Ricominciare da capo

 

La sfida orizzontale

Dopo le montagne più alte e le pareti più impegnative mi rivolsi ai deserti. In un primo tempo ai deserti di ghiaccio: Polo Sud, Polo Nord, Groenlandia. Poi ai deserti di sabbia: Takla Makan, Ténéré, Gobi. Mi ha affascinato soprattutto la Mongolia, un paese immenso. Forse perché qui è ancora possibile vivere come si viveva migliaia di anni fa. Dovetti comunque imparare di nuovo a essere pellegrino nel mondo. Dovetti ricominciare da capo.

REINHOLD MESSNER E L’AVVENTURA

Lei si vede innanzitutto come amante dell’avventura. Ma cosa significa per lei l’avventura?

Intendo l’avventura nell’accezione antica che le attribuivano i greci. Scelgo un viaggio complesso, non preparato e potenzialmente fatale. Un viaggio dal quale non so se farò ritorno. Se tornerò, sarò cambiato. Non ho intenzione di cercare qualcosa, bensì di indagare dentro di me. La mia avventura è rivolta a me stesso. È questo che mi preme.

Questo atteggiamento non è certo apprezzato nell’ambiente alpinistico.

No. Ma a me si rizzano i capelli in testa, mi viene un attacco di bile ogni volta che sento parlare dei «sublimi scopi» degli alpinisti, siano essi in campo medico, geografico o ecologico. Tutti farisei. Perché queste scuse imbarazzanti? In passato questi eroi autoproclamati si lanciavano verso l’Everest in nome di una nazione, portandone la bandiera nello zaino. Oggi lo fanno per uno «scopo giusto». Come se il farlo per se stessi non fosse uno scopo accettabile.

Forse tutto questo indica la stanchezza del mondo civilizzato, la noia e l’indifferenza?

L’avventura come viene intesa oggi è figlia del nostro tempo. Un sintomo della decadenza. Dopo che tutte le esigenze primarie della nostra esistenza sono state soddisfatte – cibo e un tetto sulla testa –, l’avventura resta un modo per potersi esprimere. Qualche «furbo», e mi ci metto anch’io, l’hanno intuito, e si sono organizzati a tal punto che il gioco si regge da solo. L’avventura dà da vivere a chi la pratica.

Se Reinhold Messner decide di attraversare a piedi l’Antartide, non si tratta solo di un affare, bensì anche di un gigantesco spettacolo mediatico.

L’«affare», la valorizzazione avviene solo in seguito. È impossibile evitarlo. In un viaggio costoso come quello in Antartide è inevitabile. Tutto si svolge tra pubbliche relazioni, sponsor e azione, una coordinazione che ha acquisito un’importanza notevole nel mondo dello sport. Senza soldi non si fa nulla, senza media non si trova lo sponsor. Lo sponsor interviene solo se sono presenti i media, e i media intervengono solo se l’iniziativa promette di essere interessante.

Ma l’Antartide non è stata forse anche la ricerca di un nuovo argomento? Per i media gli ottomila sono una questione ormai risolta.

Sono io che l’ho voluto. Era da anni che ci pensavo. Non intendevo ripetermi agli ottomila. Avrei potuto restarmene a casa, ma preferisco farlo più avanti, quando non ce la farò più. L’altra possibilità sarebbe stata quella di sfruttare i successi ottenuti fino alla fine dei miei giorni. Ci sono più di mille richieste di conferenze sugli ottomila.

Messner, l’affabulatore?

No, non ancora. Fra l’altro mi ero reso conto di essere in grado di aumentare la mia resistenza, soprattutto psichica.

Per la traversata dell’Antartide by fair means, quindi contando solo sulle sue forze, questa resistenza non è stata sufficiente, o sbaglio?

Sono il primo a criticare la nostra iniziativa su un punto: ci siamo trasferiti sul posto in aereo e abbiamo fatto allestire due depositi. Per il resto la nostra impresa non è attaccabile sul piano ecologico. Attraversando l’Antartide a piedi non ho arrecato più danno di quanto non faccia stando qui seduto a parlare. Comunque emettiamo tutti anidride carbonica.

Cosa si prova a fornire di continuo prestazioni che il cittadino medio non potrebbe mai ripetere? Si diventa come un gladiatore, per tutti quelli che stanno a casa, seduti in poltrona, e la cui attenzione è tenuta desta dall’interrogativo inquietante: «Ce la farà oppure no?»

Ho sempre ripetuto che non mi sarei accollato il ruolo del vice. Non intendevo scalare l’Everest per altri. Sono io che mi muovo, vedo e provo emozioni. Se a qualcuno interessa vivere le stesse cose, deve andare anche lui e provare la sensazione di soffocare per la paura. Bisogna agire direttamente, altrimenti non si ci si fa un’idea. Io la penso così. Per l’Antartide questo principio non vale più. Per la prima volta assumo il ruolo di vice. L’Antartide è veramente lontana, fragile, intoccabile. È meglio che gli altri non ci vadano. Certo, può sembrare un ragionamento elitario, lo so. Perciò ora dico: «Non l’ho fatto per voi, però voi potete provare le stesse sensazioni attraverso il mio libro». Tengo conferenze, nella speranza che siano in tanti ad appassionarsi all’Antartide. Dovremmo veramente fare qualcosa per questo continente.

Non c’è qualche relazione con lo show business?

Certo. Trascorro un terzo della mia vita in un ambiente selvaggio. E questa è la parte che più mi piace. Per creare l’equilibrio mi serve quindi un nido dove ritornare, riposare ed elaborare nuove idee. A casa, con la mia famiglia, passo un altro terzo del mio tempo. L’ultimo lo trascorro su un palcoscenico. E mi pare di condurre la vita di un cavallo da circo.

E la cosa la diverte?

Sì. Mi divertono tutti e tre gli aspetti della mia esistenza. Racconterei una bugia se affermassi che faccio apparizioni pubbliche solo per guadagnare. Non mi piace stare in mezzo alla folla, ma mi piace raccontare. Nel 1970 avevo dovuto rinunciare per contratto a un resoconto diretto sulla spedizione al Nanga Parbat. Ho sofferto per questo contratto che mi tappava la bocca. Le esperienze più essenziali devono essere raccontate. Non possono essere taciute. Che io racconti le mie storie a una tavolata di amici oppure di fronte a un vasto pubblico non fa differenza. Alle critiche dei miei «cari compagni di scalata» – «Messner pensa solo a mettersi in mostra» – rispondo: «Mi sapete dire, per favore, che differenza c’è fra voi che spettegolate seduti attorno a un tavolo e me che mi comporto come un cavallo da circo?» Osservo entrambi i fenomeni con occhio critico, ma resto fedele al mio ruolo.

Perduto nella solitudine dell’Antartide.

Perduto nella solitudine dell’Antartide.

Potrei definirla un egomane?

No, sono solo una persona che si pone obiettivi molto impegnativi. Per me l’avventura è molto più ovvia di quanto possa apparire a chi sta al di fuori. Un paio di volte nella vita sono riuscito a realizzare idee che nessun altro in quel momento avrebbe potuto realizzare. Sono arrivato ai miei limiti. Durante la traversata dell’Antartide invece mi sono reso conto che camminare sul ghiaccio apre tutta una serie di possibilità. Questo genere di avventura è appena nato. Quello che negli ultimi anni in molti luoghi è stato venduto come eroismo, spesso era invece dilettantismo, una sciocchezza.

Da cosa dipende il fatto che per lei queste imprese sono meno faticose? Lei è un’eccezione, con un volume polmonare doppio o altre particolarità del genere?

Assolutamente no. Sono sicuro che anche lei ci riuscirebbe. E il novanta per cento dei miei lettori. Il punto è che non vogliono farlo con lo stesso fanatismo che invece ci metto io. E poi, chi ha la possibilità di organizzare una cosa del genere, chi ha i soldi? Per fortuna pochi nutrono desideri simili.

Il fanatismo pare essere un elemento fondamentale.

Lo è! Senza fanatismo, senza questo buttarsi-anima-e-corpo-in-un’idea, innamorarsi-di-un-progetto non ce la si fa. È questa la fonte della mia energia. In questo senso si può dire che il mio agire rivela una buona dose di egomania. Lo ammetto.

Qual è stato il problema più significativo in Antartide?

La lentezza e la paura di perdermi. Non intendo parlare della navigazione. Che non è particolarmente difficile. Intendo il perdersi in quella vastità infinita, la sensazione di abbandono. Se si viene assaliti dalla paura del vuoto, paura di quella cosa senza fine, allora si è persi, incastrati, paralizzati. E se si è paralizzati non si può correre. In effetti è impensabile percorrere a piedi 2800 chilometri. Si impazzisce. Ho camminato e ho pensato, oggi cammino sei o otto ore e spero di percorrere almeno ventotto chilometri. È per questo che sono ancora vivo.

Come può il profano immaginarsi questo attraversamento dei ghiacci in Antartide?

Controllo la bussola, la linea dell’orizzonte... bussola, linea dell’orizzonte, e intanto cammino, cammino. Finché tutto diventa automatico. Un agire quasi inconsapevole, meditativo. Sul posto non me ne rendo conto razionalmente. Bisogna sapersi estraniare dal tempo e dallo spazio. Tempo e spazio diventano grandezze irrazionali. O forse lo sono? Il numero dei chilometri e le ore diventano solo appunti su un diario. Camminavo ogni giorno e ogni giorno dovevo farlo per non perdere me stesso. Durante i primi dieci giorni non ho fatto che camminare. I miei pensieri erano confusi. Poi ho suddiviso gli argomenti e ho formulato pensieri di ogni tipo. Pensieri erotici, avvenimenti lieti, problemi matematici.

Mi piacerebbe ascoltare un esempio. Che ne dice di un pensiero erotico?

Posso spogliare una donna anche a meno quaranta gradi. All’inizio si avverte la mancanza di una donna, dopo aver camminato novanta giorni attraverso il più grande deserto della Terra. Chiunque avrebbe fantasie in situazioni simili. Nel freddo, dopo un po’, il desiderio sessuale svanisce. È quello che succede anche ai monaci tibetani. Se si vive per un periodo molto lungo senza una donna i bisogni sessuali si estinguono.

Davvero?

Certo.

Non è come una bolla che cresce e prima o poi esplode?

No. E per quante fantasie selvagge uno possa fare – le conigliette di Playboy non possono nulla contro questo stato di cose! Il monaco tibetano Milarepa ha vissuto più di dieci anni senza una donna. Il desiderio sessuale si era perso, erano rimaste solo le fantasie. Nell’arte tibetana sono rappresentate dalle Dakini. Le Dakini esprimono appunto le fantasie erotiche. Sono state spesso rappresentate sui Thangka. Sono in grado di stimolare il desiderio sessuale, ma per un monaco o un saggio in meditazione non hanno più alcun potere. In Antartide mi è successa un po’ la stessa cosa. Conducevo la vita che si conduceva mille anni fa nei monasteri tibetani. È un collegamento che ho fatto proprio quando ero in Antartide, non mi era mai venuto in mente leggendo Milarepa.

Quindi in Antartide la sessualità viene congelata?

Col tempo sì. A causa del freddo, della fatica, della mancanza di stimoli. E l’astinenza fa la sua parte. Nelle stazioni si conduce una vita sessuale normale. Come in ogni città mitteleuropea. Ci vivono uomini e donne. Ciò nonostante ce l’ho fatta senza una donna. Di recente mi ha divertito parecchio la notizia che alla stazione tedesca in Antartide erano state inviate nove donne, senza uomini. Inviate dal ministro Riesenhuber. Che pruderie! Non riesco a capire perché non abbiano deciso di mandare quattro uomini e quattro donne. Sarebbe stato molto più logico. La notte antartica dura quattro mesi interi.

Logico. Allora perché non ha mai pensato a una spedizione a sfondo sessuale con una donna?

La traversata dell’Antartide sarebbe stata sicuramente più interessante con una donna che con un uomo. Le donne sanno rendere più umano il mondo maschile. Ma dove trovo una donna che abbia voglia di lanciarsi in un’impresa del genere? Sì, qualcuna che ama l’avventura estrema esiste. Attualmente è una donna la miglior allenatrice di cani da slitta. Magari ha voglia di girare intorno al Polo Nord con la slitta. Non so. Lei potrebbe farlo, non io. Non ho alcuna pratica di cani da slitta. È difficile condurli. Mi piacerebbe prendere parte a viaggi misti. Per convincermi a partecipare a un’avventura così impegnativa e dura, dovrebbe essere una donna emancipata e piena di entusiasmo. In una spedizione mi aspetto che il partner abbia senso della responsabilità, capacità e soprattutto gioia di vivere.

Arrampicata sul ghiaccio nella Georgia del Sud, in Antartide.

Arrampicata sul ghiaccio nella Georgia del Sud, in Antartide.

La gioia di vivere le è tornata rapidamente, dopo l’esperienza in Antartide. I giornali hanno scritto che suo figlio è stato concepito durante il viaggio di ritorno.

Non in nave, ma in Nuova Zelanda.

Si è trattato come al solito di un’esagerazione della stampa?

Il novanta per cento di ciò che viene scritto sui giornali in riferimento alla mia persona, senza che io l’abbia confermato, è falso. La precisione che i giornalisti hanno nel fornire notizie su di me è decisamente scarsa. Per esempio, ho riabbracciato mia moglie solo in Nuova Zelanda.

Allora cerchiamo di migliorare insieme il tiro. La stampa la rappresenta sempre come un eroe.

Non ho mai giocato a fare il macho e mi sono sempre opposto a qualunque forma di immagine eroica. Al contrario, nei miei libri abbondano i dubbi, le paure. Ho la tendenza a mettermi in discussione.

Allora mi dica apertamente, quando Reinhold Messner è assalito dalla paura?

A volte prima di partire, oppure quando la bufera è così intensa che potrebbe strappare la tenda. La prima reazione è la paura. Una preoccupazione che diventa spavento. Cerco di sostenere la tenda dall’interno, infilato nel sacco a pelo. Ma dopo ore di questa fatica abbandono la tenda e me stesso al vento. La sensazione che provo è: «La tempesta dura da un’eternità, da una settimana, da un mese». Non so più da quanto. Sono nella tenda, intontito – non provo più paura. Quando tutto è passato, mi chiedo: «Perché ho avuto paura? In fondo la tempesta è passata. Ma c’è poi stata veramente?»

In queste situazioni si affida a qualche talismano, come la pietra che pende dalla catena che le orna il collo?

La pietra che porto al collo è una pietra Xi. Nessuno sa con precisione da dove arrivino queste pietre. È possibile che siano state usate come moneta. Gli «occhi» erano i numeri. Nella mitologia tibetana si dice che i vermi caduti dal cielo si trasformarono in pietre. Le persone fortunate trovano queste pietre che in Tibet sono considerate barometri dell’anima e portafortuna. Vengono usate anche come gioielli. Quelle vere sono rare, e la maggior parte di quelle in circolazione sono false.

Lei è superstizioso?

No, ma non sono indifferente a queste credenze. Si dice che quando la pietra Xi si spezza, oppure quando la si perde, si muore. In Antartide una volta mi sono svegliato e ho afferrato istintivamente la catena che porto al collo – la pietra non c’era. Sono sbiancato. Il primo pensiero è stato, è la fine. La mia pietra Xi invece era finita da qualche parte nel sacco a pelo. Si era strappato il gancetto. Tutto a posto. Evidentemente nel mio subconscio credo a una forza particolare della pietra Xi, senza la quale non me la cavo.

Si tratta comunque di situazioni in cui si riesce ancora a pensare in modo chiaro?

Nelle situazioni d’emergenza non ricorriamo in maniera conscia al cervello, bensì all’istinto. Il corpo si comporta come deve. Quando una situazione mette davvero a rischio la vita, come è accaduto nel 1970 sul Nanga Parbat per me e mio fratello, inizialmente nello spavento si fa strada un’opposizione prepotente alla morte, una sorta di rifiuto della possibilità di morire. Era chiaro che non ce l’avremmo fatta. E questo ha reso possibile che in noi due sia emersa prepotentemente una forma di supercoraggio. In qualche modo arriveremo giù. Così abbiamo arrampicato fino a notte fonda. Alle prime luci dell’alba abbiamo ripreso. Benché fossimo esausti, affamati, in ipotermia.

Nella seconda fase, al coraggio seguì la supplica: «Non adesso, ti prego». Non ci siamo distesi a terra aspettando la fine. Sarebbe stato troppo facile. Quando mio fratello morì, me ne resi conto su un piano razionale, ma non emotivo. Benché sapessi che mio fratello non ce l’aveva fatta, non ci credevo. Continuavo a cercarlo. Con la strana sensazione che fosse dietro di me, o da un’altra parte. Nella fase finale mi sono rassegnato all’idea. Mi sentivo bene. La morte era diventata una cosa ovvia. Una parte integrante della mia vita. Non ho sofferto, né fisicamente né psicologicamente. Benché avessi subito gravi congelamenti e fossi rimasto senza mangiare per cinque giorni. Non mi sentivo nemmeno triste.

Una volta lei ha raccontato questa esperienza a Werner Herzog. Davanti a una cinepresa. Per quale motivo ha osato esternare pubblicamente un’esperienza interiore tanto forte?

L’intento di Herzog era di trovare il mio punto debole. Ha continuato a farmi domande sulla morte di mio fratello sul Nanga Parbat. Dal momento che ne avevo già parlato spesso, ho accettato la cosa con un atteggiamento assolutamente impassibile. Herzog invece si sforzava di trovare una chiave d’accesso alla mia interiorità. Voleva che venissero fuori le emozioni. Ci ha provato varie volte, per esempio quando siamo passati nelle vicinanze del Nanga Parbat. Ha fatto montare la cinepresa e ha detto: «Adesso voglio parlare con te». Mi ha chiesto cosa significasse per me il Nanga Parbat. Gliel’ho spiegato con grande tranquillità. Allora mi ha interrotto e abbiamo proseguito il cammino. Poi ci ha riprovato, sempre tornando sullo stesso argomento. La cosa ha cominciato a infastidirmi. Prima di partire per il Gasherbrum è riuscito a individuare il mio tallone d’Achille. Ha tirato in ballo mia madre. Mi pare corretto il modo in cui ha registrato la mia reazione nelle riprese. Ha scavato nelle mie emozioni e le ha utilizzate senza scrupoli, fino in fondo. Credo che Herzog domini in maniera totale la sua arte. Non posso non riconoscere i risultati dei suoi «lavori di scavo». E comunque, perché dovrei tenere nascosto il mio lutto?

Secondo lei non ci sono limiti in questo campo?

Non dovrebbero essercene. È logico che se scrivo in prima persona mi pongo dei limiti. Neppure io ho il coraggio di superare questa soglia. Anche se sono perfettamente conscio del fatto che come narratore, come scrittore sono molto più bravo quando riesco a esprimere a fondo le mie emozioni.

Dove si colloca il suo punto critico personale?

Spesso mi rendo conto del mio punto critico. E non ci arrivo [sorride compiaciuto]. Voglio che la curiosità resti desta, i tabu solleticano la curiosità.

Da un lato lei con queste imprese arriva al confine dell’umanamente sopportabile, dall’altro sostiene che ciò che tiene desta la motivazione è il divertimento. Viene spontaneo domandarle: dove è ancora possibile trovare divertimento in situazioni di questo genere?

Dentro di me il divertimento cresce man mano che agisco. Anche se è preceduto dalla paura. Di fatto possiamo provare un divertimento totale solo se ci lasciamo andare a ciò che siamo. E noi viviamo fra i due estremi della confidenza e dell’estraneità. E questo vale – mi ricollego, per così dire, a Playboy – nel rapporto erotico-sessuale. Molte relazioni si rompono perché si perde l’estraneità. Quando si fa qualcosa con estrema confidenza, viene a mancare una parte essenziale, l’eccitazione. Quando ho scelto di andare sui ghiacci dell’Antartide, provavo una grande tensione interiore, ero eccitato come un ragazzino di fronte alle sue prime arrampicate estreme. E questo mi ha mantenuto vigile. Mi ha dato forza. Così mi sono divertito a camminare. La vita non deve mai diventare noiosa.

È per questo motivo che lei non si è più sposato?

Sono stato sposato. Una volta. Ma la relazione si mantiene più vivace senza certificati. Da entrambe le parti. È più viva, più emozionante. E comunque la mia compagna non intende sposarmi.

Quindi possiamo dire che Reinhold Messner è e continuerà a essere un «lupo della steppa», un solitario?

Sono entrambe le cose: «animaletto di peluche» e «lupo della steppa». Quando salgo l’Everest in solitaria devo riuscire a cavarmela da solo. Così vivo fino in fondo la mia anarchia: sono allo stesso tempo suggeritore, attore e giudice. Nessuno può darmi ordini su come affrontare la situazione. Non devono tenere conto di nessuno, non infrango nessuna legge. Ma attenzione, non è per nulla facile essere legislatore e giudice di se stessi. È più facile dire adesso sono libero, piuttosto che esserlo veramente. Essere libero fino alle estreme conseguenze è una responsabilità enorme.

Libero e solo, d’accordo. Ma cosa succede quando si muove con un partner?

È interessante giocare alla democrazia in due. E quando si è in un ambiente selvaggio si tratta di una forma di democrazia di base. Ogni giorno ci si deve adattare a trovare un compromesso. Ed è questo che abbiamo fatto in Antartide. Non c’erano né regole, né capi. L’anarchia allo stato puro: tutto il potere per entrambi, nessun potere per il singolo. La mia definizione di anarchia è: nessun potere per nessuno.

Le cose hanno davvero funzionato?

Certo. E il successo lo dimostra. È stato addirittura facile progredire senza attriti eccessivi durante tutta la spedizione. Ogni giorno, senza tante discussioni, siamo arrivati a un compromesso. In novantadue giorni abbiamo litigato due volte, forse tre, al massimo per due minuti. Poi basta, tutto cancellato. Il nostro successo ha fatto leva su due punti: ci siamo concessi a vicenda molto spazio d’azione e ci siamo appoggiati l’uno all’altro. Anche se io e Arved siamo persone molto diverse, abbiamo dimostrato rispetto per l’altro e in questo modo abbiamo stabilito un contatto. Arved Fuchs mi ha aiutato moltissimo, e mi auguro che lui possa affermare lo stesso di me.

Intende dire che in tutto quel tempo non ci sono stati problemi?

Più o meno.

Secondo lei è vero che all’opinione pubblica piacciono i pettegolezzi su quei mondi remoti?

Certo, la gente è interessata e ha il diritto di sapere ogni cosa. Altrimenti la stampa non avrebbe tanto enfatizzato i «nostri battibecchi». Dopo essere stati pubblicati dallo Spiegel, Hansen, il PR di Fuchs, ha messo in piedi una campagna denigratoria, ribaltando i fatti. È da lì che si è sviluppato il contrasto fra di noi. Già durante il viaggio di ritorno, in nave, ho ricevuto un fax che riportava un ritaglio di giornale. Titolo: DOPO L’ANTARTIDE PARTONO LE FRECCIATE. Ho capito subito quali sarebbero state le conseguenze. La cosa si è poi autoalimentata. Io e Arved non abbiamo potuto frenare la slavina.

Quindi, tanto per cambiare, la colpa è stata dei media. Non aveva già avuto problemi simili con il suo ex partner Peter Habeler?

La stessa storia. Nel caso di Habeler sono stati il suo ghostwriter e il sindaco di Zillertal. I quali probabilmente hanno fatto questo ragionamento: ci serve un po’ di pubblicità per Zillertal e il libro. Magari passando sul mio cadavere. Purtroppo, però, Peter Habeler si è lasciato manipolare. E dire che era uno dei partner più forti che abbia mai avuto. Lo può verificare nei miei libri. Io non l’ho certo scelto perché era un tipo spiritoso, ma perché a quel tempo era l’alpinista migliore al mondo. Veloce, istintivo, forte. Probabilmente avrei fatto la traversata dell’Antartide con Peter, se non avesse abusato della fiducia che nutrivo nei suoi confronti. Se manca la fiducia completa, non vado con nessuno da nessuna parte. Vado solo se la fiducia è totale.

Da dove trae un quasi cinquantenne la voglia di fare ancora certe ragazzate?

Bella espressione. Mi piace vedere nelle mie «avventure» delle ragazzate.

Non come qualcosa di più?

In fondo no. Non hanno alcuna importanza. Certo la traversata dell’Antartide è stata un’esperienza importantissima. Ma riguarda soltanto me. Sono io che attribuisco un valore a quello che faccio. È importante fare un’intervista per Playboy? È importante costruire Mercedes? Di recente ho tenuto una conferenza di fronte a un gruppo di manager. Alla fine uno mi dice: «Signor Messner, è interessante quello che racconta, ma cosa significa tutto ciò?» Ho risposto a mia volta con una domanda: «Lei pensa che sia più importante costruire macchine piuttosto che attraversare l’Antartide a piedi?» Risate, stupore contenuto, brusio in sala. Ma nessuna risposta. La vita non ha un significato a priori. Ma possiamo attribuirgliene uno. L’invenzione delle sfide è un’azione «divina», che crea significato.

Ci spieghi meglio.

Primo punto: vivo la mia vita per me stesso. Questo egoismo è un obbligo, non solo un diritto. Se escludiamo gli interventi di soccorso, in montagna per gli alpinisti non esiste altra motivazione se non il proprio egoismo.

L’egoismo è quindi la molla del suo agire?

Qual è il motivo più profondo? Puntare a un obiettivo sempre più ambizioso? Arrivare a distruggermi per la disperazione? Attribuire un senso oppure guadagnare più soldi? Voglio dimostrare che sono migliore degli altri? Oppure mi interessa solo stare su un palcoscenico, acclamato da tutti? Un po’ di tutto questo. Ho bisogno di approvazione, di simpatia. Chi non ne ha bisogno me lo faccia sapere. Voglio conoscere anche uno solo fra i cinque miliardi di persone che popolano la Terra che non abbia bisogno di simpatia.

Lei cerca il riconoscimento, eppure ama la provocazione. Come possono andare d’accordo questi due aspetti?

Finalmente qualcuno che se ne rende conto. Desidero essere apprezzato per quel che sono, e non per come mi si vorrebbe. Non voglio essere l’everybody’s darling, mai. E continuerò per tutta la vita a battermi per poter essere me stesso.

È un tipo litigioso?

Non cerco la lite, cerco la discussione. Mi piace essere all’opposizione, e metto costantemente in discussione innanzitutto me stesso.

Lei è un provocatore. Per esempio, quando definisce la sua vita «tutta una sfacciataggine».

Non solo questo. Definisco le mie avventure opere d’arte vissute e corro dietro al «perché» per tremila chilometri.

E da questo punto di vista qual è stata la sua impresa più riuscita?

La solitaria sul Nanga Parbat. Ha rappresentato la perfezione. La fantasia che avevo creato nella mia testa si è perfettamente realizzata. Non è stata solo la prima volta che un uomo ha salito un ottomila in solitaria, dalla base alla vetta, completamente solo. Senza attrezzatura tecnica. Senza corda. Senza chiodi. Senza maschera d’ossigeno. Senza tutte le complicazioni di una spedizione. Una mia via di salita, una mia via di discesa. Questa affermazione mi ha reso felice e a oggi l’impresa non è ancora stata ripetuta da nessuno. Un’opera d’arte vissuta, che non si può ammirare con gli occhi, ma che tuttavia esiste.

Torniamo alle ragazzate. Gli scherzi più divertenti sono sempre quelli che facciamo per primi.

Certo. Una ragazzata che non sia stata preparata ha più mordente, mi scatena dietro più PR, porta a un successo economico maggiore. Anche a un maggiore ritorno energetico. E così posso passare alla ragazzata successiva. Ancora più gagliarda, più sfacciata.

Ha detto addio agli ottomila perché i giovani sono in grado di organizzare ragazzate più gagliarde delle sue?

Alcuni giovani andranno oltre qualunque cosa io abbia mai fatto. Se non lo facessero, l’alpinismo subirebbe un’involuzione. Invece l’alpinismo avrà uno sviluppo progressivo.

A tal proposito, il premio che lei ha organizzato, il «Leone delle Nevi», si muove in questa direzione?

Il mio intento è quello di indicare una via possibile. Il «Leone delle Nevi» è un animale della mitologia tibetana. Ho dato vita a questo premio quando ho abbandonato il ruolo di leader nell’ambiente alpinistico. Il «Leone delle Nevi» viene assegnato a chi compie un’azione pulita e creativa. Per l’arrampicata dell’anno. È per questo che ho messo a disposizione diecimila dollari, che è più o meno il costo di una spedizione leggera.

Ci descriva le caratteristiche di un’azione che meriti il premio.

Dovrebbe essere un’opera d’arte. Dev’essere pulita dal punto di vista ecologico. È richiesta creatività. Per esempio: uno torna a casa e dice: «Sono stato sulla vetta, però non ho foto, né potrò fare una descrizione della via. Su tutta la parete non c’è nemmeno un chiodo. Non resta neanche un pezzo di corda, niente». Questa per me è creatività. È il prossimo passo. Basta con i quaderni di vetta e le descrizioni dei dettagli tecnici. Ogni descrizione di via è una sorta di inquinamento spirituale. Senza mistero non c’è nessuna avventura. La motivazione di risolvere il mistero va persa nel momento in cui è a disposizione una descrizione della via. Mentre scopriamo una via, avviene qualcosa dentro di noi. Siamo autorizzati a salirla, ma senza violare il mistero.

Alpinista, scrittore di avventure, escursionista su ghiaccio: signor Messner, ma lei chi è in realtà?

In fondo al mio cuore sono un contadino di montagna.

D’altro canto una volta lei ha dichiarato che riuscirebbe anche a immaginarsi di poter vivere il resto della sua vita come un nomade, attraversando il Tibet con uno yak.

Giusto. Continuare a camminare, camminare, camminare. In fondo la Terra è rotonda. Nel frattempo questa idea si va amalgamando con un altro sogno a occhi aperti: vivere da qualche parte in una caverna. Poi il desiderio di non essere più sfruttato. Vorrei vivere i miei prossimi trent’anni, se dovessi diventare così vecchio, come un saggio [ride]. Io, il buffone di corte, capelli e barba bianchi. Qualcuno di cui nessuno sente più il bisogno. Starmene in una grotta, dove poter leggere e pensare sciocchezze. Un buffone di cui il mondo possa ridere.

(Playboy, febbraio 1991)

LA SAGGEZZA DELLA STEPPA.

Resoconto su un territorio lontano: il futuro nell’elemento «selvaggio»

Ci troviamo nella zona occidentale della Mongolia; su in alto, sulle ripide pendici dei monti Altai, dove gli uomini vanno ancora a caccia con cavallo e aquila: obbedendo alla tradizione del loro popolo, antica di duemila anni.

Ottocento anni fa sono diventati padroni di un regno mondiale, dal Pacifico fino al Danubio, che percorrevano in sella ai loro piccoli cavalli veloci; l’Occidente tremava di fronte ai selvaggi cavalieri della steppa provenienti dall’Estremo Oriente. Poi però sparirono così come erano venuti: un passaggio rapido nella storia mondiale. Nessun palazzo, nessuna piramide, nemmeno una sepoltura a testimonianza della grandezza del Khan e del suo impero senza eguali.

Oggi non sappiamo quasi più nulla della Mongolia: un paese immenso, quattro volte e mezzo la Germania, praticamente sparito dai nostri orizzonti visivi. E così rimane misterioso pure lo straordinario cambiamento che è avvenuto laggiù: sempre più mongoli tornano a vivere come i loro progenitori. Dopo decenni di isolamento e di economia imposta dall’Unione Sovietica si sono riavvicinati alla loro antichissima cultura – e sperano così di attirare un certo tipo di turismo, un turismo riflessivo. Una terra sfruttata, dimenticata ma affascinante, cerca il suo futuro nel suo passato.

Yurte bianche a gruppetti di due o tre sono sparse nell’ampia vallata. Una mezza dozzina di cavalli sellati sono legati a una corda tesa fra due pali. Ci troviamo in un luogo imprecisato, sulle montagne coperte di ghiaccio della catena degli Altai. Il sole del mattino tinge il fondovalle di un verde brillante. Ma è un’illusione ottica: i pascoli, in realtà, sono piuttosto magri. I pastori sono costretti a tenere in costante movimento le greggi. In prima fila brucano le capre, dietro le pecore. Poi vengono portati al pascolo gli yak. I bambini li curano, in sella ai loro pony. Qui la gente vive a cavallo e nelle tende, ed è del tutto naturale, tanto che ogni mio dubbio residuo sparisce: nelle montagne e nelle steppe della Mongolia il nomadismo dei pastori, sviluppatosi più di diecimila anni fa, è uno stile di vita adeguato – anche per il futuro!

Ulrich Cartellieri sui monti Altai, in Mongolia.

Ulrich Cartellieri sui monti Altai, in Mongolia.

Negli anni Trenta i comunisti distrussero l’artigianato, i monasteri e la vita culturale della Mongolia; ma non la consapevolezza di sé dei pastori nomadi, i quali non si sono lasciati convincere dall’economia dei kolchoz. Per questo motivo, dopo la fine del comunismo sovietico i mongoli hanno ritrovato i loro ritmi di vita molto più in fretta rispetto ad altre popolazioni sottomesse dalla potenza comunista. Dopo il ritiro sovietico è rinato il nomadismo dei pastori.

Già un mongolo su due vive dei suoi animali: più di trenta milioni di capi di bestiame, perfino troppi, pascolano su un terreno piuttosto magro. I mongoli si identificano con le loro bestie, cammelli, yak, manzi, pecore, capre e soprattutto cavalli – senza dubbio questi ultimi hanno uno scarsissimo valore produttivo, ma occupano il rango ideale più elevato.

Due milioni e mezzo di persone vivono su un territorio immenso che si estende dalla Cina alla Siberia; un terzo di queste abitano nella capitale Ulan Bator. Decine di migliaia di persone vivono nelle yurte ai margini di una città brutta, priva di una vera identità; molti di loro ritornano nella steppa. Poiché lo stato è poverissimo e le infrastrutture del vecchio sistema sovietico sono crollate, molti mongoli tornano alle tradizioni dell’autoapprovvigionamento, alle conoscenze e all’abilità manuale delle generazioni passate, premesse indispensabili per sopravvivere all’insegna del binomio «yurta e sella».

Chi tuttavia non possiede questa esperienza si trova perso nella vastità di quelle terre, soggette come nessun altro punto del mondo agli eccessi climatici. A estati siccitose seguono di norma inverni durissimi: poi arriva il cosiddetto «zud bianco», una tempesta di neve ghiacciata e sabbia proveniente dalla Siberia, che semina morte e rovina sugli altipiani della Mongolia.

(TV Hören und Sehen, gennaio 2002)

IL MIO DIARIO DEL DESERTO

Ho quattro figli. Tutti individualisti. Mio figlio Simon è fissato con i cammelli. Per questo motivo decidiamo di recarci nel paese dei suoi sogni, e attraversare con una carovana di tuareg il Ténéré, il cuore caldo del Sahara. Sono dieci giorni molto duri, a piedi e a dorso di cammello, attraverso un mondo fatto di cielo, vento e sabbia.

Il deserto inizia dietro le mura di Agadez. Il viaggio dei sogni di Simon partirà dal Niger. Intendiamo aggregarci a una carovana del sale, e percorrere al suo seguito quattrocento chilometri, in direzione di Bilma. Attraverso il tratto più deserto del Sahara, il Ténéré, che nella lingua dei tuareg significa «nulla».

Simon ha tredici anni e una vera e propria adorazione per i cammelli. Sui dromedari poi, nei quali crede di riconoscere il coronamento della creazione, sa tutto. Infatti il cammello con una sola gobba può resistere giorni e giorni senza alcun nutrimento, settimane senza acqua e tutta la vita senza un ricovero. È in grado di alzare e abbassare la concentrazione dell’emoglobina nel sangue e la temperatura corporea, a seconda della temperatura esterna e del grado di disidratazione. È in grado di marciare per mesi e di sopportare qualunque cosa – caldo, freddo, tempeste di sabbia, carenza di acqua, fatica. Fino al limite estremo dello sfinimento. Solo quando è veramente esausto, il dromedario si adagia sul terreno e si lascia morire. Durante il nostro viaggio da Agadez a Bilma, lungo i margini della pista, avremmo incontrato centinaia di cadaveri di cammelli. Quasi a indicare il percorso, e allo stesso tempo a ricordare quanto sia pericoloso il deserto!

Dopo due giorni di fuoristrada troviamo il campo dei nostri compagni. Sono sette; si sono accampati non lontano da Arbre de Ténéré, dove un tempo si trovava il ceppo di un albero. Ultimo segno di vita prima del vuoto del deserto di sabbia. Attualmente al suo posto si erge un’«opera d’arte» in plastica e metallo, priva di gusto e del tutto inadeguata. Come se gli uomini del mondo civilizzato dovessero esprimere la loro incapacità di capire anche in quel luogo, dove l’unica cosa ammissibile è lo stupore.

I cammelli bevono al pozzo, dove i tuareg ci offrono carne d’agnello. La prendo con le dita e ne mordo un pezzo. È squisita. Finalmente una nuova spedizione! La prima volta con mio figlio, che vuole mostrarmi il suo mondo dei sogni. Raduniamo i cammelli con le zampe anteriori legate. Gli animali vengono caricati – balle di fieno, bidoni d’acqua, ceste di viveri, legna –, poi si parte. A me e a Simon vengono assegnati due cammelli da cavalcare; il suo si chiama Ökelebu, il mio Amusha.

Per fortuna la carovana si ferma dopo tre ore di marcia. Sono stanco, sfinito dalla cavalcata benché sia rimasto in sella non più di un’ora. Il vero viaggio attraverso il deserto comincerà sul serio solo il giorno successivo, con una marcia di dieci ore. Simon, che non ha mai smesso di cavalcare, non mostra alcun segno di stanchezza. Toglie la sella ai cammelli, lega loro le zampe e osserva i guardiani mentre montano il campo. Anche dopo il pasto serale, che il nostro cuoco tuareg ha preparato su un piccolo falò, Simon gironzola fra i cammelli, che a gruppi di cinque, disposti a stella, stazionano intorno a un mucchietto di fieno.

Ogni cosa sembra avere il suo posto preciso, come il firmamento, molto più luminoso che da noi in Europa. Al mattino, dopo una notte in tenda e una colazione frugale, la nostra giornata inizia secondo un programma stabilito. Chi e come caricherà quale cammello – ogni cosa è parte di un rito che viene rispettato giorno dopo giorno. Quando il capocarovana si mette in moto tenendo per le briglie il suo cammello, viene dato il segnale, e pochi minuti dopo siamo tutti in movimento. Gli animali sono suddivisi in tre gruppi legati fra loro, procedono leggermente di traverso e sempre alla stessa velocità. Non accennano mai a fermarsi. Quando io o Simon scendiamo dal cammello e procediamo a piedi siamo obbligati a correre dietro alla carovana, per tenere il passo. Altrimenti resteremmo indietro, e con ogni probabilità ci perderemmo.

Per quanto a un’occhiata superficiale il ritmo della carovana dei cammelli possa apparire lento, tenerle dietro è molto faticoso. Simon, che cavalca molto bene, riesce a rimanere in sella anche otto ore piene e non mostra alcun problema. Io invece, che alla cavalcata alterno il cammino a piedi, a tratti faccio fatica. Tuttavia mi abituo in fretta, e pochi giorni dopo la marcia attraverso il Ténéré diventa per me una specie di esercizio di meditazione.

Nella vastità del Sahara.

Nella vastità del Sahara.

Dietro di noi resta una traccia leggera che il vento ben presto cancella. A destra e a sinistra il deserto sembra perdersi nell’infinito, a una distanza incalcolabile. Di fronte a noi sembra dissolversi nell’azzurro pallido del firmamento. Stiamo attraversando un pianeta nostro, una vastità solenne e indisturbata. Nessun artificio, nessuna sporcizia, ma tanta aria da inspirare ed espirare. Nel nulla immenso del deserto la grandezza dell’Africa diventa palpabile così come la nostra piccolezza.

I giorni trascorrono tutti allo stesso ritmo. Partenza poco dopo l’alba. Per dieci ore la carovana attraversa l’altipiano fra creste di sabbia, formando un’invisibile linea serpeggiante. Ci fermiamo appena il sole tramonta. Mezz’ora più tardi il campo è allestito. Cena sotto le stelle! È mai possibile vivere in maniera più intensa? No, perché se il paradiso esiste, non è certo nelle grandi metropoli, dove milioni di persone sgomitano nel rumore, nell’affanno e nel bisogno di attenzione, bensì in quella vastità e in quella quiete che da millenni l’uomo avverte come il nulla. Inizio e fine del nostro mondo. Simon non sta bene. Problemi di stomaco? Per due giorni interi sta in sella come un sacco, apatico. Ma non getta la spugna! A Fachi, una piccola oasi a metà del percorso verso Bilma, si riprende e riesce così ad apprezzare la seconda parte del viaggio; duecento chilometri senza nemmeno una pianta o un arbusto – una marcia attraverso il suo mondo dei sogni.

È sera quando raggiungiamo Bilma. Il momento dell’addio! Simon, al quale i guardiani dei cammelli si sono affezionati in modo particolare, non se ne vuole andare. Il ritorno in fuoristrada gli sembra del tutto banale. La carovana invece potrà tornare a immergersi totalmente in quella vastità incommensurabile. Quando saliamo sul Land Cruiser, la carovana al campo non è già più la nostra, benché per noi abbia significato una casa, una guida e un rifugio per la notte. Dieci giorni. Davanti a lei l’infinito, il mistero, la vacuità del nulla. Davanti a noi il ritorno nel mondo civilizzato.

(TV Hören und Sehen, aprile 2004)

DUEMILA CHILOMETRI DI SOLITUDINE

Non mi sono mai sentito così sfinito ed esausto come dopo il deserto del Gobi, al confine fra Cina e Mongolia. Non puoi mollare adesso, mi dico, e con il mio corpo oppongo resistenza alla tempesta, piegato sotto il peso dello zaino, la faccia girata. Ho smesso di parlare da solo, di fischiare o cantare. Non emetto più alcun suono, ho la lingua gonfia, non riesco più a muoverla, faccio fatica anche a pensare. Quando guardo davanti a me, vedo solo il deserto, vuoto come la mia anima.

Con sguardo furtivo cerco le yurte all’orizzonte, anche se so bene che qui non ci sono più pastori. Dove manca la vegetazione gli animali non possono sopravvivere, e senza animali nemmeno l’uomo. Fin dall’età della pietra non esiste più vita umana nel Gobi. Eppure là c’è una chiazza chiara sullo sfondo confuso del deserto di detriti – è il costato bianco di un cammello.

Il panico è l’inizio della fine. In questo momento non posso perdere né il tempo né il controllo, se non voglio mettere in gioco la mia vita. Questo deserto è straordinariamente vasto e tuttavia è possibile attraversarlo passo dopo passo, se non viene meno il coraggio. Ogni passo mi avvicina al prossimo pozzo. Già da un po’ ho rinunciato a tenere il conto dei giorni; ho maledetto me stesso e ho cercato di immaginare come sarebbe tornare a casa, sedersi a tavola a fare colazione, mentre fuori è tutto verde. Che sciocchezza, affrontare alla mia età un deserto di questo tipo; adesso è troppo tardi per tornare indietro. Non posso più farlo: riuscirò a sfuggire a questo deserto solo puntando a occidente. A me stesso, invece, probabilmente non sfuggirò mai e in nessun luogo.

Per più di quarant’anni mi sono gettato in imprese rischiose, sono sempre ripartito per una nuova avventura. Adesso vorrei vincere questa partita per l’ultima volta. Ho seguito un sogno antico e sono venuto qui per attraversare da est a ovest il secondo deserto più vasto del mondo – ma forse anche per imparare a invecchiare.

Il Gobi è lungo duemila chilometri e largo mille. Occupa un buon tratto della Mongolia e fa parte di quell’immenso territorio di steppa e di monti fra il Tibet e il lago Bajkal, in Siberia. Alcune centinaia di migliaia di persone vivono nelle steppe che circondano il poco accogliente deserto di pietra, insieme a gazzelle, puledri allo stato brado e, grazie a un programma di protezione, da non molto anche cammelli selvatici. Qui per la prima volta furono addomesticati pecore, capre, cammelli e cavalli – oggi i nomadi vivono come migliaia di anni fa: attraversano le steppe con le greggi, riparandosi nelle yurte, queste tende fantastiche, fresche in estate e calde in inverno. Anche se oggi sono in grado di sfruttare l’energia solare ed eolica e comunicano via satellite, sono consci del fatto che solo la conoscenza della loro antichissima cultura nomade rende possibile la sopravvivenza nel Gobi, dove regna un clima continentale estremo, con l’escursione termica più significativa della Terra fra estate e inverno e fra il giorno e la notte.

Con il treno delle ferrovie mongole mi sono recato dalla capitale Ulan Bator alle propaggini più orientali del Gobi, al punto di partenza della mia avventura. Dal finestrino vedo il deserto che scivola via; non mi è mai capitato prima di osservare un paesaggio altrettanto vuoto e ostile, ed è in questa natura che mi propongo di camminare per sei o otto settimane: non riesco nemmeno a figurarmi quanto mi sentirò abbandonato. Poi però, lungo il percorso verso occidente, trovo ovunque aiuto e ricovero presso i nomadi. Una volta è un camion, una volta un motociclista che mi carica per un tratto; per tre giorni mi aggrego a una carovana a cavallo, fino a quando non riesco più a stare seduto sulla sella di legno che usano i pastori.

Cosa darei ora per un cavallo, un cammello, un segno di vita! Ma qui, nel cuore di fuoco del Gobi, non c’è più vita. Devo arrangiarmi con la scorta d’acqua che riesco a portare con me. Se esaurisco l’ultima goccia prima di aver terminato la traversata e raggiunto un pozzo, sono perduto. Ho calcolato il mio consumo, ma il deserto è imprevedibile. Il mio progetto viene giudicato irresponsabile da chi è convinto che si debba morire nel proprio letto.

Il mio problema è come avanzare. Non sono più così veloce né resistente come una volta. I postumi degli incidenti che ho subito mi creano problemi; il tallone destro è gonfio fino all’arco plantare. Di sicuro avrei potuto continuare a fare il parlamentare, spendendo la mia vita fra una camera d’albergo e l’aula e percependo una pensione adeguata al termine di due legislature. I miei figli non si sarebbero più dovuti inventare scuse per giustificare un padre che obbedisce alle sue passioni. Invece sono qui ad attraversare un deserto, in una forma fisica non buona, e ogni tanto mi arrabbio con me stesso.

Monto la tenda in un avvallamento del terreno; in un punto protetto dal vento, che nel pomeriggio si è trasformato in tempesta di sabbia. La tenda pesa non più di un chilo e occupa poco spazio, ciò nonostante mi protegge da tempeste e freddo. Mangio e bevo al riparo, poi mi metto subito a dormire. Durante la notte i miei pensieri vengono attraversati da immagini di cammelli morti, e mi tolgono ogni speranza.

Il contorno che la tenda ha disegnato sulla sabbia viene spazzato via dal vento prima ancora che il mio zaino sia pronto. Dietro di me le impronte si perdono già dopo pochi metri, come se non fossi mai esistito. Il sole splende nel cielo terso; a mezzogiorno il caldo raggiunge la punta massima. Si alzano vortici di sabbia, come se due venti danzassero insieme. Faccio un rilevamento con il GPS del mio orologio, per non allontanarmi dal percorso più diretto.

È difficile valutare le distanze nella luce diffusa del deserto. Fra i coni di deiezione vedo scorrere dell’acqua, o il baluginio della superficie di un lago; una volta vedo una carovana che si muove all’orizzonte – ma alla fine capisco che sono solo fenomeni dovuti al caldo. Poi, ma è sempre un’illusione ottica, mi appare un campo con cavalli e cammelli; non ci faccio caso e proseguo come posso. Solo quando vedo esattamente davanti a me un ragazzino con il suo grosso cane, mi rendo conto di avercela fatta, ancora una volta. Mi sveglio tardi; i nomadi, che hanno dormito accanto a me nella yurta, già da un pezzo sono usciti ad accudire le bestie. Ne sento i richiami e i canti. Ho raccontato loro del mio viaggio fino a tarda notte – con il linguaggio dei gesti e in tedesco: hanno risposto in mongolo, ma ci siamo capiti benissimo. Mi hanno dato l’airak, il latte di giumenta fermentato, che placa la sete e allo stesso tempo rinvigorisce; poi una pasta in brodo con molto grasso, tè e pane.

Mi domando come questa gente possa sopravvivere qui. Solo per cento giorni all’anno non gela, in inverno la temperatura scende oltre i meno quaranta. Il Gobi è senza pietà, ma sa essere più accogliente delle nostre città! In tutte le yurte sono stato accolto amichevolmente; non avevo mai sperimentato un simile trattamento e altrettanta partecipazione, benché nessuno riuscisse a capire quel che facevo. Del resto, perché mai i nomadi dovrebbero capire uno che viaggia senza un motivo, al solo scopo di dominare il deserto, ma solo per la propria soddisfazione personale?

(TV Hören und Sehen, aprile 2005)

«FARE RITORNO PRESSO GLI UOMINI È LA CHIAVE DI OGNI AVVENTURA»

Dopo aver attraversato a piedi la Groenlandia, il Tibet orientale e l’Antartide, lei si è impegnato nell’attraversamento del deserto del Gobi – naturalmente a piedi. Cosa l’ha affascinata in questa avventura?

Quello che mi interessa quando sono in giro non è quanto succede nell’ambiente in cui mi muovo. Non sono le conquiste scientifiche o geografiche, bensì le risposte alle domande che come esseri umani ci poniamo. Per questo vado sempre a piedi e senza grandi supporti tecnologici.

Anche dei grandi esploratori e ricercatori del passato mi interessano veramente solo quelli che senza una particolare protezione si sono spinti in un territorio sconosciuto e inviolato, per poi raccontare quello che hanno sperimentato fra la vita e la morte. Oggigiorno i satelliti hanno indagato qualunque porzione di mondo, tutto è a portata di sguardo. Ma dentro di me esiste ancora uno spazio sconosciuto. Voglio sapere cosa succede negli angoli più oscuri della mia anima. Cosa faccio nel deserto se mi ritrovo senz’acqua? Cosa faccio in Antartide se finisco in un tratto crepacciato e non riesco ad andare né avanti né indietro? Cosa faccio su una parete di roccia se mi sfugge una presa? Posso trovare le risposte a queste domande e ad altre simili solo se rinuncio volontariamente e quasi totalmente alla tecnologia, confidando solo in me stesso.

E come mai è andato in cerca di questo tipo di avventura proprio nel deserto del Gobi?

Non so dirglielo di preciso. Una sola cosa: dopo la mia solitaria del 1980 sull’Everest, il primo sogno di tentare un’impresa sul piano orizzontale è stato proprio quello della traversata del Gobi. Forse questo sogno era influenzato dai resoconti di Sven Hedin e dalla sua traversata del Gobi nella prima metà del ventesimo secolo, di cui avevo sentito qualcosa. Già allora riuscivo a immaginare l’immensità del Gobi. Il fatto che abbia di continuo rimandato il progetto di traversare il Gobi ha due motivi fondamentali. Innanzitutto volevo prima portare a termine alcuni progetti sugli ottomila, in secondo luogo c’erano alcuni ostacoli di tipo politico. Il Gobi è situato fra Cina e Mongolia, e all’epoca quest’ultima era nella sfera d’influenza sovietica. Le autorità cinesi non permettevano a nessuno di recarvisi. Per parecchio tempo, quindi, mi trovai nella condizione di non poter realizzare il mio grande desiderio. Poi, per cinque anni, fui deputato al Parlamento europeo a Bruxelles. Al termine del mio mandato, nel 2004, per me fu chiaro: ora o mai più.

Cosa rende straordinario questo deserto?

Il fascino del Gobi dipende dalle vicende di cui è stato teatro. Conoscevo molto poco di queste vicende, ma ho subito immediatamente il fascino del Gobi. È un deserto di detriti sassosi, una catena montuosa che si sbriciola. A destra e a sinistra è chiusa da alti rilievi in lenta disgregazione. L’idea che ogni montagna diventerà lentamente un deserto ha qualcosa di ultraterreno: nel giro di un paio di centinaia di migliaia di anni anche le Dolomiti si sgretoleranno, e lo stesso accadrà in Himalaya, a meno che il subcontinente indiano non venga spinto ancor più vicino all’Asia centrale dalla deriva dei continenti. In questo caso la catena centro-asiatica si solleverà di nuovo. Ma alla fine tutto si sbriciolerà. Lo stesso vale per l’uomo: sì, anche l’uomo tornerà a essere polvere. Quando invecchiamo, somigliamo al deserto: ci sbricioliamo, ci disfacciamo e veniamo a mancare, per gli altri. Questo non significa che scompariamo, ma solo che ci dissolviamo. Le antiche montagne del Gobi ci sono ancora, non più nella loro verticalità, bensì solo come detriti sassosi. Magari morire è come perdersi nel deserto. Il nulla e l’infinito coincidono. Nel Gobi tutto ciò diventa visibile e tangibile.

Lei si sentirebbe di dire che la vastità e il vuoto del deserto forniscono una risposta alle domande esistenziali dell’uomo?

Del resto non siamo mai stati in grado di trovare risposte alle domande essenziali della nostra esistenza: da dove veniamo? Dove andiamo? Da sempre l’uomo si pone queste domande, e le religioni cercano di trovare risposte. Sono una manifestazione della natura umana.

Nel vuoto del deserto non ho più bisogno di risposte. Sono davanti a me, anzi, le vedo dappertutto intorno a me. Veniamo dal nulla, e nel nulla torniamo. In fondo, è molto semplice. Ma nella frenesia della vita quotidiana perdiamo di vista questa risposta così chiara. Là, nel Gobi, non avevo bisogno di pormi altre domande. Magari i miei atomi riemergeranno sotto forma di piante o animali. La vita continua. Solo la mia coscienza si perde. L’essere dura molto più della coscienza. Ma ciò non significa che la nostra esistenza non abbia senso. Tutti attribuiamo un certo significato alla nostra vita. So che non è sensato attraversare il Gobi a piedi. Eppure posso fare in modo che ogni impresa mi appaia sensata. Più sono capace di creare significati, e più avanti arriverò.

Al centro delle sue imprese c’è la ricerca della solitudine totale. C’è differenza fra la solitudine nel deserto e durante un’impresa in montagna?

Sì, c’è differenza. Quando cerco, con fatica, di arrivare in vetta all’Everest in solitaria, non sono poi così distante dal mondo umano: posso immaginare sotto di me il campo base, e sono consapevole del fatto che nel giro di un paio di giorni sarò di ritorno. Tuttavia procedo così lentamente e faticosamente, che nella mia coscienza l’ultimo tratto diventa molto più lungo di quanto non sia in realtà. Di conseguenza anche la solitudine si fa sentire in modo molto più profondo. Quando sono nel deserto, sono ben consapevole della sua grandezza. Il fatto però che a sera mi ritroverò con degli indigeni, anche se non parlo la loro lingua, mi trasmette una grande tranquillità. Se invece mi trovo a camminare in Antartide, so bene che non incontrerò mai nessuno, con una sola eccezione: una stazione di ricerca. Il vero e proprio climax, e questo vale per qualunque situazione al limite, non è il raggiungimento della vetta o di un altro traguardo qualsiasi, bensì la possibilità di tornare da un mondo ostile all’uomo a quello popolato dagli uomini. Il ritorno agli esseri umani costituisce la chiave di ogni avventura.

Nel corso delle sue imprese affronta consapevolmente grossi rischi?

Già molto tempo fa ho approntato una specie di ABC essenziale per le mie imprese: A, no artificial oxygene, niente ossigeno artificiale, indipendentemente dall’altezza alla quale arrampico. B, no bolts, quindi nessun impiego di chiodi a espansione nell’arrampicata su roccia. Piantando i chiodi a espansione posso arrampicare qualunque tipo di roccia – così non esiste più l’impossibile. Ma se l’impossibile svanisce, non esiste nemmeno la possibilità di verificare fin dove posso spingermi. Infine C, no communication, quindi nessuna comunicazione con l’esterno. Se dal Polo Nord posso chiamare la mia famiglia in Alto Adige e informarli che tutto sta andando per il meglio, si tratta di una vacanza, non certo di un’esperienza al limite. Perciò rinuncio spontaneamente alla moderna comunicazione via satellite. Aggiungo: non lasciare tracce e andare là dove non vanno in molti. Imparo compiendo piccoli passi. Quindi no agli stivali delle sette leghe, altrimenti il mio comportamento sarebbe troppo pericoloso. Un errore grossolano potrebbe portarmi alla morte, mentre agli errori piccoli si può rimediare. Non che il mio sistema non tolleri errori. Cerco solamente di cavarmela calcolando gli errori più piccoli ed evitando quelli più gravi. Ciò mi spinge a intraprendere azioni di pericolo mortale, con la ferma volontà di non morire.

Con le sue imprese al limite lei si impegna anche affinché questi spazi eccezionali continuino a restare un terreno d’esperienza per l’uomo...

Se il Gobi dovesse essere interpretato solo come luogo per l’estrazione di petrolio, oro, diamanti – ed è proprio in questa direzione che si muove lo sviluppo –, fra una decina d’anni non sarà più possibile sperimentarne il vuoto, la solitudine, le paure. I nomadi verrebbero impiegati nell’industria, le greggi verrebbero cacciate e così scomparirebbero la loro organizzazione economica e gli ultimi resti della loro cultura. Ancora oggi nel Gobi sono poche le zone adibite a pascolo. Ma i pascoli si riducono, e i nomadi perdono ogni motivazione per rimanere – ormai parecchi pozzi sono stati abbandonati. A ogni modo, è importante incontrare qualche essere umano di tanto in tanto, altrimenti non sarei mai riuscito a coprire tutti i duemila chilometri. Solo nella parte centrale il Gobi è assolutamente disabitato.

Dopo Ténéré, Takla Makan e Thar, la traversata longitudinale del Gobi è stata la mia esperienza più significativa nell’ambiente desertico.

Dopo Ténéré, Takla Makan e Thar, la traversata longitudinale del Gobi è stata la mia esperienza più significativa nell’ambiente desertico.

Quali conseguenze culturali e sociali derivano dal lento decadimento del nomadismo e dalla diffusione progressiva della tecnologia?

Oggi molti giovani nomadi si trasferiscono a Ulan Bator, nella zona più popolata della Mongolia. La loro speranza di poter condurre una vita diversa nella capitale è fondata. Non è facile sopravvivere nel deserto. Naturalmente, a Ulan Bator non tutti trovano lavoro e molti, non più nomadi, cercano di tornare alla vita precedente, ma senza successo, poiché ormai hanno perso molte capacità indispensabili. Anche se rispetto al passato è un po’ più facile, poiché durante l’occupazione comunista i sovietici hanno creato piccoli villaggi con scuole, pronto soccorso, centrali termiche. Luoghi dove i nomadi si aggregano durante la stagione invernale. Ma così hanno perso la capacità di sopravvivere in inverno all’aperto, nel Gobi. Tutti cercano la vicinanza dei centri abitati, e i terreni vengono sfruttati intensivamente a pascolo.

Secondo lei dove va ricercata l’origine di tale sviluppo?

La causa principale è la globalizzazione, che qui si mostra con chiarezza. Molti credono che la globalizzazione sia un mostro tentacolare che avvinghia il pianeta distruggendo valori, forme di vita, strutture. Tutto ciò non ha senso. Nessuno ha portato, voluto e previsto la globalizzazione. Nel Gobi mi è capitato di vedere una yurta con l’antenna parabolica e un piccolo pannello solare. La sera una ventina di nomadi si ritrovavano lì davanti alla televisione – le immagini erano davvero poco nitide – per assistere a programmi trasmessi da Mosca o Pechino. Paralizzati dallo stupore, quegli uomini osservavano il mondo globalizzato.

È facile prevedere che il nomadismo, conservatosi tale e quale per millenni, prima o poi si perderà. Non perché sia necessario. Se gli uomini continuassero ad abitare il deserto e non sapessero che esiste un altro mondo, non metterebbero mai in discussione il loro modo di vivere. Fino a non molto tempo fa i nomadi del Gobi non sapevano nulla dell’Europa e dell’America. Vivevano la loro vita, da soli. La globalizzazione ha cancellato questo aspetto. Oggi i nomadi passano la frontiera con la Cina per acquistare o importare merci. Così nascono nuovi mercati. Qui ho capito che la globalizzazione ha a che fare innanzitutto con i nuovi mezzi di comunicazione. Il vecchio mondo si dissolve a passi molto rapidi.

Alla luce di questo sviluppo, c’è secondo lei da temere che la cultura nomade nella sua globalità sia destinata a scomparire?

Non posso dare giudizi sul piano globale. Ma sto progettando di unirmi nei prossimi anni a gruppi di nomadi per capire quanto sopravviva della loro cultura. La cultura nomade si è sviluppata relativamente tardi. L’uomo, che aveva imparato a addomesticare gli animali e a coltivare le piante da frutto, si trovò di fronte a due opzioni: da un lato passare di pascolo in pascolo e sopravvivere grazie agli animali, dall’altro radicarsi in un luogo e dedicarsi all’agricoltura. Chi optò per la prima possibilità divenne nomade, chi per la seconda contadino. Le cose quindi non andarono affatto come si suppone spesso, cioè che dopo una prima fase di nomadismo queste popolazioni divennero sedentarie. Si arrivò a una separazione, a forme di vita parallele. Se a questo punto i nomadi rinunciano al tipo di vita che hanno condotto finora, l’umanità perde un grande tesoro: istinti, conoscenze, know-how. Basti pensare a moltissimi prodotti derivati dal latte – addirittura una grappa di latte, che ha il gusto di uno spumante vigoroso e che loro bevono come digestivo. Costruiscono le loro abitazioni, le yurte, dove si vive bene a quaranta gradi sotto zero come con il caldo più torrido. La yurta è la casa ideale per il Gobi. Si smonta in un’ora, si carica su cinque cammelli e nel giro di due ore si può rimontare altrove. Questo non è il solo motivo per cui è importante salvaguardare la cultura nomade. Vale la pena conservare e tutelare tutto ciò che questi uomini hanno sviluppato nel corso dei millenni in quanto a tecniche di sopravvivenza. Non si può mai sapere, un giorno potrebbe tornarci utile!

Tenendo conto di tutto ciò, come giudica lo sviluppo industriale della Cina, sempre più rapido e aggressivo?

Non ho alcun dubbio che nel giro di vent’anni la Cina sarà la più grande potenza mondiale. La forza dell’economia cinese sostituirà la supremazia militare su cui attualmente si fonda il paese. La politica industriale cinese e indiana permetterà a questi paesi di inondare rapidamente il mercato globale con i loro prodotti. Ciò deriva senza dubbio dalla peculiarità del sistema politico cinese, un miscuglio di comunismo, brutale economia di mercato e residui di fascismo. Lo sviluppo sarà così veloce che il mondo occidentale non riuscirà a reagire altrettanto prontamente. Le potenze industriali europee hanno decisamente sottostimato la velocità del processo di globalizzazione.

E quale ruolo svolgerà la Mongolia in tutto ciò?

La Mongolia tenterà di prendere posizione fra la Federazione russa e la Cina. La Federazione russa potrà mantenere la sua forza anche nei prossimi decenni grazie alle ricchezze petrolifere e alle materie prime, ma non potrà contare su altro. Il suo sistema politico è un caos più o meno controllato, in parte mafioso. Ma come proprietaria di fonti energetiche la Russia detiene, in un’era in cui il costo dell’energia è sempre più elevato, un potere economico considerevole. Nei prossimi vent’anni, in politica estera l’Occidente si dovrà preoccupare di rendere più significativo il ruolo della Mongolia come ammortizzatore fra la Federazione russa e la Cina. I mongoli dovranno decidere dove andare a lavorare: in Siberia o in Cina. È anche possibile che la Cina dislochi alcuni dei suoi impianti industriali in Mongolia – a Ulan Bator e dintorni. Difficilmente la Mongolia riuscirà a essere economicamente autonoma, a meno che le materie prime, che si spera di trovare nel Gobi, non si rivelino così consistenti da garantire al paese ingenti diritti d’estrazione – ma non esiste ancora una tecnologia in questo senso.

Per quanto concerne paesi come la Cina o la Mongolia, è legittimo parlare di una coscienza ecologica?

Noi europei abbiamo una visione più chiara sui temi ecologici e socio-politici. Oggi non si tratta più solo di esportare automobili e altri prodotti industriali. Si possono esportare anche idee politiche forti. detto questo, sono piuttosto pessimista sulla situazione europea: non siamo riusciti ad approvare la costituzione, e siamo ancora senza una vera politica estera europea. L’Europa deve poter esprimere una posizione univoca in politica estera. Su certi temi – ambiente, energia, pace – in un mondo globalizzato si deve poter dare delle risposte globali. Perciò dobbiamo impegnarci per avviare i colloqui non solo con i paesi industrializzati, ma anche con i cosiddetti paesi in via di sviluppo. La guerra in Iraq è stata fatale perché ha pregiudicato l’apertura, urgente quanto importante, al mondo musulmano.

(Wortwechsel, 2005)