Ogni cosa al suo posto

 

Dopo il Nanga Parbat

Più di trent’anni dopo la tragica spedizione del 1970 alla parete Rupal, che costò la vita a mio fratello Günther, alcuni partecipanti di allora hanno preso spunto dalle circostanze non ancora chiarite della sua morte per avviare una campagna denigratoria senza precedenti. Pungolati da Gerhard Baur, l’unico che si trovava con me e Günther nell’ultimo campo alto, e dai funzionari di alcune sezioni dei club alpini, gli accusatori hanno sostenuto la tesi secondo cui avrei rispedito giù mio fratello, sofferente per il mal di montagna, da solo lungo la parete Rupal, facendogli ripercorrere la via di salita, allo scopo di suscitare clamore con la mia traversata della montagna. Un’imputazione mostruosa, montata a scandalo dai giornalisti dello Spiegel, della Süddeutsche Zeitung e di Profil, senza che le circostanze siano mai state indagate seriamente e con precisione.

Il ritrovamento dei resti di mio fratello nel 2005 sul ghiacciaio Diamir ha provato la malafede dei calunniatori. La campagna di diffamazione è stata svelata per quello che era: un patetico tentativo di mietere attenzione, riconoscimento e applausi, magari anche di distogliere l’attenzione dal fatto che nel 1970 nessuno era venuto a cercarci nella valle Diamir.

«CI SI ATTACCA CON LE UNGHIE ALLA VITA. SI DIVENTA COME UN ANIMALE»

Messner, se devo credere ai suoi amici di un tempo, che più di trent’anni fa sono stati con lei al Nanga Parbat, il suo primo ottomila, allora la definizione che più le si addice sarebbe: un misero traditore.

Ah, anche lei crede a questo sublime cameratismo fra compagni di scalata? Mitologia degli anni Trenta, un cliché del periodo nazista. Eroismo fino alla morte? Che immagine fasulla! La montagna chiama, poi viene il tramonto, ci si divide l’ultimo sorso d’acqua, si muore per un compagno – molto kitsch, terribile. In montagna non esiste una morale particolare. Ognuno di noi, quando la situazione si fa seria, abbandonerebbe l’altro. Nessuno può caricarsi in spalla un moribondo, sulla vetta dell’Everest, per riportarlo a valle. Solo chi non c’è mai stato può affermare cose del genere. È quanto c’è di peggio nell’atteggiamento romantico degli alpinisti. Ci si attacca alla vita con le unghie e con i denti, ci si attacca all’altro, si diventa come un animale.

È proprio questa l’accusa che le viene mossa: nel 1970 sul Nanga Parbat suo fratello Günther è morto, perché lei è voluto entrare nella storia – a ogni costo – come il primo uomo ad aver compiuto la traversata di un ottomila.

Imputazioni fasulle, riportate da persone che non hanno la minima idea delle circostanze.

Lo dicono anche persone come Gerd Baur, Max von Kienlin e Hans Saler, che hanno partecipato alla spedizione.

E allora? Forse anche loro non riescono a perdonarmi il fatto di essere sopravvissuto? Sopravvissuto fino a oggi! Cos’altro potrebbe spiegare il furore insito nelle loro esternazioni? Farei meglio a non parlarne.

Perché ha dovuto prendere posizione rispetto alla menzogna della sua vita? Cioè di aver conquistato la fama al prezzo della morte di suo fratello?

Questa è una calunnia bella e buona. Rinfacciandomi queste cose la gente dimostra di non essere a posto! Hanno forse qualche problema psichico? Oppure non hanno raggiunto il riconoscimento al quale ambivano? Comunque trovo eccellenti e apprezzo i risultati che hanno raggiunto.

Eppure loro vedono le cose diversamente, molto diversamente. Per trentadue anni lei ha taciuto sui fatti del Nanga Parbat, fino a quando è stato attaccato: «Qualcuno, più anziano di me» ha detto, «sarebbe ben contento se i due fratelli Messner non ricomparissero più, e questa è la vera tragedia».

Questa affermazione non ha nulla a che fare con chi oggi mi attacca. E che la utilizza come scusa. Ho elencato tutte le accuse che mi vengono rivolte nel libro La Montagna Nuda. Mi sono dovuto confrontare con la morte di mio fratello, in modo radicale, autocritico. Alla fine ho creduto di essere impazzito sul Nanga Parbat. No, nessuna accusa alla squadra. Nemmeno ora. Ma sono loro che non digeriscono il fatto che io sia sopravvissuto. Perché sono il solo a sapere cosa è successo sulla vetta, resto l’unico testimone.

Le cose potrebbero essere andate così: in vetta lei si è reso conto di trovarsi di fronte alla possibilità concreta di diventare immortale grazie a un’impresa unica nella storia, la traversata di un ottomila, scendendo lungo l’altro versante, lo sconosciuto versante Diamir. C’era un solo problema: suo fratello che soffriva per la quota.

Questa è una stupidaggine. Della discesa esiste un’unica versione.

La vetta del Nanga Parbat da sud.

La vetta del Nanga Parbat da sud.

Che dovrebbe essere la sua.

Non potrà mai essercene un’altra. In vetta eravamo esausti, per niente euforici, non abbiamo partorito sommi pensieri, un bel niente. Eravamo stati molto lenti, eravamo solo felici che non dovessimo più salire. La traversata non sarebbe stata né un record né un grande successo. Nell’alpinismo non si tratta mai di record, perlomeno non nel mio caso.

Come, scusi?

Sì. A me interessava il fatto che si trattasse della più grande parete di ghiaccio e roccia al mondo, la parete Rupal. Una parete alta come la est del monte Rosa, la nord dell’Eiger e il Cervino tutte insieme! La parete in assoluto! 4500 metri! Nel 1970 era la parete chiave. Aveva assunto un carattere simbolico, era più importante dell’Everest. Certo, eravamo ambiziosi, eravamo letteralmente posseduti dal pensiero di quella parete. Era il nostro sogno. No, non sono andato sul Nanga Parbat ad acchiappare farfalle. Abbiamo fatto la parete. Sarebbe stato sciocco mettere a rischio questo risultato aggiungendo all’impresa la traversata, che inevitabilmente avrebbe comportato notevoli problemi.

Secondo Max von Kienlin lei era esaltato da questo sogno. Nel suo diario ha registrato quanto lei fantasticasse di questa traversata del Nanga Parbat, del fatto che fosse fermamente intenzionato a realizzarla – per una forma di «ambizione morbosa».

Ognuno può dire quel che crede. Ho anche parlato di alpinismo sulla Luna, ancora non ci ha pensato nessuno. I discorsi che si fanno al campo base hanno ben poco a che vedere con le decisioni che si prendono in vetta. Certo, la parete Rupal mi ha fatto entrare nella storia. La traversata invece è passata inosservata. Chi riesce ad arrivare lassù desidera solo tornare indietro, vuole sopravvivere, vuole tornare giù con il bottino del risultato, nient’altro. Tutto il resto sono ipotesi, chiacchiere. Oppure vendette. Sì, vendette postume. Ammetto comunque di essere ambizioso.

Tanto ambizioso che suo fratello ha finito per pagare con la vita questa sua ambizione.

Un’altra stupidaggine. Queste cose le dicono le persone che non capiscono la natura dell’uomo.

La prego, lo afferma anche Gerd Baur, che aveva un ottimo rapporto con suo fratello Günther. È stato con voi due all’ultimo campo sotto la vetta. È convinto che lei, lassù, abbia lasciato indietro suo fratello.

Purtroppo. Ma cosa lo spinge a formulare un’accusa così perfida? Gerd è un ottimo alpinista, dovrebbe essere in grado di immedesimarsi nella situazione.

Ma è quello che ha fatto.

Come, scusi? Io – e non tutti questi signori – ho scritto dettagliatamente della scomparsa di mio fratello. Mi sono fatto carico di tutte le critiche e le accuse che mi hanno rivolto. No, io non so in quale punto preciso mio fratello è morto. Ho scritto che probabilmente mio fratello è morto sotto una slavina, in basso, alla base della parete Diamir. Non c’è altra risposta.

È proprio questo che i partecipanti alla spedizione al Nanga Parbat mettono in dubbio. «La slavina», affermano, sarebbe stata un’invenzione «per mettere al riparo Reinhold, un’invenzione per i genitori, in modo da poter attribuire la responsabilità alla natura».

Che ipocrisia! Ma chi vuole avere a che fare con gente del genere in montagna? Sono orgoglioso di essere solo in questa storia. Io sono solo. Cosa fanno questi signori se il ghiacciaio restituisce i resti di mio fratello? Prima o poi in montagna i resti riemergono. A quel punto si chiariscono le cose. Due anni fa hanno trovato un osso sul ghiacciaio. Farò eseguire un esame genetico su questo osso. [L’analisi ha poi identificato l’osso come appartenente a Günther Messner; nota di Reinhold Messner.]

Come abbiamo già detto, suo fratello è rimasto in alto, sulla montagna.

Dove precisamente, signor Luik? Adesso, magari ricorrendo alle sue arti divinatorie, ci dirà in che punto è morto? Che spudoratezza!

Anche la rivista viennese Profil mette in dubbio la sua versione e si pone la questione: «Reinhold Messner è o no colpevole della morte di suo fratello?», mentre lo Spiegel definisce le sue spiegazioni «temerarie». Il settimanale altoatesino FF, invece, ritiene che la morte di suo fratello sia un «caso criminale».

Ma cosa pensano di poter dimostrare questi signori redattori? Niente! La cosa triste è che sempre più spesso chi sentenzia in questa vicenda è un profano senza alcuna conoscenza delle circostanze. Falsificano i fatti. Anche la Süddeutsche Zeitung e lo Spiegel. E questo per giustificare le voci che sono circolate.

Lei si dimentica di lei stesso.

No, lasciamo perdere. Quei signori non sono stati in vetta. Non c’è stato nessuno di Profil e nemmeno di FF. L’ordine dei giornalisti potrà giustificare questi signori, sanno certamente cosa fanno, ma non conoscono ciò di cui parlano. Io scrivo da solo, e quello che scrivo vale certamente quanto quello che loro copiano.

Lei forse accetta solo l’opinione di chi è stato su un ottomila?

Troppo facile. Ho un rispetto assoluto per chi indaga in modo serio.

Okay, allora per favore dica o scriva una sola cosa: la verità sulla morte di suo fratello.

Io non parlo mai di verità. È un valore troppo elevato. Se esistesse la verità, esisterebbe anche Dio. In questo caso ci sono solo fatti e ricordi, tante verità ricordate quanti sono stati i partecipanti a questa spedizione sul Nanga Parbat. Perché, secondo lei, ho scritto questo libro dopo trent’anni e l’ho pubblicato dopo trentadue?

Perché lei è colpevole della morte di suo fratello.

Sì, e anche per chiarire le cose definitivamente. Sono io e solo io a dover fare i conti con la tragedia dell’essere sopravvissuto. Io ho la responsabilità della morte di mio fratello. Nessun altro! L’ho detto tante volte, e ho anche descritto come sono andate le cose. In modo molto più netto di quanto non abbiano mai fatto le accuse a me rivolte da questi giudici «fai da te». Per questo motivo mi domando anche come mai questi alpinisti si agitino tanto.

Perché la sua storia contiene dei riferimenti quasi biblici: Reinhold, dov’è tuo fratello Günther?

Caino e Abele – il racconto che ci insegna che non si deve ammazzare il proprio fratello. Non è normale. Per il proprio fratello si fa qualunque cosa, istintivamente e fino a quando questo è possibile. Chiunque si caricherebbe anche in spalla il fratello, fino alla morte. Forse si tratta di un comportamento condizionato dalla genetica. Non si può agire contro la propria natura. Per un fratello si fa più che per chiunque altro. Questo istinto di conservazione si spinge fino alla morte. Ma noi non eravamo solo fratelli, costituivamo una cordata, una coppia. Abbiamo condotto una vita preclusa a chiunque altro. Sulle Alpi abbiamo fatto le cose più pazze! Ridiscendere dal Nanga Parbat lungo l’altro versante, la parete Diamir, era la nostra unica chance. Non c’era altra possibilità. L’unica via di scampo. Eravamo stanchi, non c’era altra scelta. All’improvviso si è trattato solo della sopravvivenza, della salvezza di entrambi, di nient’altro.

Ma come mai lei è sceso con suo fratello lungo un terreno sconosciuto, non attrezzato, con pericolo di slavine?

Perché non volevamo morire. Era l’unica possibilità. La situazione era chiara: non sarei mai riuscito a far scendere Günther lungo la parete Rupal, allora meglio scendere dove la via appariva più semplice.

I suoi compagni danno un’altra interpretazione dei fatti. Dicono che in realtà la situazione era più difficile. Una vera e propria follia.

Mi scusi, in vetta ci sono stato io o lei? Non auguro a nessuno di vivere una situazione d’emergenza come quella. Non avrei e non ho potuto agire diversamente.

È strano che suo fratello stesse male e che nonostante ciò portasse la cinepresa, quando a quelle quote anche un solo grammo è un carico eccessivo. Peter Habeler ha raccontato che sull’Everest «abbiamo addirittura spezzato in due i fiammiferi, per ridurre il peso».

Mio Dio! Non pensavamo più a dettagli del genere. Io ho cercato la via, ho battuto la traccia. L’unica cosa cui puntavamo era sopravvivere. È una situazione bestiale, a meno quaranta gradi – sempre all’aperto, anche di notte. Niente da mangiare. In ipotermia. Non avevamo nemmeno un fornelletto, niente. Neanche l’acqua. Forse è in queste situazioni che si scatenano le allucinazioni, che ci hanno quasi fatto perdere la ragione. Così a lungo senz’acqua! Saremmo morti per la disidratazione. Morire non è difficile, ma la paura di morire ti sostiene. Il fatto che alla fine sia sopravvissuto è un vero miracolo – e questo molte persone non lo accettano.

Un’altra stranezza: lei fa scendere suo fratello lungo la parete Diamir, ma quando a Gilgit incontra la squadra, lei domanda: «Dov’è Günther? Dov’è Günther?»

È logico! Continuavo a cercarlo. Ero in uno stato di schizofrenia. Per giorni e giorni mi ero trascinato attraverso la valle Diamir sulle mani e sulle ginocchia, più morto che vivo. A tratti con la sensazione che qualcuno stesse scendendo lungo la valle, qualcuno che stava per morire. Ero forse io? Fino all’ultimo ho pensato che mio fratello fosse dietro o davanti a me, a destra o a sinistra. Era ancora lì? Continuavo a gridare il suo nome. Ero solo, impotente. Mi sentivo come se stessi camminando accanto a me stesso. Ho urlato il nome di Günther come un animale ferito. Il dolore per la separazione è durato anni.

Le manca ancora oggi?

Sì, ma ormai ho stabilito uno stretto contatto con lui. Mio fratello è vivo, non solo come rappresentazione, ma anche nella realtà. Sono appena stato sul monte Pelmo. Lì, nel 1965, abbiamo fatto insieme la parete nord – sotto un temporale furibondo. Mi sono chiesto, e ho chiesto anche a lui, come abbiamo fatto quella volta a venire giù, in mezzo a quei fulmini e a quei tuoni.

2005, periplo del Nanga Parbat, la montagna che mi ha formato più di qualunque altra.

2005, periplo del Nanga Parbat, la montagna che mi ha formato più di qualunque altra.

Lei vede e sente suo fratello come se fosse accanto a lei?

Sì, adesso che ho scritto di lui, era seduto accanto a me. È diventato il mio accompagnatore virtuale. Mentre scrivo sono fermo a trent’anni fa, mi sono infilato in quella grotta di ghiaccio a seimila metri di quota. Lui è rimasto giovane come allora, sul Nanga Parbat.

E non le ha detto: «Reinhold, non raccontare tante storie!»

Non ne ha motivo. Fra noi non ci sono problemi. Ho fatto tesoro delle sue energie e di molte sue visioni.

Molto esoterico.

Certo! Eppure ho davvero energie per due, tante idee e voglia di vivere.

Non è mai stato da uno psicologo?

No.

Perché la spaventano gli abissi della sua anima?

No. Mi sento bene. Chi è abituato a spingersi al limite, chi si trova spesso solo ad affrontare situazioni estreme, impara parecchie cose di se stesso. Io ho sperimentato gli abissi della mia anima come pochi altri. Sul Nanga Parbat mi sono trovato in una situazione di morte. Sono arrivato al punto di accettare di morire. Sono tornato come se fossi sopravvissuto alla mia morte. Ma ho perso mio fratello e non so esattamente cosa gli sia accaduto. Continuo ancora a domandarmi: quando sono cominciate le allucinazioni, dove potrebbe essere rimasto Günther?

La scomparsa di suo fratello l’ha molto cambiata.

Sì, da allora vivo la vita con più coraggio, con più spavalderia. Gioco tutte le mie carte. Dalla morte di mio fratello vivo obbedendo al motto: Faccio solo ciò che faccio volentieri. Non mi interessa sapere cosa avrò domani, bensì ciò che faccio ora.

Non sopporta la quiete.

No. Sono un uomo d’azione, sono fatto così. E mi ritengo soddisfatto solo quando ottengo il meglio. So che il mio comportamento è elitario. Non faccio cose stravaganti o superficiali. Voglio solo ottenere il massimo da me stesso. Ora sto dando vita a un museo della montagna, no, anzi, al museo della montagna. Ce la farò, e naturalmente ci sarà qualcuno che dirà che Messner sfrutta gli altri, che Messner passa sopra i cadaveri degli altri per affermare il suo museo della montagna. Sì, riuscirò a superare anche questi ostacoli.

La sua ex moglie Ursula Demeter una volta ha detto che lei è un mangiatore di uomini.

Non lo nego. Che infondo entusiasmo negli altri e poi utilizzo la loro motivazione, magari anche la sfrutto, che gli porto via la vita – alcuni hanno raggiunto la notorietà così.

Lei sa essere brutale. Un tempo diceva: «Quando torno a valle ci deve essere una donna. Ne ho bisogno».

Cos’ha a che fare l’amore con la brutalità? Ho sempre avuto donne molto forti al mio fianco, da mia madre fino a Sabine, la mia compagna. Perché mai dovrei passare da uomo disturbato, insoddisfatto?

Signor Messner, ma lei che tipo è?

È una questione di cui non mi occupo. Sono ciò che faccio – così si legge sul mio sito web. Dal punto di vista morale non sono meglio di altri, non idealizzo nulla, faccio ciò che ritengo giusto.

Un paio d’anni fa lei ha dichiarato: «Io sono il Re Sole!»

Purtroppo. È ancora un mio problema. Ho più o meno paralizzato tre generazioni di alpinisti. Quanti sono quelli che soffrono per ciò che ho fatto o scritto oppure...

... per le cose che lei dice: «Sono convinto del fatto che negli ultimi trent’anni le affermazioni più essenziali sull’alpinismo siano state pronunciate da me».

Sì, è così. Ho scritto più di quaranta libri. Purtroppo al mondo non esiste nessuno che possa salire sul palco a trattare con me, sullo stesso piano, argomenti storici, morali e geografici legati all’alpinismo.

Che megalomania!

E perché? Il mio problema è che le cose stanno proprio così. E perché mai non dovrei dirlo? E se la storia mi darà ragione, sarò pure considerato un prepotente!

Poveretto!

Capisce il mio problema? Sono in trappola. Capisco perfettamente che qualcuno possa avere problemi a trattare con me. Arved Fuchs, per esempio...

... con cui ha attraversato l’Antartide...

... sì, lui era il navigatore, l’esperto sul ghiaccio. Senza di me non sarebbe certo diventato famoso come è, non c’è dubbio.

L’ho già detto: io parlerei di megalomania.

No, io direi pragmatismo! Chi è stato a procurare il milione per l’Antartide? Fuchs oppure io? Fuchs ne ha tratto vantaggio. Come Peter Habeler, con cui ho fatto l’Everest. Ho ipotecato la mia casa per finanziare l’Everest. Lui la sua se l’è costruita, grazie al risultato ottenuto. Una lieve differenza. Tutte queste persone sono eroi dei miei libri. Sì, erano i migliori, ma non sono stato io a diventare grande sulla loro pelle.

Non ha mai paura di se stesso?

Non ho paura di niente.

Adesso lei ha cinquantasette anni, è famoso in tutto il mondo, i suoi libri vendono milioni di copie, è l’alpinista più noto di tutti i tempi: ma è anche felice?

E chi può essere felice? Per me la felicità non è così importante, è quasi noiosa. Del resto ho poco tempo per essere insoddisfatto. Chiunque capisca qualcosa di psicologia, intuisce dove sta il mio punto debole. Nella mia vita sto godendo di una «fioritura tardiva». Ho un quarto bambino, la mia idea di museo si sta realizzando, non esiste libro di montagna che vada più a fondo del mio La Montagna Nuda. Ho analizzato la mia psiche come non mai. È da qui che nascono gli attacchi contro di me. È difficile descrivere la sensazione di impazzire e di essere totalmente apatico. Non ho riguardi nei confronti di me stesso, non voglio addolcire nulla. Perché solo se sono preciso posso avvicinarmi alla natura umana, solo così posso produrre buona letteratura.

È importante per lei?

Sì, ma non mi chiedo se sono soddisfatto o no. Lo sono. Non sono orgoglioso di ciò che ho fatto. Gli ottomila oggi non contano più niente per me. Sono perfino infastidito quando in certi discorsi elogiativi vengo descritto come il «conquistatore degli ottomila». Non mi sono mai posto l’obiettivo di conquistare tutti i quattordici ottomila, le cose sono andate così, non è importante. Quello che ho fatto come alpinista è biografia. Porto con me queste esperienze nel mio zaino, ma non è lo zaino a portare me.

Perché lei sa che in fondo non è stata una grande impresa salire quelle montagne.

Le montagne sono lì. Quindi io le salgo. Ognuno di noi attribuisce il suo significato alle montagne. L’idea che arrampicare sia una facezia, perché obbedisce a schemi comportamentali scimmieschi, mi piace. Meglio la scimmia alla mediocrità.

Lei ha fame di fama.

A tutti piace essere amati. Quando ho realizzato gli ottomila mi sono liberato di un peso. Adesso per me appartengono alla storia. Alla mia età mi capita spesso di incontrare persone che ciondolano in giro ingobbite, e dicono: «Non vale la pena di vivere». A me invece non mancano gli obiettivi, per raggiungerli faccio qualunque cosa. Tutto. Perché sono vivo solo nella sottile zona di confine fra l’eccesso e la vera autodistruzione. Nel momento in cui non avrò più visioni mi toglierò la vita.

(STERN, ottobre 2002)

«È MIO FRATELLO»

Messner, lei sta compiendo il periplo del Nanga Parbat con un gruppo di viaggio della Zeit. Ha raggiunto il punto dove alcune persone del luogo sostengono di aver ritrovato i resti mortali di suo fratello Günther, scomparso trentacinque anni fa. È così?

Torniamo ora dal luogo del ritrovamento.

Ha trovato suo fratello?

È indiscutibile che si tratti di mio fratello. I quattordici componenti del mio gruppo possono testimoniare il ritrovamento.

Cosa la porta a questa certezza assoluta?

Ci sono resti di quello che indossava e parti dello scheletro, poi questo scarpone. E sullo scarpone alcuni particolari, per esempio un anello per fissare il rampone, che avevamo solo noi. E nessun altro.

Cos’altro ha trovato?

I frammenti di vestiti coincidono esattamente, a partire dai calzettoni, fino alle mutande e ai mutandoni, tutto corrisponde a quello che indossavamo nel 1970. I capelli sono i suoi.

Cosa significa per lei questo ritrovamento?

Per me è importante che in questo modo si chiarisca che i miei avversari hanno inteso inscenare intenzionalmente una campagna denigratoria nei miei confronti. Mio fratello è stato trovato sul versante Diamir e non, come loro avevano sostenuto, sul versante Rupal della montagna.

Secondo lei questo indebolisce tutte le altre teorie?

Hanno detto che avrei rispedito giù mio fratello lungo la via di salita. Ma allora non sarebbe stato ritrovato in quel punto. E non hanno forse detto, letteralmente, che avrebbero tutti fatto una figura da teste di rapa, se mio fratello fosse stato ritrovato sul versante Diamir della montagna?

Dove ha ritrovato esattamente il corpo?

A circa 4300 metri di quota, sulla morena mediana, appena sopra il campo base. A tre chilometri dal luogo dell’incidente. In trentacinque anni il ghiacciaio lo ha trasportato lungo quel tratto. Vicino al punto dove cinque anni fa è stato trovato il primo osso, circa cento metri più in basso.

Come sarà il suo addio a suo fratello Günther?

Per domani abbiamo organizzato la sepoltura con una piccola cerimonia. Ci saranno tutti i partecipanti del nostro viaggio di Zeit. Faremo come si fa in Tibet. Canteremo «Lhagyelo, gli dei sono stati pietosi» e lanceremo riso in aria, anche per essere in pace con il luogo, qui in Himalaya.

Come sarà la tomba?

Abbiamo scelto un grosso masso, sul quale fisseremo una tavola, che abbiamo portato da casa. Lì accanto costruiremo un grosso chorten, simile agli ometti di pietra segnavia, una piramide di pietra di sette piani, come luogo commemorativo.

Lei personalmente come ha vissuto il momento del ritrovamento?

Mi ha molto commosso. Porto con me questa responsabilità da trentacinque anni. Per me il ritrovamento è anche la conferma di una certezza, perché ho sempre saputo che sarebbe riapparso qui.

Le sue parole rivelano un grande compiacimento.

Certo, c’è anche un grande compiacimento. La campagna che ho subito e che è durata tre anni non ha eguali nella storia dell’alpinismo.

(Die Zeit, settembre 2005)

IL RITROVAMENTO

Lo scarpone di Günther Messner.

Lo scarpone di Günther Messner.

Trentacinque anni dopo, sul versante Diamir del Nanga Parbat, lei ha ritrovato i resti mortali di suo fratello Günther. Che significato ha per lei questo fatto?

Quando tre anni fa abbiamo rinvenuto un osso di mio fratello avevo individuato la zona dove con ogni probabilità si trovava mio fratello, sotto il ghiaccio. Ma quel ritrovamento è stato piuttosto inutile – avevo solo un osso. Restava aperta la questione: dov’è mio fratello? Per me Günther è sempre stato più di un fratello, era il mio compagno di cordata. Quando all’improvviso è scomparso ho avvertito una specie di amputazione psichica, e questa emozione mi ha perseguitato fino a oggi. Ora ho raggiunto la certezza. Sì, ciò che allora mi era stato «amputato», è tornato come una realtà assolutamente tangibile. Questo mi aiuta a superare il senso di colpa: perché io sono sopravvissuto e lui no.

Cosa intende per realtà tangibile?

Abbiamo trovato diverse ossa, costole, la colonna vertebrale, l’omero, la spalla, il bacino. Certo, sono solo ossa. Ma c’erano anche i suoi vestiti, ormai a brandelli. La massa del ghiacciaio in movimento ha sparpagliato le parti del suo corpo su una superficie grande come una stanza. Ho rimesso insieme quel che restava di lui, come un puzzle. La «chiave» è lo scarpone destro – che ha indossato solo in quella spedizione e che era stato studiato appositamente per noi.

Günther era forse troppo debole per tenerle dietro?

No, ha solo avuto sfortuna, mentre io ho avuto fortuna. O viceversa.

Perché viceversa?

In questi trentacinque anni non ha dovuto sopportare le accuse costanti e le menzogne che sarebbero state pronunciate contro di lui se fosse sopravvissuto.

Dice sul serio?

Sì, dico sul serio. La campagna diffamatoria intorno alla morte di mio fratello resta un crimine, uno degli scandali peggiori che si siano verificati nel mondo dell’alpinismo. Che il capospedizione e gli altri membri si inventino delle storie è un problema loro, ma arrivare ad accusarmi di aver abbandonato mio fratello, questo è imperdonabile. «Messner ha rimandato giù il fratello lungo la parete Rupal, per poter essere il solo a godere del trionfo di aver portato a termine la traversata», hanno detto. Il poveretto sarebbe morto sulla parete Rupal. Ora abbiamo dimostrato che non è sceso lungo la Rupal e quegli imbecilli che hanno sostenuto questa tesi, a questo punto vengono additati come bugiardi, imbroglioni e criminali – perché anche la diffamazione è un reato!

Da un lato lei continua a sostenere di assumersi la responsabilità per la morte di suo fratello. Dall’altro non ha nulla da rimproverarsi – la prego, cerchi di chiarire la sua colpa.

La mia colpa sta nell’aver perso mio fratello, nel non averlo protetto a sufficienza. Ho cercato di riportarlo giù dalla montagna, con ogni mezzo e mettendo a repentaglio la mia stessa vita. Ma non ce l’ho fatta. Non si tratta di una colpa morale, bensì emotiva. La colpa è ben espressa dalla domanda: Perché proprio io sono sopravvissuto? Credo sia un’ingiustizia. In fondo saremmo dovuti morire tutti e due.

Le è rimasta anche la sensazione di aver fallito nel suo ruolo di fratello maggiore?

Tutti abbiamo il dovere di prenderci cura del fratello minore. È una legge naturale che ci portiamo dentro. In una situazione di rischio estremo ho fatto di tutto: ho trovato la via giusta, l’ho cercato, l’ho chiamato. Ma solo io sono arrivato giù. Questo è e rimane il mio «stigma» – e questo è stato sfruttato da altri per trarne profitto ricorrendo a bugie e calunnie. Solo una persona disturbata può pensare che qualcuno possa piantare in asso lassù il fratello vivo. Alla fine ho salvato la mia vita, perché per la sua non c’era più niente da fare – anche questa è una legge della natura. Non sono stato io a portarlo con me. È stato lui, pare in seguito a un’esplosione di rabbia, che mi è venuto dietro, per i fatti suoi. Ci siamo incontrati a quasi ottomila metri – e lì abbiamo commesso un errore, da un punto di vista puramente alpinistico: saremmo dovuti tornare indietro, perché era ormai tardi e non eravamo attrezzati per affrontare un bivacco notturno. Invece siamo andati avanti, senza nemmeno prendere in considerazione la possibilità di lasciar perdere. Sì, abbiamo agito così, tutti e due, insieme.

Avrebbe preferito che lui non fosse salito?

Avrei preferito realizzare quell’impresa da solo. Da solo sarei stato più agile e soprattutto responsabile solo per me stesso.

Forse nel momento in cui l’ha raggiunta, lei avrebbe dovuto dimostrare più fermezza e dirgli: «Günther, togliti dai piedi, torna indietro!»?

Io sono convinto del fatto che in quella situazione nessun fratello si sarebbe comportato così – e Günther secondo me se lo immaginava. Era perfino più cocciuto di me – aveva rinunciato al lavoro in banca pur di partecipare alla spedizione. Già questo dimostra che la vita borghese non lo soddisfaceva. Dal momento in cui ci siamo incontrati abbiamo capito – istintivamente – che avremmo agito insieme. Conoscevamo entrambi i rischi di una salita in vetta, ma speravamo ancora di farcela. Fino a quel punto avremmo potuto evitare la tragedia, da lì in poi non più. In questi casi non è possibile valutare la situazione con criteri di giudizio convenzionali.

Suo fratello l’ha seguita per non restare nell’ombra? Forse lei era il suo modello?

No, eravamo partner alla pari, Günther era fisicamente forte quanto me. Dal punto di vista tecnico aveva meno esperienza, in questo caso una differenza d’età di due anni significa molto. Certo, avrei potuto rimandarlo indietro – ma non l’ho fatto. Mi pare che sia comprensibile, non si spedisce indietro un fratello a un passo dal successo.

Cos’è stato più importante in questa situazione: le maggiori probabilità di sopravvivenza oppure il successo?

La probabilità di sopravvivere a quel punto non era ancora in discussione. Se fossimo stati sicuri che sarebbe successo qualcosa, non saremmo andati avanti.

Allora diciamo così: cosa sembra più importante in una dinamica del genere?

La nostra è stata una scelta emotiva, non razionale. Avevamo ancora qualche speranza di arrivare in vetta insieme. Non ci trovavamo nella situazione di poter dire con certezza: se proseguiamo uno dei due perderà la vita. Questo si è verificato solo molto più tardi. Dopo la vetta...

Una volta, durante un’intervista, lei mi ha detto: «Chi muore nella natura inviolata ha fallito nella conquista dell’inutile». Suo fratello ha forse fallito?

No, non ha fallito – ha solo avuto sfortuna. Ma quando per tutta la vita un alpinista si mantiene sul confine fra possibile e impossibile, deve fare i conti con l’eventualità di perdere la vita. Prima di ogni impresa al limite io faccio testamento – letteralmente. Perché ogni volta potrei non tornare. Sarei un folle se sostenessi di essere un’eccezione. Nessuno è un’eccezione. Le possibilità di morire sono innumerevoli. Quella volta, scendendo dalla vetta ci siamo trovati in una situazione disperata. Ora dopo ora, minuto dopo minuto, la nostra probabilità di sopravvivere si è mantenuta intorno al cinquanta per cento. Il fatto che non siamo morti entrambi è già un miracolo. Che uno dei due sia morto è una sfortuna.

Come ha vissuto la sepoltura trentacinque anni dopo?

Nel gruppo abbiamo deciso di procedere a una cerimonia del fuoco, secondo l’usanza tibetana. Abbiamo cercato un luogo elevato, dal quale si possano vedere il punto del ritrovamento, quello della morte e la vetta. È stato un momento davvero toccante. Il dottor Hipp, il medico del gruppo, ha tenuto un discorso tipicamente cristiano. Ha fatto riferimento a quei concetti che in genere vengono espressi dai sacerdoti: «Polvere siamo e polvere torneremo». La cerimonia ha unito culture diverse. È stata molto commovente, soprattutto per me. Io stesso ho allestito la pira e vi ho posto al centro i resti di Günther. Il giorno seguente abbiamo apposto una semplice targa commemorativa: GÜNTHER MESSNER: 29.06.1970. Il nome, il giorno della morte, nient’altro. È stato liberatorio, abbiamo condiviso il nostro cordoglio.

La targa commemorativa per Günther Messner nella valle Diamir.

La targa commemorativa per Günther Messner nella valle Diamir.

In che senso liberatorio?

In tutti questi anni ho continuato a tornare al Nanga Parbat. Per una necessità interiore. Noi tutti avvertiamo l’esigenza interiore di dare sepoltura ai nostri defunti. Ora anch’io ho potuto farlo.

All’inizio dell’intervista lei ha detto che Günther era ben più che un fratello...

Abbiamo entrambi cominciato molto presto ad arrampicare, già a dodici, tredici anni eravamo indipendenti. Molto ingenui, perché non avevamo alcuna idea del mondo delle grandi montagne. Nelle Dolomiti ci siamo cercati da soli le nostre vie, le nostre salite, abbiamo fatto ogni cosa insieme. Io e Günther eravamo una cordata molto unita, alla quale nessun altro poteva avvicinarsi. Quando arrampicavamo ci estraniavamo in un altro mondo, al quale nemmeno i nostri genitori avevano accesso.

Gira voce che una volta lei abbia trovato suo fratello, rannicchiato nella cuccia del cane, dopo essere stato picchiato da vostro padre.

Siamo sempre stati una famiglia unita e lo siamo ancora adesso. Ma la storia della cuccia del cane purtroppo fa parte della dura realtà di quegli anni. Nostro padre era stato in guerra ed era tornato deluso, limitato nelle sue possibilità di vivere una vita agiata – questo lo rese piuttosto aggressivo e, soprattutto, incapace di trovare un punto d’equilibrio con il mondo esterno.

Suo padre era un nazista?

Sì, come idee era un nazista.

E poi il fratello maggiore porta il piccolo a combattere una guerra diversa, una guerra contro la natura, e il piccolo non fa ritorno da questa guerra – i suoi genitori glielo hanno mai perdonato?

Inizialmente mio padre, al contrario di mia madre, insistette perché anche Günther si unisse alla spedizione. In seguito fu lui ad accusarmi, più di mia madre. Lei avrebbe preferito veder partire solo uno di noi, perché sapeva che il nostro percorso avrebbe potuto essere fatale...

Si ricorda le ultime ore trascorse con Günther?

Durante la discesa eravamo completamente disidratati. Inoltre eravamo in uno stato di terrore costante, temevamo che le pareti di ghiaccio, alte come grattacieli, precipitassero e ci seppellissero. Mio fratello aveva le allucinazioni, si lamentava per il freddo, aveva sete e paura. Ho cercato di consolarlo. Quando mio fratello è scomparso, anch’io ho cominciato ad avere le allucinazioni. In seguito ho sperato che i compagni arrivassero dal campo base per salvarci.

Lei tiene ancora oggi colloqui immaginari con suo fratello, ha un legame spirituale con lui?

A volte sogno di arrampicare con mio fratello. Quando passo vicino a una delle pareti che abbiamo affrontato insieme, è come se lui fosse lì. È come se dialogassimo. Spesso mi domando: cosa faremmo oggi, se fossimo entrambi sopravvissuti? Magari saremmo morti due anni dopo, tentando insieme un’impresa ancora più folle.

Nei suoi sogni suo fratello le ha perdonato quella che lei definisce la sua colpa?

Fra noi non esistono motivi di contrasto né accuse.

(News, settembre 2005)

HA SUBITO DEI TORTI?

Esattamente una settimana fa lei è tornato a valle dal Nanga Parbat, dove ha seppellito suo fratello. Quali sentimenti prova quando pensa a lui?

Idealmente Günther è ancora qui. Comunichiamo fra di noi. Penso che una persona sia veramente morta quando tutti la dimenticano.

Nel 1970 Günther non ha fatto ritorno da una spedizione che insieme al fratello Reinhold ha intrapreso sulla Montagna del Destino. Cos’è successo veramente allora?

Günther soffriva per la quota. Durante la discesa ho cercato di salvarlo, ma alla fine l’ho perso. Probabilmente è stato colpito da una slavina. Io sono sopravvissuto, ho avuto molta fortuna.

Sensi di colpa?

Sì. Mi tormenta anche questo interrogativo: chi ha avuto la sorte migliore? Lui, che è morto in un istante, o io, che per anni ho dovuto subire le insinuazioni peggiori che si possano immaginare?

Ancora oggi alcuni dei partecipanti alla spedizione di allora sostengono che lei avrebbe abbandonato suo fratello per pura ambizione alpinistica. È una calunnia?

Si tratta di menzogne consapevoli, parte di una campagna denigratoria che ha fatto soffrire per anni le nostre famiglie. Ora, dopo aver ritrovato mio fratello sul versante del Nanga Parbat lungo il quale siamo scesi, cioè sul versante Diamir, il mio onore è salvo. Perché i miei avversari hanno sempre affermato che io avrei ricacciato indietro Günther lungo la via di salita, la parete Rupal, rimandandolo a valle e quindi verso la morte.

È vero che dietro alla versione ufficiale del dramma si nasconde in realtà una vanità maschile offesa?

Sì, anche questo è vero. Uno dei membri della spedizione, il cui nome è noto a tutti, venne lasciato dalla moglie, che in seguito io avrei sposato. Vive e lavora in Alto Adige. Ancora oggi abbiamo un buon rapporto, anche se ci siamo separati. Nel passato si sarebbe giunti a un duello, forse sarebbe stata una soluzione più equa.

Quest’uomo le ha mai chiesto scusa?

No, e non lo farà mai. Si è spinto troppo in là, cercando di gettare fango sulla mia persona. Si dimostrerebbe così l’esistenza di documenti contraffatti. Mi basta che molti sappiano che ho fatto tutto il possibile per salvare mio fratello.

Ora ha trovato la sua pace interiore?

L’ho sempre avuta. Per me questa dimostrazione non era affatto necessaria.

Adesso suo fratello dove riposa?

Abbiamo scelto un rito del fuoco, secondo la tradizione tibetana, e i suoi resti mortali – ossa, costole, la colonna vertebrale, il bacino, la spalla, l’omero, ciuffi di capelli, brandelli dei vestiti – sono stati bruciati. Il ghiacciaio ha disperso le parti del suo corpo su una superficie grande come una stanza. Io stesso ho posto sulla pira i suoi resti. Le ceneri di Günther sono custodite in un chorten, una piramide di pietra, costruito sotto il Nanga Parbat. È stato un momento veramente bello...

Pensa che anche Reinhold Messner vorrà essere sepolto così?

Non in montagna. Per tutta la vita ho cercato di non morire in montagna. Obbedendo al motto: l’arte dell’alpinismo sta nell’opporsi alla morte. Ma anch’io dovrò morire, per questo motivo sotto Castel Juval, in Alto Adige, dove abito, ho eretto un chorten. Pronto.

Fra una settimana lei compirà sessantun anni. Quali altre sfide può affrontare un uomo che ha realizzato i quattordici ottomila e ha attraversato l’Antartide, la Groenlandia e il deserto del Gobi?

Ci sono deserti più piccoli e montagne non così alte. Con l’avanzare dell’età si diventa sempre più impacciati e deboli, e bisogna fare attenzione a non perdere il momento giusto, perché poi certe cose non sono più possibili.

Nel torrione meridionale (a destra nella foto) del MMM di Firmiano troverò un luogo adatto per conservare lo scarpone di mio fratello.

Nel torrione meridionale (a destra nella foto) del MMM di Firmiano troverò un luogo adatto per conservare lo scarpone di mio fratello.

Tutto questo la spaventa?

No, anche perché per tutta la vita l’istinto mi ha guidato nel modo migliore.

Se potesse ritrovarsi con suo fratello, cosa farebbe?

Con ogni probabilità andremmo lontano, nella natura inviolata. Trentacinque anni fa Günther ha abbandonato la sua professione di bancario per salire con me sul Nanga Parbat. Era mosso dal mio stesso desiderio. Avremmo potuto passare tutta la vita in giro insieme. Almeno ora gli è stata resa giustizia. Infatti, come dice Ernst Jünger, il mondo è organizzato in modo che la meschinità non trionfi in eterno.

(Kronenzeitung, settembre 2005)

Il Messner Mountain Museum

Non so come sono arrivato all’idea di sviluppare una struttura museale intorno al tema della montagna. Non si tratta di un museo in senso classico. Ho in mente uno spazio d’incontro dove mostrare il significato delle montagne per l’uomo. L’Alto Adige, la mia patria, sarà la sede del museo. E visto che anche in questo caso ho incontrato molte opposizioni, quando ho cominciato a mettere in pratica la mia idea, ho deciso di ampliare il nucleo originario del progetto. Alla sede centrale, situata a Bolzano, presso Castel Firmiano, sono collegati quattro «satelliti», nei quali vengono trattati aspetti particolari del tema. Tutte le sedi nel loro complesso costituiscono il Messner Mountain Museum (MMM), un museo della montagna che si occupa della natura dell’uomo.

Intorno a Castel Firmiano, l’anima della mia struttura museale, si è aperta una lunga discussione pubblica, benché avessi dedicato alla sua realizzazione molto tempo, energia, lavoro e denaro. Soprattutto i fratelli Ebner, con campagne condotte sui mezzi di comunicazione e con l’aiuto di associazioni e gruppi consenzienti, hanno cercato di bloccare il progetto facendo leva sul loro potere mediatico. Convinto, in assoluta buona fede, che la mia idea possa favorire un efficace sviluppo turistico dell’Alto Adige, ho combattuto a lungo, per sei anni, dal 1995 al 2001. Ora siamo arrivati al punto: la regione Alto Adige mi mette a disposizione per un periodo di tempo limitato il castello restaurato di Sigmundskron. Il mio compito, per il quale mi impegno gratuitamente, è quello di riempire questa scatola vuota di contenuti e di vita e di svilupparvi un museo. Eventuali costi aggiuntivi saranno a mio carico. Tre dei quattro «satelliti» esistono già (Juval, Ortles, Dolomites), ma sono ancora alla ricerca di una sede per il tema «Popolazioni di montagna».

L’ardita copertura di cristallo delle rovine di Juval. Qui ha preso corpo la mia idea del museo.

L’ardita copertura di cristallo delle rovine di Juval. Qui ha preso corpo la mia idea del museo.

LA «GUERRA DEL MUSEO» A BOLZANO: TRENTO E INNSBRUCK LE ALTERNATIVE

Il Mountain Museum di Reinhold Messner a Sigmundskron: i guardiani del patrimonio artistico vogliono impedirne la realizzazione ricorrendo a un referendum.

Il museo della montagna di Sigmundskron diventerà realtà?

Che il Messner Mountain Museum sarà realizzato è certo. Devo dire grazie agli altoatesini, soprattutto ai signori della stampa: in dieci anni – questa storia è cominciata molto tempo fa – mi hanno spinto a concepire una struttura che va ben al di là del museo di Bolzano progettato in origine. Fin dall’inizio il giornale Dolomiten ha usato lo stesso trucco per danneggiarmi: trovano qualcuno che non mi sopporta, e gli offrono uno spazio enorme per esprimersi.

Ma altrove l’hanno trattata meglio.

Sì, è stata creata una struttura che ha un centro – a Bolzano – e quattro propaggini: Castel Juval, in val Venosta, dove mostro l’approccio religioso alla vita quotidiana da parte delle popolazioni di montagna; Solda, dove nel 2004 ho inaugurato il museo sul tema del ghiaccio, proprio ai piedi dell’Ortles – una montagna di ghiaccio, scalata la prima volta nel 1804 – dove ho quattrocento metri quadri di spazio espositivo, sotto terra; sul monte Rite, fra Belluno e Cortina, dove una volta correva il confine fra Italia e Austria-Ungheria, a 2200 metri di quota, in un’antica fortezza ho realizzato un museo che affronta l’argomento della roccia. Attualmente sto trattando – a Trento, e la trattativa sembra essere a buon punto – per realizzare una struttura che si occuperà del tema «popoli di montagna»: come vivono le genti in Himalaya, nelle Ande, nel Caucaso. In un libro, pubblicato quest’anno in occasione dell’«Anno delle Montagne», ho raccolto la documentazione su sessanta popolazioni di montagna – nei prossimi trent’anni intendo presentarle, ospitando ogni anno qui, da Pasqua fino all’autunno, due persone, un uomo e una donna, oppure una donna e due bambini con i loro animali – yak, lama, pony tibetani, cammelli della Mongolia. Vorrei realizzare il moderno museo interattivo. Per farlo mi serve una cascina – il castello di Beseno nei pressi di Rovereto potrebbe diventare la sede delle mostre collegate – e l’Università di Trento potrebbe avviare ricerche in campo etnografico.

Tuttavia il «centro» di Sigmundskron con la montagna come tema dell’arte figurativa è ancora molto combattuto dai media.

Inizialmente il governo regionale ha deciso all’unanimità che avrei potuto realizzare lì il mio museo. Una legge dello Stato italiano recita inequivocabilmente che nel caso in cui un singolo cittadino offra alla comunità qualcosa di unico, non si rende necessario un bando pubblico. Che non c’è stato nemmeno per il monte Rite. Anche in quel caso non sono il proprietario della struttura, solo il gestore. Ho proposto la stessa soluzione a Trento. Ma a Bolzano il quotidiano Dolomiten ha fatto pressioni tali sui politici che il presidente della regione ha ritirato la delibera, autorizzando così un bando a livello europeo. Il bando era formulato in modo che non avrei mai potuto permettermi di vincerlo – dato che avrei dovuto versare alla regione una cauzione equivalente al dieci per cento dei miei investimenti. Così ho rinunciato.

Ora il quotidiano Dolomiten scrive che il bando sarebbe stato modificato per favorirla; quindi l’intera procedura sarebbe illegale.

Il testo del bando è stato analizzato e si è giunti alla conclusione che non potesse essere presentato in quella forma. Così la regione l’ha modificato: ora è possibile partecipare. Non ho ancora preso una decisione. Il termine scade alla fine di novembre. Proprio ieri ho appreso che Dolomiten, nel caso vincessi, vorrebbe indire un referendum. È così che un quotidiano fa politica, un quotidiano che da venticinque anni cerca di mettermi in cattiva luce presso l’opinione pubblica. È ovvio che si provoca una reazione raccontando alla gente che Reinhold Messner ha in mente una specie di Disneyland e che intende distruggere uno dei luoghi più belli dell’Alto Adige.

Sigmundskron è un luogo politicamente «santificato» dal fatto che proprio lì il 17 novembre 1957 trentamila altoatesini dimostrarono al grido di «Los von Trient», «Via da Trento».

Nei miei libri ho apprezzato l’idea di allora di Silvio Magnago (il leader locale), perché costituisce la chiave della nostra autonomia. Ma la sistemazione della fortezza non ne ha tratto vantaggio. Chi ha lasciato che Sigmundskron andasse in malora? Non io. Chi ha permesso che accanto alla «terra santificata» sorgesse il più grande immondezzaio della regione? Il governo di Magnago!

L’immondizia però proveniva da Bolzano, una città italiana.

Magnago era presidente della regione, avrebbe potuto dire: non se ne parla nemmeno.

Da Dolomiten apprendo che dovrebbe trasferire il museo a Fortezza, nell’alta valle dell’Isarco. Un compromesso possibile?

No. Lì non è possibile. La fortezza è troppo cupa, non ha una posizione favorevole, sarebbe un fallimento – ovviamente questo lo sanno anche i miei avversari. Posso ottenere buoni risultati solo in una sede importante. Vorrei allestire Sigmundskron con i miei mezzi – compresi alcuni sponsor che so di poter coinvolgere. Al paese il tutto costa 6,5 milioni di euro per le infrastrutture. Consideri che il nuovo museo ladino è costato intorno ai dieci milioni. In Alto Adige tutti i musei sono imprese sovvenzionate, anche il museo di Ötzi.

Quindi non potrà affermare la sua posizione nella discussione pubblica?

Se non posso allestire il mio museo a Bolzano, lo trasferirò nel Nord Tirolo, oppure lo suddividerò fra Trento e il Nord Tirolo. Da Innsbruck ho ricevuto una proposta che dal punto di vista economico è molto più vantaggiosa, e a Beseno c’è una fortezza in condizioni migliori rispetto a Sigmundskron. In un modo o nell’altro realizzerò i miei programmi museali. Ho già anticipato parecchio, confidando in una risposta positiva da Bolzano.

Tutto è orientato alla sua capacità di ottenere un risultato. Speriamo solo che non le arrivi una tegola in testa. Stiamo comunque parlando di un orizzonte temporale di trent’anni.

La stessa domanda è sorta durante l’allestimento del museo del monte Rite – e la risposta ha soddisfatto entrambe le parti. A Bolzano dovremmo sederci attorno a un tavolo e parlarne. La mia raccolta d’arte è sparpagliata in vari depositi. I progetti sono disponibili nei dettagli. Possono farlo anche da soli. Se posso allestire il museo di Bolzano e trasmettervi il mio spirito, attirerà ancora più persone se andassi all’altro mondo, perché in questo caso le diffamazioni che mi vengono rivolte colpirebbero a vuoto. In ogni caso, a un certo punto dovrà occuparsene qualcun altro. Tutto resterà al paese. Molte opere sono così grandi che non si possono più trasportare. Una scadenza a trent’anni è molto lunga, per me eccessiva, preferirei venti.

(Die Presse, settembre 2002)

LA FILOSOFIA DEL MUSEO: «SE L’UOMO E LA MONTAGNA SI INCONTRANO PUÒ ACCADERE QUALCOSA DI GRANDE» (William Blake)

Dopo il tempo dedicato all’arrampicata, all’alpinismo d’alta quota e alle traversate sul ghiaccio, ora metto a disposizione la mia esperienza. Che deve essere accessibile a chiunque sia interessato. Con lo stesso entusiasmo con il quale per cinque decenni mi sono impegnato ad arrampicare, a praticare l’alpinismo d’alta quota, a camminare, ora mi dedico alla realizzazione del Messner Mountain Museum (MMM). Che non riguarda me stesso, bensì la natura dell’uomo e la montagna.

Tutte le sedi sono situate in luoghi importanti. Il MMM Dolomites sul monte Rite ha probabilmente la collocazione migliore. Nonostante le difficoltà per raggiungerlo, per la sua distanza da tutte le vie di comunicazione più importanti, la visita al monte Rite è un sogno. Il panorama a trecentosessanta gradi sulle vette dolomitiche, che nelle giornate limpide sono più di cento, è impagabile. Ma anche Juval in val Venosta e Solda all’Ortles sono luoghi di grande bellezza. A questi si aggiunge Castel Firmiano, il centro della struttura, la fortezza che si erge poderosa sopra Bolzano.

Sono ancora alla ricerca di un luogo adeguato per il tema «Popolazioni di montagna». L’idea complessiva del Messner Mountain Museum è distribuita su cinque sedi (una sede principale e quattro sedi minori), ognuna delle quali ha un suo punto caratterizzante.

Il MMM Dolomites, vette di vetro e di roccia a confronto in Cadore.

Il MMM Dolomites, vette di vetro e di roccia a confronto in Cadore.

La sede principale è l’MMM Castel Firmiano, il centro dell’iniziativa. È sorto nel castello di Sigmundskron, nei pressi di Bolzano. Sarà aperto dieci mesi all’anno. Qui intendo presentare soprattutto le montagne nell’arte, nonché la storia delle loro ascensioni. La fortezza ospiterà i pezzi più significativi della mia collezione. Oltre a ciò, esposizioni temporanee mostreranno come da secoli l’uomo rappresenta le montagne. L’MMM Castel Firmiano sarà anche un punto d’incontro per gli alpinisti di tutto il mondo. Ogni anno offrirà eventi diversi come rappresentazioni teatrali, settimane cinematografiche, appuntamenti musicali, conferenze e arte minore. La montagna sarà sempre l’argomento centrale.

L’MMM Ortles si occupa del tema del ghiaccio. È dedicato ai ghiacciai, alle calotte polari, alla neve, ed è aperto in estate e in inverno. Ogni anno ospiterà una mostra temporanea. La prima, nel 2004, in occasione dei duecento anni dalla prima ascensione dell’Ortles, era dedicata appunto al gruppo dell’Ortles: con i suoi ghiacciai è la montagna simbolo di tutte le montagne coperte dal ghiaccio. Inoltre, già da diversi anni a Solda è stato realizzato il più piccolo di tutti i musei Messner, il minimuseo MMM Curiosa. Raccoglie curiosità sulla storia alpina.

Sotto la parete nord dell’Eiger, discorso inaugurale nell’ambito di un’esposizione del pittore Stefan Huber, la cui arte è messa in risalto anche nel mio museo.

Sotto la parete nord dell’Eiger, discorso inaugurale nell’ambito di un’esposizione del pittore Stefan Huber, la cui arte è messa in risalto anche nel mio museo.

Nell’MMM Juval, il mio castello privato nei pressi di Naturno, in val Venosta, espongo oggetti esotici sul tema «Il mito della montagna», la dimensione religiosa della montagna. Bronzi tibetani, oggetti della cultura africana, dell’India e del Nepal vanno al di là delle montagne stesse. Una galleria di quadri mostra le montagne sacre della Terra. Già da anni questo museo riscuote un notevole successo, costituisce un’attrattiva per i turisti ed è aperto da Pasqua ai primi di novembre (fatta eccezione per luglio e agosto, periodo che vi trascorro con la mia famiglia).

L’MMM Dolomites è dedicato al mondo verticale della roccia. Sul monte Rite (2181 m), a sud di Cortina, sopra il passo di Cibiana, ho allestito nel 2002 un museo su questo tema all’interno di una fortificazione della Prima guerra mondiale. Il «museo nelle nuvole» espone quadri, sculture e installazioni che hanno per argomento in particolare le Dolomiti. Grazie a reperti e ricordi dei più famosi arrampicatori dolomitici, racconto lo sviluppo dell’arrampicata in tutto il mondo. A causa della quota questo museo è aperto solo da giugno a ottobre, quando cominciano le prime nevicate.

L’MMM sulle popolazioni di montagna è il compito che ancora devo portare a termine: il progetto di questo museo è concepito in modo interattivo. Non intendo «mettere in mostra» degli esseri umani, bensì invitarli a uno scambio di esperienze con la popolazione contadina locale. Ogni anno ospiti provenienti da altre regioni di montagna dovrebbero trascorrere l’estate nell’MMM e raccontare il loro modo di vivere. Nel corso di due decenni impareremo così a conoscere la gente che vive sulle montagne del mondo. Nei locali del museo verranno esposti oggetti della vita quotidiana delle diverse regioni di montagna e delle popolazioni che le abitano (per esempio sherpa, incas, tibetani, mongoli, hunza).

L’impegno finanziario e organizzativo per i musei è molto più rilevante di tutte le mie spedizioni messe insieme. Perché questo impegno? Perché ho a cuore la biografia collettiva dell’alpinismo. Per questo motivo non esiste luogo più indicato dell’Alto Adige, la mia patria, il «paese delle montagne», per creare un punto d’incontro nel rapporto uomo-montagna. A questo scopo il sito più indicato è senz’altro la fortezza di Sigmundskron. Dalle sue mura si possono vedere verso est lo Sciliar, verso nord il gruppo Tessa sopra Merano, verso sud Bolzano, capoluogo della regione. L’autostrada del Brennero, a testimoniare che le Alpi non sono più impenetrabili, fa scorrere il traffico molto vicino alla fortezza, mentre la «MeBo», la superstrada che collega Merano a Bolzano, incanala il traffico attraverso un tunnel che passa sotto la montagna su cui si erge la fortezza.

In mezzo alle Alpi, a cavallo fra nord e sud, dopo tante incertezze è sorto il Messner Mountain Museum, uno spazio per fermarsi, uno spazio d’incontro. In mezzo alla frenesia che ormai caratterizza il turismo moderno, voglio creare un luogo di contemplazione. Qui montagne e arte devono congiungersi. Mi stanno a cuore il dialogo, la storia comune, l’eredità culturale dell’alpinismo. Così intendo fare mio un ruolo di mediazione fra il grande pubblico e le montagne. Il solitario si trasforma in mediatore.

Nel mio ruolo di creatore di musei mi avvalgo delle esperienze condivise con i miei compagni di cordata, e delle affermazioni di celebri filosofi e fondatori di religioni (nella foto il Guru Rinpoche).

Nel mio ruolo di creatore di musei mi avvalgo delle esperienze condivise con i miei compagni di cordata, e delle affermazioni di celebri filosofi e fondatori di religioni (nella foto il Guru Rinpoche).

Le montagne e la loro dimensione possono essere percepite direttamente, salendole, oppure attraverso le arti figurative in un museo. Al di là della loro relativa attualità, le opere d’arte raccontano dei loro creatori, della creazione; le opere sulla montagna raccontano della montagna. Per tutti coloro che sono interessati alla montagna, faccio in modo che il «paese nei monti» diventi uno spazio d’esperienza. Poiché anche nell’era del turismo di massa e del fit for fun sarà importante interpretare in modo nuovo questo tema.

Paesaggio, opere d’arte e visitatori devono comunicare fra loro e fornire informazioni senza che si renda necessario spiegare le montagne. Nel mio ruolo di coordinatore e creatore credo a un’immagine dinamica delle montagne, non a una realtà congelata. Solo così si realizza uno spazio d’espressione della fantasia fra chi osserva e le montagne stesse, che nella nostra coscienza si modificano costantemente. Con questo progetto ho preso in considerazione la montagna nel suo insieme.

In questo senso sono solo fondatore e suggeritore del museo, una sorta di catalizzatore. Mi interessano lo sguardo d’insieme e l’opera completa, che continua a rimettere in contatto fra loro i luoghi storici e le opere d’arte. È così che il tempo al quale appartengono si annulla, e si costruisce una biografia collettiva dell’alpinismo. Si tratta quindi non tanto di documenti, bensì, come nel rapporto con la montagna, della vicinanza, della lontananza, della curiosità e della sorpresa. Il ruolo di mediatore che mi sono assunto vale anche per quanto riguarda il dialogo fra le generazioni e le epoche, le opere e le tensioni che le uniscono. Come una specie di «ruffiano» voglio sottolineare la sensualità dell’opera creativa, senza per questo attribuire necessariamente un’utilità all’alpinismo. Scopo e significato del museo stanno nell’essenza viva delle opere, che vengono vissute in maniera diversa dal singolo osservatore.

Ciò cui penso e cui miro con il museo è la montagna incantata per tutti coloro che desiderano sapere cosa c’è dietro e sopra le vette.

(Reinhold Messner, comunicato stampa, 2005)