulle Ande peruviane, organizzata dal club alpino austriaco. Insieme a Peter Habeler salii la parete nord-est dello Yerupaja Grande fino a pochi metri dalla vetta (6634 m) e la parete sud-ovest dello Yerupaja Chico (6121 m). Lo sforzo nell’aria rarefatta ebbe sul mio fisico ripercussioni più positive di qualunque altro allenamento mirato. Persi dieci chili di peso, ma mi sentivo più agile che mai. L’ampliamento dell’orizzonte rafforzò la mia consapevolezza e la mia motivazione. Di ritorno dal Sudamerica realizzai pareti che in precedenza non avevo nemmeno osato sognare. Riuscii a salire in solitaria vie che io stesso avevo giudicato folli: la parete nord delle Droites, la parete nord-ovest della punta Tissi lungo la via Philipp Flamm, la diretta della parete sud della Marmolada di Rocca, la via Soldà sulla parete nord del Sasso Lungo, la parete nord della Furchetta e la mia via sulla seconda Torre del Sella; il pilone del Frêney sul monte Bianco, il pilastro Bergland alle Droites, la parete nord del Domino, la parete nord-ovest delle Coronelle, la via Maestri alla Croda Rossa e la diretta sulla parete nord del Sasso Lungo.
Le Tre Cime di Lavaredo da nord. È qui che si snodano le direttissime più famose.
Questo è stato il mio Sturm und Drang: pensavo di dover dimostrare a tutti quello che il mondo poteva aspettarsi da me. Con l’entusiasmo primitivo e l’incrollabile sicurezza di allora, mi opponevo con forza ai valori correnti. Più erano ardite le mie imprese, più provocatorie si facevano le mie dichiarazioni: «Quando mi hanno chiesto cosa avessi contro i chiodi a espansione, ho potuto solo elencarne gli aspetti positivi: possono essere piantati dappertutto. Hanno l’aspetto di tutti gli altri chiodi, non si notano. Piccoli e leggeri, tuttavia molto sicuri. Fabbricati in serie. Poco costosi. Possono essere utilizzati anche da persone che non hanno mai arrampicato. Aiutano in ogni momento. Utili anche per appendere quadri a una parete di cemento armato. Fanno qualcosa per l’alpinismo: contribuiscono al suo declino».
I miei avversari condannavano il mio modo di arrampicare definendolo «ideologia della follia». È necessario rileggere con lo sguardo di oggi alcune affermazioni che mi furono scagliate addosso in quel periodo, per comprendere quanto fosse difficile difendere l’arrampicata libera. Tutti utilizzavano il termine fair, ma a cosa serve l’imperativo categorico del «puro ideale sportivo» se non si mette in discussione l’importanza del chiodo a espansione come aiuto nella progressione? Il principale ideologo di allora, Dietrich Hasse, che con la direttissima delle Tre Cime aveva eretto un monumento a se stesso, era un sostenitore convinto dell’alpinismo tecnologico: «Se nello sviluppo dell’alpinismo una decisione ha mai indicato la via da seguire, allora questo è accaduto almeno cinque anni fa con l’avvento dell’arrampicata artificiale. Ha introdotto una qualità del tutto nuova nell’alpinismo di massa». È la stessa persona che nell’estate del 1969 aveva rilasciato il seguente commento alle mie solitarie: «Al di là di tutta l’ammirazione per tanta audacia, che non diventi un esempio! A me non piace un alpinismo di questo genere, esagerato. È inconcepibile che venga considerato prestazione eccelsa solo ciò che qualcuno ottiene al di là dell’umanamente accettabile e correndo un rischio tanto esagerato. L’alpinismo viene così spinto, come qualunque altro sport, all’eccesso, alla mancanza di responsabilità».
Come non mi toccò tutto quel clamore! Ero convinto che l’arrampicata libera si sarebbe imposta, che avrebbe trasformato la scena dell’alpinismo. E gli sviluppi mi avrebbero dato ragione! Uno dei compagni di Dietrich Hasse sulla direttissima delle Tre Cime, Jörg Lehne, ammise con mia grande meraviglia: «Per molti anni sono stato convinto che la prima salita diretta della parete nord della Cima Grande (1958) avesse avviato una nuova stagione nella conquista delle vie più difficili. Oggi, dieci anni più tardi, sono convinto che questa via vada considerata come termine e allo stesso tempo come coronamento di quell’epoca di scoperte fra gli anni Venti e gli anni Cinquanta. L’incertezza del successo, l’impossibile, entrambi questi elementi vengono in teoria rimossi dal chiodo a espansione». Proprio ciò che avevo detto io, a vent’anni. All’improvviso si giunse alla conclusione che l’arrampicata libera dovesse essere posta in primo piano. «Solo l’arrampicata libera richiede il massimo delle capacità, solo l’arrampicata libera offre il massimo dell’esperienza.» Molti seguaci della mia impostazione mi avevano aspramente criticato negli anni precedenti.
PRIMA LA MONTAGNA, POI LE DONNE
Ha un rapporto per così dire erotico con le montagne?
La mia ex moglie (Uschi Demeter-Messner) ha detto che in epoche passate ho dedicato tutti i miei sentimenti e interessi alle pareti alpine. Che praticamente ho amato queste pareti. In effetti non aveva tutti i torti. Di tanto in tanto mi succede ancora oggi.
Le piacciono le nude pareti di roccia?
Non ho un rapporto erotico con la parete, però si tratta di un rapporto d’amore.
È vero che lei di tanto in tanto sogna le pareti di roccia come fossero dipinti che solo lei è in grado di vedere?
Ho sempre sostenuto che andare in montagna ha in un certo senso a che fare con l’arte. Si tratta di un processo creativo. È come se la parete che voglio salire mi stesse di fronte, disegnata su una sorta di lavagna. Con la mia esperienza e la mia sensibilità per le linee sono in grado di tracciare una via sulla parete. Una linea pensata quindi, che può essere molto bella. Se arrampico questa linea pensata, la vivo e la amo. È dentro di me, e io solo posso afferrarla.
Mi faccia per favore un esempio di una «parete amata».
La parete Rupal al Nanga Parbat. È la più alta al mondo, 4500 metri. Potrei salire il pilastro sulla destra. Sono anni che gioco con la linea da tracciare su questa parete. È la mia linea, l’ho creata io, sono io che la salgo. Nessuno oltre a me riesce a vederla.
Qual è il tasso di separazioni fra gli alpinisti?
Piuttosto basso. In genere gli alpinisti non si separano, sono piuttosto conservatori. Quando ho scritto della mia separazione, ho solo voluto mettere in chiaro che anche un alpinista può avere problemi matrimoniali.
Cos’era successo?
Mia moglie non aveva assolutamente nulla contro l’alpinismo. Ha anche cominciato ad arrampicare con me. Perché se ne sia andata, credo che non lo sappiamo né io né lei. La montagna ha a che fare solo marginalmente con questa storia, ormai di questo siamo convinti entrambi. È probabile che per lei fosse impossibile realizzare un suo percorso autonomo stando al mio fianco. Io non le ho lasciato spazio perché potesse sviluppare la sua personalità.
Messner, lei è forse il tipo di uomo concentrato solo su se stesso?
In realtà penso che potrei anche essere capace di accettare un’altra persona e tenerne conto. Questa persona però deve essere forte almeno quanto me. In questo caso, sarei anche disposto a sottomettermi. Ma quando mi rendo conto che l’altro non è impegnato, concentrato quanto me, lo fagocito immediatamente.
(Playboy Interview 1, Moewig Taschenbuch 6402)
VIVERE I SOGNI
Alcuni mesi dopo la spedizione sulle Ande, alla fine del 1969, il mio atteggiamento nei confronti dell’arrampicata si modificò. Si attenuò l’attrazione magica che le pareti verticali avevano esercitato su di me fino a quel momento. Persi la percezione della mia piccolezza, il timore reverenziale di fronte alla montagna. Mi sentivo superallenato, dato che ero in grado di raggiungere qualunque vetta dolomitica in poche ore. Mi serviva una dimensione nuova, un nuovo campo d’azione per le mie fantasie.
Proprio in quella fase, caratterizzata dall’insoddisfazione e dal dubbio, ricevetti l’invito a prendere parte alla spedizione in memoria di Sigi Löw. Accettai immediatamente: un’impresa di quel tipo rappresentava la realizzazione dei miei sogni. Il nostro obiettivo era la parete sud del Nanga Parbat (4500 m), la parete di roccia e ghiaccio più alta del mondo. Dopo alcuni tentativi falliti, la salita del versante Rupal si era trasformata nel problema alpinistico più spinoso di allora. Non resistevo all’idea di potermi confrontare con quella sfida. Provando a immaginare a cosa sarei andato incontro, feci dei paragoni: la parete Rupal è circa due volte e mezzo la nord dell’Eiger, quattro volte la nord del Civetta, otto volte la nord della Cima Grande. A questo andava aggiunta la questione non irrilevante della quota, un fattore che aveva sempre svolto un ruolo chiave, come emergeva da tutti i resoconti dei tentativi precedenti. Facendo tesoro delle esperienze accumulate durante la spedizione andina, riuscivo a immaginare quali pericoli fossero in agguato nella zona della morte. Così cominciai a prepararmi.
La parete nord-ovest del Civetta, dove realizzai una via diretta «logica».
Dal momento che per partecipare alla spedizione dovevo poter contare su una cospicua somma di denaro, interruppi gli studi a Padova e cominciai a insegnare matematica, scienze e educazione fisica alla scuola media di Eppan. Di mattina mi concentravo sui miei allievi, mentre i pomeriggi erano tutti per me, dedicandomi quasi esclusivamente alla condizione atletica. La preparazione si svolse secondo un piano preciso. Organizzai gli esercizi sulla base del presupposto secondo cui durante l’arrampicata ogni chilo di peso corporeo richiede una certa quantità di calorie e ossigeno, il quale dai settemila metri è presente in quantità molto ridotta. Poiché da un lato ero costretto a rinunciare a ogni grammo di peso inutile, e dall’altro sapevo che le gambe avrebbero svolto il lavoro più impegnativo, architettai una serie di esercizi per il potenziamento della muscolatura dei polpacci e delle cosce, a scapito di quella del tronco. In luogo del consueto lavoro di arrampicata, affrontai lunghe corse in salita. Quasi quotidianamente percorrevo il tratto da Bolzano a San Genesio, secondo il seguente schema: correvo i mille metri di dislivello sulle punte e senza fermarmi, impiegando meno di quaranta minuti. Contemporaneamente mi esercitavo nella respirazione corretta, mangiavo e bevevo solo a intervalli molto prolungati.
Benché nella fase iniziale dell’allenamento non avessi preso in considerazione un’ipotetica situazione d’emergenza, tuttavia sapevo bene che la salita avrebbe significato comunque uno sforzo superiore alla media. Per questo motivo, già durante l’allenamento, mi orientai in questo senso. Sapevo che in Himalaya non sono tanto le difficoltà tecniche che pongono l’alpinista di fronte a problemi insolubili, bensì la quota elevatissima, che riduce allo stremo chiunque. Per assumere l’atteggiamento più adeguato in condizioni simili, è necessaria una preparazione di parecchi mesi. Senza un allenamento specifico non ha senso unirsi a una spedizione himalayana. È certamente possibile acclimatarsi durante la marcia di avvicinamento alla montagna, ma le condizioni preliminari necessarie per salire un ottomila vanno comunque acquisite molto tempo prima della partenza.
Così controllai con particolare cura il mio peso ideale, che è di sessantaquattro chilogrammi. Non ho mai avuto problemi con l’alimentazione, che è rimasta praticamente immutata nel corso degli anni. Mangio relativamente poca carne, molti carboidrati e frutta. A quei tempi riservavo alla frutta un giorno alla settimana, per disintossicare l’organismo. Inoltre bevevo molto latte. Siccome avevo letto da qualche parte che il consumo intensivo di aglio contribuiva a mantenere elastiche le pareti dei vasi, mi preoccupai si assumerne regolarmente. Non dovetti nemmeno modificare le mie abitudini di riposo. In genere dormo fra le sei e le sette ore. Non esagerai nemmeno con l’esercizio fisico. Non mi allenavo più di quattro ore al giorno. In questo modo arrivai a una condizione di benessere fisico come al termine di una lunga vacanza riposante.
La parete Rupal al Nanga Parbat, sulla sinistra la nostra via del 1970.
Già pochi mesi dopo l’allenamento quotidiano era diventato un’abitudine alla quale mi dispiaceva rinunciare. Se per qualunque motivo ero costretto a saltarne uno, mi sentivo immediatamente nervoso e fuori forma. In genere correvo a lungo dopo aver fatto una doccia fredda al mattino. Questa è diventata una piacevole abitudine, che mantengo tuttora e alla quale non potrei mai rinunciare. Col training autogeno cercavo di rallentare il battito cardiaco e di migliorare la circolazione sanguigna nelle estremità. In seguito cercai di prepararmi in maniera mirata alle sequenze di movimenti nella zona della morte. Con l’allenamento speciale alla corsa sulle lunghe distanze, la muscolatura del tronco si riduceva a vantaggio delle gambe e il polso scendeva a quarantadue battiti al minuto. A quattro mesi dalla partenza mi sentivo già soddisfatto dei risultati ottenuti con l’allenamento. Benché avessi smesso del tutto di arrampicare, mi sentivo preparato al meglio.
Oltre a ciò mi occupavo dei problemi teorici legati al Nanga Parbat. Analizzavo la via programmata e le foto, studiavo a fondo la letteratura sulla montagna e mi confrontavo con persone che conoscevano la zona per esperienza diretta. Le informazioni che ottenni rafforzarono la convinzione che fosse impossibile arrivare in vetta lungo la parete Rupal. Alla partenza le opinioni sulle possibilità di successo erano del tutto discordanti. Nonostante le preoccupazioni, e nonostante mi sentissi incredibilmente piccolo e insignificante di fronte a quella montagna gigantesca, il mio entusiasmo era alle stelle.
Sei mesi più tardi avevo conquistato con mio fratello Günther la vetta del Nanga Parbat. Le condizioni impreviste e avverse ci costrinsero a scendere lungo la parete occidentale, sicuramente più facile ma a noi completamente sconosciuta. Quasi ai piedi della parete, purtroppo, una slavina travolse mio fratello. I miei sforzi disperati di cercarlo non portarono a nulla. Con le estremità congelate mi trascinai per giorni e giorni verso il basso lungo la valle Diamir. Senza averlo programmato e senza essere preparati a farlo, fummo costretti a compiere la traversata della «montagna nuda», Nanga Parbat in sanscrito. Ma a cosa è servita questa impresa sensazionale sul piano puramente alpinistico, che è costata la vita a mio fratello, a un passo dalla salvezza? Per tre giorni non trovai niente da bere, per cinque niente da mangiare. Dovetti trascorrere tre giorni sul ghiaccio, senza alcuna protezione. Alla fine non riuscivo più a reggermi in piedi, così mi trascinai carponi a valle.
«Il 1970 segnò per me una svolta. Dopo la tragica spedizione al Nanga Parbat mi vennero amputate diverse dita dei piedi. Rimasi per tre mesi in clinica. Neppure nel 1971, a causa di una lunga depressione, riuscii a raggiungere la forma fisica del 1969. Nell’arrampicata estrema non avevo più quella raffinata sensazione di equilibrio, e quando non portavo scarpe a suola rigida provavo forti dolori. Tuttavia riuscii a compiere alcune prime ascensioni nelle Dolomiti, come per esempio la diretta alla parete nord-ovest del Sass de la Luesa al passo Gardena, che superava la difficoltà delle classiche vie di sesto. Malgrado tutto l’arrampicata mi divertiva ancora. In quel periodo presi anche la decisione di abbandonare la mia vita borghese e di tentare l’avventura. Con il passare degli anni le «grandi montagne» mi affascinavano sempre di più, il puro desiderio di arrampicata del mio Sturm und Drang – quanto più verticale e in libera, tanto maggiore la sfida – cedeva il posto al bisogno di vivere per lunghi periodi in ambienti selvaggi. Ancora oggi è questo il mio alpinismo: una volta su roccia estrema, una volta a ottomila metri di quota ai limiti del mondo.»
(REINHOLD MESSNER, Settimo grado, 1985)
LA LIBERTÀ DI PARTIRE QUANDO VOGLIO
Reinhold Messner, si può dire che lei si arroghi la libertà e il diritto di partire ogni volta che ne ha voglia?
Sono un privilegiato, perché posso vivere tutti i miei «pallini». Questo non è possibile per la maggior parte della gente. Che si perde nel quotidiano e non fa quello che farebbe volentieri. Se dovessi rinunciare ai miei sogni, sarei infelice tanto quanto queste persone.
Quindi lei è più felice di altri?
Ho il coraggio di vivere i miei sogni. Questo non significa necessariamente che io sia più felice di altri. Per due, tre anni ho accettato compromessi, ho studiato e sofferto tantissimo. Ho posto le basi per avviarmi alla carriera di architetto, anche se la prospettiva mi faceva orrore. Avevo il cervello inondato di numeri. Di notte avevo gli incubi e dormivo male. A un certo punto ho gettato a mare questa impostazione borghese della vita. Mia moglie, che ho conosciuto in quel periodo, mi ha aiutato molto in questo senso. È stata la prima a spingermi a diventare così come sono oggi. Perché anche lei voleva realizzarsi – come me. Purtroppo non è riuscita a farlo al mio fianco.
Per lei esistono ancora confini, oppure li ha superati tutti?
Da un punto di vista borghese, io sono uno che i confini li travalica. Per questo motivo do fastidio a molti. Ci sono alpinisti che dicono: non va bene come fa le cose Messner. Lui è disposto a sacrificare la sua vita e, se necessario, passa sopra la vita degli altri. Qualche personaggio invidioso ha compiuto atti vandalici contro la mia macchina, ho anche ricevuto lettere, naturalmente anonime, in cui mi si invita a tagliarmi la criniera, una volta per tutte, e ad assumere un aspetto più decoroso. Su gente di questo tipo esercito un effetto eccitante, perché mi faccio un baffo delle convenzioni e ho comunque successo. Non rientro nella loro visione del mondo. Io però rispetto i limiti, le leggi della natura.
(Playboy Interview 1, Moewig Taschenbuch 6402)