IL «PROGETTO REINHOLD MESSNER» A SOSTEGNO DEI VILLAGGI DI TATO E MUTHAT DANNEGGIATI DAL TERREMOTO DEL 2005 NELLA ZONA DEL NANGA PARBAT

Dopo aver constatato con i miei occhi la situazione sul versante nord (versante Rakhiot) del Nanga Parbat, intendo esporre i miei suggerimenti per offrire agli abitanti dei villaggi di Tato e Muthat una prospettiva di sopravvivenza di lunga durata. Questo impegno deriva anche dal fatto che in Europa il Nanga Parbat è noto come la «montagna dei tedeschi», e da ciò nasce un dovere di responsabilità nei confronti della popolazione locale.

SITUAZIONE

Il terremoto del novembre del 2002 ha gravemente danneggiato i villaggi di Tato e Muthat. Sono state colpite grosso modo ottanta abitazioni di Tato e cinquanta di Muthat.

In questi due villaggi vivono più di cento famiglie seminomadi, che vi trascorrono i mesi invernali, mentre durante l’estate si trasferiscono ai pascoli dei fairy meadows.

Attualmente non solo le case, le scuole e le condutture dell’acqua sono distrutte: altrettanto si può dire della fiducia e della speranza in una vita degna di essere vissuta. Ma a mio giudizio non ha molto senso ricostruire i villaggi nello stesso punto in cui sorgevano prima. Anche nel futuro questa regione sarà colpita dai terremoti. L’unica soluzione che consenta una prospettiva di lungo termine è il trasferimento di entrambi i villaggi nella valle dell’Indo.

PROPOSTA

La mia proposta, che ho chiamato «Progetto Reinhold Messner», associa le tradizioni locali alle future possibilità turistiche della regione. Lo scopo è di trasferire gli abitanti di Tato e Muthat nei pressi del ponte di Rakhiot nella valle dell’Indo in un villaggio comune, a circa mille metri di quota. Nella valle dell’Indo avrebbero a loro disposizione terreni da coltivare e pascoli, elettricità e acqua in quantità sufficiente. Dal punto di vista dei collegamenti sarebbero connessi direttamente alla Karakorum Highway (KKH). La posizione nella valle è sicura: si tratta di un luogo perfetto per trascorrere i sei mesi invernali.

La posizione favorevole consente anche un collegamento agevole con i centri cittadini di Chilas e Gilgit, dotati di scuole superiori e centri ospedalieri. Gli antichi villaggi verrebbero ancora utilizzati come pascolo estivo, e vi si praticherebbe l’agricoltura stagionale estiva. In questo modo verrebbe garantita agli abitanti anche in futuro la possibilità di continuare a trarre vantaggio dal turismo crescente.

PROGETTO

Il nuovo insediamento dovrà essere collegato tramite uno svincolo stradale alla Karakorum Highway che si snoda lungo il fondovalle (dislivello 200-300 m). Allo stesso tempo sarà necessario derivare l’acqua del fiume Rakhiot per mezzo di un canale irriguo. Un’alternativa interessante sarebbe costituita da un sistema di pompaggio (dislivello 150 m).

Si stima che nella vallata verrebbero edificate un centinaio di case e una scuola; inoltre verrebbero impiantati campi per la coltivazione del grano, del mais e di altri prodotti, collocati in una zona al di sopra dell’insediamento. I campi destinati alla coltivazione delle patate e i pascoli estivi dei vecchi villaggi di Tato e Muthat potrebbero essere riutilizzati. La principale fonte di guadagno dovrebbe però essere il turismo, poiché i villaggi controllano l’accesso da nord al Nanga Parbat, nonché le mete turistiche legate alla montagna (Fairy Meadows, ghiacciaio Rakhiot).

COSTI

Si stima che per offrire una prospettiva valida agli abitanti dei villaggi sarebbe necessario un milione di euro. La somma dovrebbe essere raggiunta grazie agli interventi di sponsor e ai contributi privati, combinati con i finanziamenti pubblici di Austria, Germania e Pakistan, ai quali se ne aggiungerebbero altri in forma di lavoro volontario. Mi impegnerò personalmente, attingendo a ogni possibilità, alla mia fondazione, alle mie esperienze e ai miei contatti, per tradurre in pratica questo progetto.

COSÌ VICINI AL CIELO

Nell’Himalaya occidentale si trova una regione di straordinaria bellezza: il Kashmir. Ma appena al di sotto del paradiso si scontrano due placche continentali, con frequenti terremoti gravissimi – l’ultimo risale all’inizio di ottobre del 2005.

Chi risale la valle desertica dell’Indo da Rawalpindi difficilmente immagina che in quei luoghi vivano ancora esseri umani. Tutto è spoglio e roccioso, non c’è neppure una macchia di verde. E tuttavia in questa regione inospitale della parte settentrionale del Kashmir sono insediate da millenni popolazioni di montagna. Dimorano lungo le pendici del Karakorum in una condizione di povertà e di isolamento assolutamente inimmaginabili. Da anni vi si nasconde il leader terrorista Osama bin Laden: il potere statale non arriva da quelle parti, in quel mondo di ghiaccio e di roccia, senza vie di comunicazione. Non giunge nemmeno alcun aiuto pubblico. Nelle alte valli inaccessibili gli abitanti possono contare solo su se stessi. Cosa questo significhi è stato dimostrato in maniera terribile dalla catastrofe del terremoto in Kashmir: per settimane e settimane moltissimi villaggi sono rimasti senza rifornimenti; chi era ancora in grado di muoversi ha cercato di raggiungere, camminando per giorni, una delle città, a quel punto già affollate di fuggiaschi; resta tuttora oscuro il destino di migliaia di loro. La disgrazia ha colpito in modo estremamente brutale gli abitanti delle montagne – come se il cielo avesse voltato le spalle proprio a coloro che gli stavano più vicini.

La catastrofe si è abbattuta su una terra che deve già sopportare una sofferenza enorme. E dire che il Kashmir potrebbe essere un giardino dell’Eden. Questo paese, un tempo un principato sulle pendici meridionali dell’Himalaya, è per me il più bello del mondo. La rigogliosa regione montana è stata nel passato il rifugio degli imperatori Mogul, musulmani, in seguito il luogo prediletto dai signori coloniali inglesi alla ricerca del fresco estivo. Esploratori e turisti fecero del Kashmir lo Shangri-la, il paradiso leggendario dei sogni degli occidentali. Dopo l’abbandono degli inglesi e la divisione del subcontinente, nel 1947 una guerra fra India e Pakistan divise in due il paese. Da allora le parti contrapposte sono inesorabilmente in lotta l’una contro l’altra. Paradossalmente il terremoto dell’8 ottobre 2005 potrebbe smorzare la tensione. Nella situazione drammatica le parti in lotta si sono avvicinate. Il Pakistan ha aperto le frontiere agli aiuti dall’India. Due anni fa mi sono recato in quei luoghi con una delegazione della UE, per sostenere politicamente il processo di pacificazione; in quella occasione sono stato sulla linea di demarcazione che divide arbitrariamente il Kashmir: un’assurda linea di confine sul campo di battaglia più elevato della Terra, dove nove soldati su dieci muoiono a causa della natura ostile all’uomo, non per il fuoco nemico.

Al di sotto del Kashmir corre la zona di collisione delle placche continentali, che spingono verso l’alto l’Himalaya. È qui che si è individuato l’epicentro del terremoto più grave da quando sono iniziate le misurazioni, che ha provocato più di sessantamila morti e tre milioni e mezzo di senzatetto. So quanto sia complicato organizzare i soccorsi in queste regioni inaccessibili d’alta montagna – e quanto allo stesso tempo sia indispensabile: l’inverno è estremamente duro e farà aumentare drammaticamente il numero delle vittime. Il destino delle popolazioni di montagna del Kashmir mi sta a cuore da quando, nel 1970, sono sceso dal Nanga Parbat nella valle Diamir – con mani e piedi parzialmente congelati, quasi impazzito per la sete, il dolore e per la disperazione in cui mi aveva gettato la perdita di mio fratello Günther. Fui soccorso da umili contadini che per due giorni mi aiutarono a scendere lungo la valle dell’Indo, a tornare alla vita. Da allora mi sento legato a questa gente e a questa terra. L’estate scorsa sono tornato in quei luoghi; con un gruppo di appassionati di trekking ho compiuto il periplo della mia montagna del destino – solo così ho potuto dare l’ultimo addio a mio fratello.

Nel frattempo mi è giunta la notizia che la gente del Nanga Parbat non è stata colpita dal terremoto – non questa volta. Nel 2002 una potente scossa ha distrutto villaggi e reso invivibili intere vallate; all’epoca quasi nessuno ha messo in risalto la notizia di questa tragedia. Ho dato vita a una fondazione e a un progetto di aiuto a due villaggi nella valle Rakhiot: ogni anno centomila euro vengono impiegati nella ricostruzione, che deve porre particolare attenzione ai principi antisismici, e nel sostegno alla realizzazione di infrastrutture che possano garantire ai contadini ulteriori introiti grazie a una forma consapevole di turismo legato al trekking.

Alla luce dell’ultima catastrofe si tratta solo di una goccia nel mare: ma forse posso dare il mio contributo affinché il Kashmir non venga di nuovo dimenticato dal mondo. I suoi abitanti hanno tutto il diritto di vivere con dignità, sicurezza e in pace – a questo scopo necessitano di aiuti umanitari immediati e di sostegno politico sul lungo termine. Affinché questo paese di montagna infinitamente bello possa riconquistare una volta per tutte il suo cielo perduto.

(TV Hören und Sehen, dicembre 2005)